Le indagini su via D’Amelio e la regia del depistaggio: così La Barbera “imboccò” Scarantino

Le ombre sul ruolo del superpoliziotto sono cominciate ad affiorare un decennio fa quando un magistrato disse «La Barbera non fa prigionieri»

Oggi Caltanissetta è l’ombelico del mondo giudiziario. Ma non lo era nel 1992. Quando scattò l’ora di indagare sugli attentati di Capaci e via D’Amelio i procuratori si trovarono disorientati. «Non avevamo esperienza con la criminalità organizzata», ha confessato il magistrato Paolo Giordano agli onorevoli della Commissione regionale antimafia presieduta da Claudio Fava, che sul caso Borsellino ha dedicato più di un’inchiesta. Un capitolo è stato riservato alla figura del poliziotto Arnaldo La Barbera e sul suo ruolo nel più grande depistaggio d’Italia. Le bufale del pentito Vincenzo Scarantino sulla morte del giudice e degli agenti della sua scorta portano la firma del superpoliziotto.

La “manina” di La Barbera

Sul ruolo di La Barbera, per i servizi segreti “Rutilius”, si sono concentrati i magistrati nisseni. Per i pm ci sarebbe la sua “manina” nella sparizione dell’agenda rossa di Borsellino. Quei fogli sarebbero zeppi di appunti e note del giudice assassinato il 19 luglio del 1992 davanti il portone della madre. Il magistrato avrebbe affidato a quei fogli riflessioni e annotazioni collegate anche alla strage di Capaci. Paolo Borsellino era il naturale erede di Giovanni Falcone. Il giudice aveva fame di verità dopo l’esplosione del tritolo a Capaci. Per rendere giustizia all’amico-collega fremeva di essere interrogato dalla procura di Caltanissetta. Convocazione che non arrivò mai nei 57 giorni che separano i due attentati. Borsellino è morto contando i giorni, i minuti, forse i secondi. Lo sapeva che il prossimo sarebbe stato lui. Forse sperava di avere più tempo.

Il “salvatore” della questura di Palermo

La Barbera era giunto a Palermo nel 1988. Fu accolto come il “salvatore” della questura. «Io, Tinebra e Petralia – ha ricordato Giordano – non avevamo esperienza lavorativa per quanto riguarda le organizzazioni criminali di Palermo e anche di Caltanissetta, quindi quando noi siamo stati proiettati in questa nuova realtà, noi avevamo fiducia in quello che diceva La Barbera, perché a quell’epoca era, non voglio esagerare, ma sicuramente era fra i migliori investigatori d’Italia». Le ombre sul ruolo del superpoliziotto sono cominciate ad affiorare un decennio fa quando un magistrato disse «La Barbera non fa prigionieri». Il pm Domenico Gozzo ha chiarito all’Antimafia cosa intendesse con quell’espressione: quando l’ex capo della squadra mobile palermitana (ormai defunto) si convinceva della responsabilità di qualcuno, partiva con una serie di piccole contestazioni fin quando poi non arrivava la stangata.E poi ci sono le stranezze. Che i pm nisseni non riuscirono a cogliere. La Barbera, senza ancora conoscere la macchina utilizzata per l’attentato di via D’Amelio, dispose un sopralluogo nel garage dell’officina di Orofino che aveva denunciato la sparizione delle targhe di una Fiat 126. Come faceva La Barbera a predire questi sviluppi a poche ore dalla strage? Qualcuno informò il capo della squadra mobile di Palermo e quegli elementi (l’atto, la targa, il furto…) erano, come dire, già noti per altre vie agli investigatori? Queste sono le domande a cui hanno cercato di dare una risposta i deputati della commissione antimafia regionale guidata da Claudio Fava nel 2018.

Il “pupo” Scarantino

Il defunto poliziotto ha “vestito il pupo” Vincenzo Scarantino. Questo è scritto ormai nelle sentenze. Un pentimento scaturito da tanti colloqui investigativi firmati dai sostituti che all’epoca lavoravano a Caltanissetta. Incrociando la documentazione è venuto fuori che non era solo Scarantino ad essere “imboccato” sulla ricostruzione della strage ma anche Francesco Andriotta e Salvatore Valenti, altri due falsi pentiti. Nonostante l’arrivo di boss di Cosa nostra come collaboratori di giustizia la “tesi Scarantino” è rimasta tale e quale fino al 2008. A scoperchiare il vaso di Pandora è stato Gaspare Spatuzza “u tignusu” , il killer dei Graviano. La Barbera aveva carta bianca. Fiducia massima. I magistrati nisseni, guidati da Giovanni Tinebra (morto nel 2017), gli diedero nel gennaio 1993 le deleghe ad personam. Era la vigilia dell’arresto di Bruno Contrada, l’altro poliziotto pieno di ombre. L’unico ancora vivo che forse potrebbe dire la verità. Invece di stare zitto. Le dichiarazioni di Scarantino diventarono “vangelo”, superando tre gradi di giudizio. Un abbaglio giudiziario senza precedenti. Il depistaggio è partito immediatamente. E c’è la firma di La Barbera.

 

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