10.2.1999 🟄 Appalti, ecco perché fu ucciso Borsellino

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C’è del marcio in Procura ?
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Dentro il pozzo nero di questa storia ci potrebbero essere le tracce per dare risposte a qualche capitolo irrisolto delle cronache siciliane.
Sono tracce che potrebbero spiegare perche’ il disvelamento della ā€œcorruzione sistemicaā€ dell’ amministrazione e dell’ economia italiane, che e’ stato a portata di mano in Sicilia, e’ cominciato soltanto l’ anno dopo a Milano con Mani pulite.
Si potrebbe finalmente capire perche’ con tanta, troppa precipitazione Cosa Nostra ha ucciso Paolo Borsellino.
Forse, per venire ai giorni nostri, si potrebbe anche comprendere perche’ da un giorno all’ altro al generale Mario Mori, comandante del Ros (il nucleo d’ eccellenza investigativa dei carabinieri), e’ stato dato il benservito.
Dopo le accuse del Ros, i magistrati di Caltanissetta dovranno chiarire i molti punti oscuri dell’istruttoria mafia – appalti
ā€œUn pm proteggeva Provenzano?ā€ Caso Siino, il gip ordina una nuova inchiesta sulla Procura di Palermo
A dirla chiara, questa storia dovrebbe cominciare con un interrogativo che fa arrossire: nella Procura di Palermo c’ e’ stato (e magari c’ e’ ancora) un magistrato (piu’ d’ un magistrato) che ha maneggiato al disinnesco dell’ inchiesta Mafia & Appalti? Era, quella su Mafia & Appalti, un’ inchiesta con i fiocchi condotta (anno 1991) dai carabinieri del Ros del generale Mario Mori.
Secondo l’ Arma, esisteva in Sicilia un tavolo trilaterale (politici – mafiosi – imprenditori) che governava l’ intero volume degli affari pubblici dell’ isola. Ricordano al Ros: ā€œA nostro avviso, gli imprenditori e i politici nazionali, come i politici e gli imprenditori siciliani, non subivano la presenza della mafia. Al contrario, consapevolmente ne accettavano la presenza, convinti che quel terzo ā€œsocioā€ avrebbe difeso il sistema e ne avrebbe aumentato i profittiā€. Si sa come fini’ .
I carabinieri consegnano ai procuratori di Palermo la prima ā€œinformativaā€ nel febbraio 1991. In tempo reale, il dossier e’ nelle mani di Cosa Nostra. Chi viola il segreto? E perche’ ? E’ colluso? Complice? O, minacciato, e’ un pavido?
L’ inchiesta, comunque, si sgonfia presto.
Volano soltanto gli stracci. Si salvano gli imprenditori di riferimento di Salvatore Riina (Nino e Salvatore Buscemi) come le grandi societa’ del Nord al lavoro in Sicilia (la Calcestruzzi di Gardini vicina ai socialisti e la Tor di Valle di Catti – De Gasperi, la Rizzani de Eccher care al potere democristiano, le cooperative rosse).
E’ il primo paragrafo della storia. Il secondo ha i vapori venefici che a Palermo fanno da sfondo ai conflitti tra gli apparati dello Stato. Novembre 1997.
Un capitano del Ros, Giuseppe De Donno, testimonia alla Procura di Caltanissetta che, a dar fede alle confidenze di Angelo Siino (un mafiosaccio ritenuto ā€œil ministro dei Lavori pubblici del governo corleoneseā€), quel dossier fini’ nella mani di Cosa Nostra.
Dice De Donno: ā€œSiino mi spiego’ che, nei primi mesi del 1991, entro’ in possesso della nostra informativa sugli appalti. Mi disse di averla ricevuta da alcuni magistrati della Procura.E mi fece i nomi dell’ allora procuratore Pietro Giammanco e di due sostituti, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatoneā€.
Apriti cielo! Giancarlo Caselli denuncia una manovra ā€œgravemente sospetta per i tempi, i modi e gli obiettiviā€.
Il generale Mario Mori difende il suo capitano. Si approssima una partita che non prevede il pareggio perche’ delle due, l’ una: o il capitano, sostenuto dall’ Arma, mente o, se non e’ un calunniatore, c’ e’ del marcio in Procura.
Il dissidio sembra senza via d’ uscita eppure per quei bizantinismi che solo in Italia trovano cittadinanza, la terza via si riesce a trovare. I pubblici ministeri di Caltanissetta chiedono l’ archiviazione per l’ uno e per gli altri, per il capitano De Donno (accusato di calunnia) e per Giammanco, Lo Forte, Pignatone (accusati di corruzione).
