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CāĆØ del marcio in Procura ? Ā Dentro il pozzo nero di questa storia ci potrebbero essere le tracce per dare risposte a qualche capitolo irrisolto delle cronache siciliane.
Sono tracce che potrebbero spiegare percheā il disvelamento della ācorruzione sistemicaā dellā amministrazione e dellā economia italiane, che eā stato a portata di mano in Sicilia, eā cominciato soltanto lā anno dopo a Milano con Mani pulite.
Si potrebbe finalmente capire percheā con tanta, troppa precipitazione Cosa Nostra ha ucciso Paolo Borsellino.
Forse, per venire ai giorni nostri, si potrebbe anche comprendere percheā da un giorno allā altro al generale Mario Mori, comandante del Ros (il nucleo dā eccellenza investigativa dei carabinieri), eā stato dato il benservito.
Dopo le accuse del Ros, i magistrati di Caltanissetta dovranno chiarire i molti punti oscuri dellāistruttoria mafia ā appalti
āUn pm proteggeva Provenzano?ā Caso Siino, il gip ordina una nuova inchiesta sulla Procura di Palermo
A dirla chiara, questa storia dovrebbe cominciare con un interrogativo che fa arrossire: nella Procura di Palermo cā eā stato (e magari cā eā ancora) un magistrato (piuā dā un magistrato) che ha maneggiato al disinnesco dellā inchiesta Mafia & Appalti? Era, quella su Mafia & Appalti, unā inchiesta con i fiocchi condotta (anno 1991) dai carabinieri del Ros del generale Mario Mori.
Secondo lā Arma, esisteva in Sicilia un tavolo trilaterale (politici ā mafiosi ā imprenditori) che governava lā intero volume degli affari pubblici dellā isola. Ricordano al Ros: āA nostro avviso, gli imprenditori e i politici nazionali, come i politici e gli imprenditori siciliani, non subivano la presenza della mafia. Al contrario, consapevolmente ne accettavano la presenza, convinti che quel terzo āsocioā avrebbe difeso il sistema e ne avrebbe aumentato i profittiā. Si sa come finiā .
I carabinieri consegnano ai procuratori di Palermo la prima āinformativaā nel febbraio 1991. In tempo reale, il dossier eā nelle mani di Cosa Nostra. Chi viola il segreto? E percheā ? Eā colluso? Complice? O, minacciato, eā un pavido?
Lā inchiesta, comunque, si sgonfia presto.
Volano soltanto gli stracci. Si salvano gli imprenditori di riferimento di Salvatore Riina (Nino e Salvatore Buscemi) come le grandi societaā del Nord al lavoro in Sicilia (la Calcestruzzi di Gardini vicina ai socialisti e la Tor di Valle di Catti ā De Gasperi, la Rizzani de Eccher care al potere democristiano, le cooperative rosse).
Secondo lā Arma, esisteva in Sicilia un tavolo trilaterale (politici ā mafiosi ā imprenditori) che governava lā intero volume degli affari pubblici dellā isola. Ricordano al Ros: āA nostro avviso, gli imprenditori e i politici nazionali, come i politici e gli imprenditori siciliani, non subivano la presenza della mafia. Al contrario, consapevolmente ne accettavano la presenza, convinti che quel terzo āsocioā avrebbe difeso il sistema e ne avrebbe aumentato i profittiā. Si sa come finiā .
I carabinieri consegnano ai procuratori di Palermo la prima āinformativaā nel febbraio 1991. In tempo reale, il dossier eā nelle mani di Cosa Nostra. Chi viola il segreto? E percheā ? Eā colluso? Complice? O, minacciato, eā un pavido?
Lā inchiesta, comunque, si sgonfia presto.
Volano soltanto gli stracci. Si salvano gli imprenditori di riferimento di Salvatore Riina (Nino e Salvatore Buscemi) come le grandi societaā del Nord al lavoro in Sicilia (la Calcestruzzi di Gardini vicina ai socialisti e la Tor di Valle di Catti ā De Gasperi, la Rizzani de Eccher care al potere democristiano, le cooperative rosse).