Il generale Mori e il procuratore Caselli possono allora con letizia farsi vedere insieme a cena. E’ una pace di respiro corto perche’ , si sa, il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Cosi’ la storia si arricchisce di un terzo e quarto paragrafo. Terzo paragrafo. Guido Lo Forte non e’ soddisfatto dalle motivazioni dell’ archiviazione.
Vi intravvede qualche interrogativo di troppo e, con una memoria, chiede che l’ inchiesta possa continuare per liberarlo del tutto dal sospetto di collusione.
I procuratori di Caltanissetta, allora, prendono cappello e, a loro volta, sottoscrivono una memoria.
Scrivono che De Donno mai fece pressioni su Siino.
ā€œAgli atti vi e’ la prova che Siino non interpreto’ mai le asserite pressioni del capitano come un tentativo di fargli dire cose falseā€. Liberano l’ ufficiale da ogni volonta’ calunniatrice. ā€œā€¦vi erano per converso numerosi elementi che potevano ingenerare nell’ animo del capitano il convincimento, se non proprio di una corruzione, quantomeno di una collusione di Lo Forte con esponenti politiciā€.
Affermano come, a fronte del rapporto dell’ Arma, la Procura di Palermo senza ā€œalcuna curiosita’ investigativa sui rapporti mafia – politica – imprenditoriaā€ subito abbia minimizzato l’ intreccio.
La conclusione e’ all’ acido muriatico: ā€œSi evince che quando i carabinieri si stavano preparando a riferire sui politici e sui pubblici amministratori, la Procura chiede l’ archiviazione per gli imprenditoriā€.
Il quarto paragrafo lo scrive da cima a fondo il gip Gilda Loforti. Che ci pensa su e conclude che l’ inchiesta non si puo’ chiudere con un ā€œvogliamoci beneā€. Troppi i testimoni chiave non interrogati.
Troppi i nastri non trascritti correttamente. Insomma, scrive Gilda Loforti, ā€œl’ esame degli atti evidenzia l’ incompletezza delle indagini e la necessita’ di approfondimenti investigativiā€.
Il giudice con pedanteria elenca. Quando e come si penti’ Angelo Siino? Perche’ non e’ stato ascoltato il generale Nunzella (capo di Stato Maggiore dell’ Arma) che era a conoscenza dei rapporti tra De Donno e Siino? Perche’ mi avete dato soltanto le copie delle conversazioni intercettate e non gli originali? E perche’ in larga parte di quelle copie c’ e’ la formula ā€œincomprensibileā€? Perche’ alcune frasi presenti nelle trascrizioni dell’ Arma non fanno capolino nelle trascrizioni della Procura? Chi e’ , ad esempio, ā€œquel procuratore nelle mani di Provenzanoā€ che assicurava al boss una quieta latitanza a Bagheria? E’ vero che il sostituto Roberto Scarpinato ammise con il capitano di aver archiviato l’ inchiesta ā€œper le pressioni subite da parte di Lo Forteā€? Tutto da rifare, dunque. L’ inchiesta come le polemiche. Che, c’ e’ da giurarci, non mancheranno.
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Appalti, nuova pista per Borsellino. Il magistrato voleva riaprire l’ indagine insabbiata, incontro segreto con i vertici del Ros. Perche’ , il 19 luglio 1992, fu ucciso Paolo Borsellino? La sua morte si coniuga male con l’abituale, perche’ secolare, pragmatismo di Cosa nostra. Giovanni Falcone era morto da 48 ore.Ā 
Erano le 8 del mattino del 26 maggio e le stanze della Procura di Palermo erano deserte, ghiacce, gonfie di un silenzio oscuro come l’ angoscia.
Paolo Borsellino ragionava della ā€œconvenienzaā€ per la mafia di uccidere il suo amico a Palermo.
Diceva: ā€œPer killer e mandanti di mafia il problema piu’ importante e’ assicurarsi l’ impunita’ , che e’ una costante per i mafiosi. La certezza dell’ impunita’ e’ condizione essenziale per Cosa nostra. Nessun mafioso e’ disposto a rischiare anche un sol giorno di galera per un omicidioā€.
Ecco perche’ , dopo sette anni, e nonostante i processi e le condanne, le ragioni della strage di via D’Amelio stanno in piedi come un sacco vuoto. Anche il piu’ gonzo (o sanguinario) di quegli ā€œuomini del disonoreā€ avrebbe potuto prevedere che schiacciare con il tritolo la vita di Borsellino, a 56 giorni dall’ esplosione di Capaci, avrebbe rovesciato sulle loro teste le residue forze di uno Stato debilitato dagli arresti e dalle incriminazioni di Mani pulite. Bernardo Provenzano e Salvatore Riina devono aver messo in conto la spietata repressione dello Stato. Eppure, decisero quella mossa. Perche’ ?
Apparentemente Borsellino non era, in quel momento, una minaccia come poteva esserlo Falcone, Zar della lotta antimafia. Era in un angolo, messo nell’ angolo dal procuratore Pietro Giammanco.
Ha raccontato Lucia Borsellino a Umberto Lucentini (Il valore di una vita): ā€œPur di continuare a lavorare, papa’ era disposto ad accettare i limiti che gli pone sempre piu’ spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che, per motivi gerarchici, e’ costretto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza pero’ ricevere lo stesso flusso di informazioniā€.
Borsellino, nell’ estate del 1992, e’ un uomo in ginocchio.
Disperato per la morte dell’ amico, costretto a non mettere becco sulle indagini di Palermo, confinato alle inchieste di Trapani e Agrigento, imbrigliato sulla sua seggiola di procuratore aggiunto dal diffuso potere di Giammanco (che addirittura gli tace una notizia di ā€œun pesante segnale di pericolo per la sua incolumitaā€). Perche’ ucciderlo, allora?
I magistrati di Caltanissetta lo hanno chiesto ossessivamente ai disertori di Cosa nostra. Salvatore Cancemi era a Capaci e faceva ā€œla staffettaā€ a via D’ Amelio.
Ha risposto di ā€œnon saperloā€. Giovanni Brusca, che a Capaci addirittura schiaccio’ il pulsante dell’ attentatuni, ha detto di essere rimasto ā€œsorpresoā€ dalla morte del giudice. Si tocca con mano che le ragioni della morte di Borsellino sono piu’ segrete, piu’ intricate, meno trasparenti. Anche per alcuni boss della Commissione.
Anche dentro Cosa nostra. ā€œPerche’ fu ucciso Paolo Borsellinoā€ e’ comunque una domanda che puo’ avere una risposta.
Le possibili tracce di una risposta, gli indicativi segni per una spiegazione sono stati (e sono) sotto gli occhi di tutti. Pochi se ne vogliono curare (o sono a disagio a curarsene).
Pochissimi ne vogliono parlare (o scriverne). E tuttavia quelle impronte (non superficiali) ognuno, se vuole, puo’ maneggiarle soppesandone il valore e la densita’ .
Ha raccontato il pubblico ministero Antonio Ingroia, quasi un figlio adottivo per Borsellino: ā€œPaolo in quei giorni riprese in mano il famoso rapporto dei carabinieri del Ros su mafia e appaltiā€, un’ inchiesta nata con Falcone procuratore aggiunto e finita nelle mani di Giammanco.
Borsellino legge e rilegge ā€œi diari di Falconeā€, pubblicati dal Sole 24 Ore, che raccontano il conflitto in Procura che obbligo’ il giudice a lasciare Palermo. Dice Ingroia (Il valore di una vita): ā€œPaolo vuole approfondire quelle vicende, sente che si tratta di episodi che, letti in un modo isolato, possono sembrare inconsistenti, ma che per il solo fatto di essere stati scritti da un uomo come Falcone nascondono qualcosa di importante… In quei giorni Paolo contatta le persone citate negli appunti di Giovanni, i colleghi della Procura di cui si fida e che sono in grado di offrirgli nuovi particolari su quelle vicendeā€. Paolo Borsellino si convince che ā€œla causale piu’ probabile della morte di Giovanniā€ e’ nell’ intreccio degli appalti.
Ne parla con Leonardo Guarnotta, l’ amico del vecchio pool dell’ ufficio istruzione (oggi presidente del tribunale che giudica Dell’ Utri). E fa di piu’ .
In un caldo pomeriggio di meta’ giugno chiede al generale del Ros Mario Mori ā€œun incontro riservatoā€. Lontano dalla procura. In una stanza appartata della caserma dei carabinieri di piazza Verdi a Palermo. L’ annotazione di quell’ appuntamento, dicono, e’ ben chiara nell’ agenda del magistrato. Borsellino, da uomo franco, mette subito le carte in tavola.