Eā il primo paragrafo della storia. Il secondo ha i vapori venefici che a Palermo fanno da sfondo ai conflitti tra gli apparati dello Stato. Novembre 1997.
Un capitano del Ros, Giuseppe De Donno, testimonia alla Procura di Caltanissetta che, a dar fede alle confidenze di Angelo Siino (un mafiosaccio ritenuto āil ministro dei Lavori pubblici del governo corleoneseā), quel dossier finiā nella mani di Cosa Nostra.
Dice De Donno: āSiino mi spiegoā che, nei primi mesi del 1991, entroā in possesso della nostra informativa sugli appalti. Mi disse di averla ricevuta da alcuni magistrati della Procura.E mi fece i nomi dellā allora procuratore Pietro Giammanco e di due sostituti, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatoneā.
Apriti cielo! Giancarlo Caselli denuncia una manovra āgravemente sospetta per i tempi, i modi e gli obiettiviā.
Il generale Mario Mori difende il suo capitano. Si approssima una partita che non prevede il pareggio percheā delle due, lā una: o il capitano, sostenuto dallā Arma, mente o, se non eā un calunniatore, cā eā del marcio in Procura.
Il dissidio sembra senza via dā uscita eppure per quei bizantinismi che solo in Italia trovano cittadinanza, la terza via si riesce a trovare. I pubblici ministeri di Caltanissetta chiedono lā archiviazione per lā uno e per gli altri, per il capitano De Donno (accusato di calunnia) e per Giammanco, Lo Forte, Pignatone (accusati di corruzione).
Il generale Mori e il procuratore Caselli possono allora con letizia farsi vedere insieme a cena. Eā una pace di respiro corto percheā , si sa, il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Cosiā la storia si arricchisce di un terzo e quarto paragrafo. Terzo paragrafo. Guido Lo Forte non eā soddisfatto dalle motivazioni dellā archiviazione.
Vi intravvede qualche interrogativo di troppo e, con una memoria, chiede che lā inchiesta possa continuare per liberarlo del tutto dal sospetto di collusione.
I procuratori di Caltanissetta, allora, prendono cappello e, a loro volta, sottoscrivono una memoria.
Scrivono che De Donno mai fece pressioni su Siino.
āAgli atti vi eā la prova che Siino non interpretoā mai le asserite pressioni del capitano come un tentativo di fargli dire cose falseā. Liberano lā ufficiale da ogni volontaā calunniatrice. āā¦vi erano per converso numerosi elementi che potevano ingenerare nellā animo del capitano il convincimento, se non proprio di una corruzione, quantomeno di una collusione di Lo Forte con esponenti politiciā.
Affermano come, a fronte del rapporto dellā Arma, la Procura di Palermo senza āalcuna curiositaā investigativa sui rapporti mafia ā politica ā imprenditoriaā subito abbia minimizzato lā intreccio.
Un capitano del Ros, Giuseppe De Donno, testimonia alla Procura di Caltanissetta che, a dar fede alle confidenze di Angelo Siino (un mafiosaccio ritenuto āil ministro dei Lavori pubblici del governo corleoneseā), quel dossier finiā nella mani di Cosa Nostra.
Dice De Donno: āSiino mi spiegoā che, nei primi mesi del 1991, entroā in possesso della nostra informativa sugli appalti. Mi disse di averla ricevuta da alcuni magistrati della Procura.E mi fece i nomi dellā allora procuratore Pietro Giammanco e di due sostituti, Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatoneā.
Apriti cielo! Giancarlo Caselli denuncia una manovra āgravemente sospetta per i tempi, i modi e gli obiettiviā.
Il generale Mario Mori difende il suo capitano. Si approssima una partita che non prevede il pareggio percheā delle due, lā una: o il capitano, sostenuto dallā Arma, mente o, se non eā un calunniatore, cā eā del marcio in Procura.