Vuole la disponibilita’ di quello speciale nucleo d’ investigazione per un’ indagine che deve essere segreta. Chiede che il capitano Giuseppe De Donno gli sia accanto. E, d’
altronde, e’ l’ ufficiale che ha lavorato al Rapporto Mafia – Appalti, il piu’ indicato dunque per riprenderne le fila (vedi qui accanto la sua deposizione al processo, 4 dicembre 1998). E’ pero’ un lavoro che deve essere fatto a due condizioni.
La procura di Giammanco non deve sapere nulla; il capitano deve riferire soltanto a lui.
Leggere i verbali dell’ interrogatorio dell’ ufficiale e del generale Mori accappona la pelle.
Borsellino e’ un uomo assediato, convinto che li’ in quella Procura qualcuno ha tradito Falcone. Lo disse, senza tanti giri di parole, anche in quel mattino del 26 maggio: ā€œSoltanto in questo ufficio sapevano che c’ erano ormai i numeri per fare, di Giovanni, il procuratore nazionale. Soltanto in quest’ ufficio sapevano che sabato 23 maggio, per due anni, sarebbe stato l’ ultimo sabato a Palermo per Giovanniā€.
Nonostante il tempo scivolato via, angoscia il pensiero di un uomo consapevole che, se vuole dare un nome agli assassini e un perche’ alla morte dell’ amico, si deve guardare da alcuni ambienti della procura.
E, di piu’ , andare al limite della legge sollecitando indagini riservate e private. Si possono soltanto immaginare (forse) la disperazione, l’ affanno, la solitudine che ha spinto un servitore dello Stato come Borsellino a deformare le regole, rispettoso come ne era fino al tormento.
Non si possono, invece, immaginare l’ intreccio criminale che ha intuito e le complicita’ che, quell’ intreccio, proteggevano.
Un fatto e’ pero’ certo. Per sbrogliare quell’ intreccio e illuminarne le collusioni bisogna guardare agli appalti, a quel tavolo trilaterale dove sedevano politici, imprenditori e mafiosi.
Ieri a Palermo e’ stato arrestato Giuseppe Pino Lipari. Era uno di quegli imprenditori su cui i carabinieri avevano puntato gli occhi nell’ inchiesta Mafia – Appalti.
Si legge nell’ ordinanza del gip di Caltanissetta che ha riaperto l’ indagine sulla corruzione in Procura: ā€œAssumere a sommarie informazioni Mario D’ Acquisto, gia’ segretario dell’ onorevole Franz Gorgone, il quale avrebbe informato dell’ esistenza della indagine Mafia & Appalti Pino Lipariā€.
Il primo rapporto Mafia & Appalti e’ del 20 febbraio 1991. Ieri era il 9 febbraio 1999.
Sono gli otto anni di vantaggio che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non volevano concedere a Cosa nostra.
Nonostante lo straordinario impegno di Giancarlo Caselli, sono stati concessi. Falcone e Borsellino sono morti.Ā 

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CosƬ Cosa Nostra evitò la trappola di Tangentopoli. Mafia e appalti, il sistema nazionale. Ciancimino disse al Ros: quel patto manda avanti l’ Italia. E Borsellino era vicino alla verita’ Val la pena di occuparsi di Paolo Borsellino e della sua morte. Vale la pena, senza star tanto a chiedersi perche’ occuparsene ora, come se ci fosse un giorno, un mese, un anno piu’ adeguato. Quale sarebbe, poi, il momento acconcio? Come se fosse meno decoroso o piu’ ambiguo chiedersi perche’ allora Paolo Borsellino fu soffocato dalla solitudine e tradito dal silenzio o da qualche sussurro. Le inchieste della Procura di Caselli, i nomi eccellenti finiti sul banco degli imputati e la cattura di Riina, Bagarella, Brusca, per farla breve i successi dello Stato potevano gettare (o hanno gettato?) in un angolo, malgrado le intenzioni, quei lacerti di verita’ che avvicinano alle ragioni della sua morte. Alla causa di quell’ attentato che, come sostengono i pubblici ministeri di Caltanissetta, fu ā€œmisteriosamente acceleratoā€. E, se non si vogliono chiudere gli occhi davanti alla realta’ , anche alla tessitura di un ambiente che, nel 1991 e ancora l’ anno dopo, tra le convenienze del ā€œblocco mafiosoā€ e la scelta di coraggio di Borsellino scelse le prime, schiacciando la seconda. Sappiamo, finalmente, che Paolo Borsellino cercava nell’ intreccio tra la mafia, la politica e l’ imprenditoria la ā€œcausaleā€ della morte di Giovanni Falcone. E aveva deciso di muoversi da solo, in segreto, con un ristretto numero di investigatori, diffidando del procuratore Pietro Giammanco e della Procura di Palermo. Val la pena di aggiungere, della Procura di Palermo degli anni 1991 / 1992. Anno cruciale, il 1991. Gia’ incubava la crisi di legittimazione del ceto politico che poi sprofondo’ nella catastrofe giudiziaria di Tangentopoli. E gia’ Cosa Nostra, con grande tempismo, cambia pelle, uomini e procedure. L’ obiettivo e’ lo stesso: stringere in un solo nodo ben serrato le utilita’ della politica, le convenienze dell’ imprenditoria e i vantaggi della mafia. Raccontiamolo con le parole di Vito Ciancimino, l’ intreccio: ā€œE’ impensabile che il sistema politico e imprenditoriale italiano possa sopravvivere senza l’ esistenza della tangenti. E’ come se a una macchina uno gli toglie una ruota. Partiti e imprenditoria non possono fare a meno di questo meccanismo tangentizio che permette ai partiti di avere le somme di denaro disponibili per i loro bisogni; alle imprese di creare fondi neri per pagare tangenti e affrontare le necessita’ dell’ impresa. Mentre Cosa Nostra garantisce che i patti stabiliti tra le imprese, e tra le imprese e i politici, siano rispettati con il ricatto del terroreā€. Chiaro, no? E’ il giugno del 1992. Vito Ciancimino parla al capitano De Donno nel salotto della sua casa romana di via San Sebastianello, tra piazza di Spagna e Trinita’ dei Monti. Il capitano del Ros e’ li’ per l’ impresa folle, spregiudicata (e per altri torbida e inquietante) di sollecitare la collaborazione del vecchio sindaco di Palermo e amico dei Corleonesi. L’ ufficiale, autorizzato dai suoi superiori, vuole farsi dare una mano per capire dove cercare gli assassini di Falcone. Per parare nuovi colpi, se nuovi colpi sono in programma. Per mettere le mani su Salvatore Riina. Ciancimino accetta il colloquio, non si tira indietro e sciorina al capitano una proposta, a tutta prima, pazzoide. Ha detto l’ ufficiale ai giudici: ā€œCiancimino ci propose di creare un’ attivita’ investigativa che lo vedesse protagonista al nostro servizio. Si proponeva quasi come un infiltrato, diciamo cosi’ . Era sicuro di poter ricreare un sistema nazionale, di poter svolgere la figura del garante di questo sistema tangentizio nazionale per tutte le forze politiche facendo conto su un elemento sostanziale: il potere intimidatorio di Cosa Nostra. Tutta questa attivita’ doveva essere gestita da lui con un paio di societa’ che avrebbero dovuto lavorare per suo conto. Per noi ci sarebbe stato il ritorno pratico di tutta questa massa d’ informazioniā€. Una pazzia? Meno di quanto si possa immaginare a leggere la tiritera del corleonese. Il ā€œnuovo sistemaā€ era gia’ pronto da un anno. Tocca ascoltare Giovanni Brusca, l’ assassino di Giovanni Falcone. E’ incerto sulle date. ā€œEra la fine del 1990 o l’ inizio del 1991 o la fine del 1991 quando Salvatore Riina dice che bisogna considerare un’ impresa sull’ orlo del fallimento, la ā€œReale costruzioniā€, ā€œcome se fosse suaā€. Noi la mettiamo al centro del gioco e cambiamo il gioco. Al famoso tavolo rotondo dove sedevamo noi, con le imprese siciliane e nazionali, c’ era prima la societa’ ā€œImpresemā€ di Salamone che faceva da anello con i politici e Angelo Siino distribuiva appalti e tangenti. Sbaracchiamo tutto. Al posto della ā€œImpresemā€ mettiamo la ā€œRealeā€. Dov’ era Salamone sistemiamo Benny D’ Agostino. Mettiamo da parte Angelo Siino. Lo sostituiamo con Giovanni Bini. Sono facce pulite, gente della Palermo bene, utili per essere presentabili in quell’ altro mondo, con le imprese nazionali e i politiciā€. Domande. Quando comincia la ā€œtrasformazioneā€? Perche’ , apparentemente senza motivo, Riina rivoluziona il sistema? La risposta a queste domande incrocia tutti i fili che si aggrovigliano intorno alla Procura di Palermo nel 1991 e nel 1992. Il lavoro investigativo del Ros su Mafia & Appalti; la riluttanza dell’ ufficio del procuratore Pietro Giammanco a trasformare le informative dell’ Arma in un’ indagine accurata; la mano complice che consegna quel fascicolo agli uomini di Cosa Nostra e che obbliga i Corleonesi a bruciare il vecchio sistema e a metterne in piedi, con altre sigle e altri responsabili, uno nuovo di zecca. E’ un fatto che, come sostengono i procuratori di Caltanissetta, ā€œdepositare l’ intera informativa del Ros senza un omissis ha significato cancellare tutte le potenzialita’ dell’ indagineā€. Mossa avventata e dispettosa? Sospetta, come gridarono i carabinieri? Comunque mossa, dicono oggi i magistrati nisseni, che ā€œimpedi’ di individuare alcuni personaggi che non furono sfiorati dalle indaginiā€. Per fare qualche nome, a mo’ di esempio: Salvatore e Antonino Buscemi. Sono i fratelli mafiosi di Boccadifalco ad ā€œaver in manoā€ molti bandoli dell’ intricata matassa. Sono in societa’ nella ā€œCalcestruzziā€ con il gruppo Ferruzzi – Gardini, spiega Giovanni Brusca (vedi il suo interrogatorio qui accanto). Controllano gli uomini nuovi del ā€œsistemaā€ siciliano. Hanno ā€œrapporti privilegiatiā€ che non mettono in comune nemmeno con Salvatore Riina. Che se ne lamenta, alquanto querulo: ā€œSe lo tengono bello stretto strettoā€. Salvatore e Antonino Buscemi hanno soprattutto ā€œun aggancio con un magistratoā€ e anche questo ā€œse lo tenevano strettoā€. C’ e’ chi considera questa notizia un ā€œvelenoā€ di Palermo. Con maggiori probabilita’ , e’ un buon indizio per un’ indagine soprattutto se combacia con altri indizi e con una convinzione che non e’ piu’ un’ ipotesi: Borsellino capi’ che nel rapporto Mafia & Appalti c’ era la ragione della morte di Falcone; che nei suoi ā€œdiariā€ c’ erano tracce delle complicita’ . Senza accorgersene, si avvicino’ troppo al nuovo sistema voluto da Riina e, quindi, alla sua crudele fine. L’ ipotesi e’ della Procura di Caltanissetta. Dove dicono (ancora in maniera anonima): ā€œAbbiamo tante fonti di prova che dimostrano come Borsellino si rigirava gli appunti di Falcone tra le mani. Abbiamo fonti di prova che aveva eletto l’ indagine sugli appalti a priorita’ assoluta. E tuttavia dobbiamo ancora lavorare per dimostrare che, si’ , Paolo Borsellino aveva capito come Cosa Nostra aveva trasformato il ā€œsistemaā€, come questo ā€œsistemaā€ non fosse soltanto regionale ma nazionale, come portasse lontano da Corleone. Noi crediamo che proprio questo sia accaduto. D’ altronde fu lui, era il primo giorno di luglio del 1992, a sentirsi dire dal pentito Leonardo Messina che ā€œla Calcestruzziā€ era di Salvatore Riinaā€. Questo ha perduto Paolo Borsellino morto nella piu’ ā€œinutileā€ (all’ apparenza) strage di Cosa Nostra. Affermazione che ne trascina un’ altra. Ecco che cosa ha impedito di ricostruire la ā€œcorruzione sistemicaā€, poi svelata da Mani Pulite a Milano, con un anno d’ anticipo a Palermo dove, al contrario di Milano, il ā€œsistemaā€ aveva, prima dell’ arrivo di Caselli nel gennaio del 1993, un vantaggio: qualche magistrato e un procuratore ā€œstrettoā€ nelle mani di Cosa Nostra. Fosse soltanto per capire le ragioni di quel ā€œritardoā€ e di tragedie che potevano essere evitate, e’ valsa la pena di occuparsi di Paolo Borsellino.Ā 
Giuseppe D’Avanzo Corriere della Sera Ā 9,10 e 11 febbraio 1999
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MAFIA – APPALTI e l’eliminazione del dottor Borsellino

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