Il dissidio sembra senza via dā uscita eppure per quei bizantinismi che solo in Italia trovano cittadinanza, la terza via si riesce a trovare. I pubblici ministeri di Caltanissetta chiedono lā archiviazione per lā uno e per gli altri, per il capitano De Donno (accusato di calunnia) e per Giammanco, Lo Forte, Pignatone (accusati di corruzione).
Il generale Mori e il procuratore Caselli possono allora con letizia farsi vedere insieme a cena. Eā una pace di respiro corto percheā , si sa, il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Cosiā la storia si arricchisce di un terzo e quarto paragrafo. Terzo paragrafo. Guido Lo Forte non eā soddisfatto dalle motivazioni dellā archiviazione.
Vi intravvede qualche interrogativo di troppo e, con una memoria, chiede che lā inchiesta possa continuare per liberarlo del tutto dal sospetto di collusione.
I procuratori di Caltanissetta, allora, prendono cappello e, a loro volta, sottoscrivono una memoria.
Scrivono che De Donno mai fece pressioni su Siino.
āAgli atti vi eā la prova che Siino non interpretoā mai le asserite pressioni del capitano come un tentativo di fargli dire cose falseā. Liberano lā ufficiale da ogni volontaā calunniatrice. āā¦vi erano per converso numerosi elementi che potevano ingenerare nellā animo del capitano il convincimento, se non proprio di una corruzione, quantomeno di una collusione di Lo Forte con esponenti politiciā.
Affermano come, a fronte del rapporto dellā Arma, la Procura di Palermo senza āalcuna curiositaā investigativa sui rapporti mafia ā politica ā imprenditoriaā subito abbia minimizzato lā intreccio.
La conclusione eā allā acido muriatico: āSi evince che quando i carabinieri si stavano preparando a riferire sui politici e sui pubblici amministratori, la Procura chiede lā archiviazione per gli imprenditoriā.
Il quarto paragrafo lo scrive da cima a fondo il gip Gilda Loforti. Che ci pensa su e conclude che lā inchiesta non si puoā chiudere con un āvogliamoci beneā. Troppi i testimoni chiave non interrogati.
Troppi i nastri non trascritti correttamente. Insomma, scrive Gilda Loforti, ālā esame degli atti evidenzia lā incompletezza delle indagini e la necessitaā di approfondimenti investigativiā.
Il giudice con pedanteria elenca. Quando e come si pentiā Angelo Siino? Percheā non eā stato ascoltato il generale Nunzella (capo di Stato Maggiore dellā Arma) che era a conoscenza dei rapporti tra De Donno e Siino? Percheā mi avete dato soltanto le copie delle conversazioni intercettate e non gli originali? E percheā in larga parte di quelle copie cā eā la formula āincomprensibileā? Percheā alcune frasi presenti nelle trascrizioni dellā Arma non fanno capolino nelle trascrizioni della Procura? Chi eā , ad esempio, āquel procuratore nelle mani di Provenzanoā che assicurava al boss una quieta latitanza a Bagheria? Eā vero che il sostituto Roberto Scarpinato ammise con il capitano di aver archiviato lā inchiesta āper le pressioni subite da parte di Lo Forteā? Tutto da rifare, dunque. Lā inchiesta come le polemiche. Che, cā eā da giurarci, non mancheranno.
Il quarto paragrafo lo scrive da cima a fondo il gip Gilda Loforti. Che ci pensa su e conclude che lā inchiesta non si puoā chiudere con un āvogliamoci beneā. Troppi i testimoni chiave non interrogati.
Troppi i nastri non trascritti correttamente. Insomma, scrive Gilda Loforti, ālā esame degli atti evidenzia lā incompletezza delle indagini e la necessitaā di approfondimenti investigativiā.
Il giudice con pedanteria elenca. Quando e come si pentiā Angelo Siino? Percheā non eā stato ascoltato il generale Nunzella (capo di Stato Maggiore dellā Arma) che era a conoscenza dei rapporti tra De Donno e Siino? Percheā mi avete dato soltanto le copie delle conversazioni intercettate e non gli originali? E percheā in larga parte di quelle copie cā eā la formula āincomprensibileā? Percheā alcune frasi presenti nelle trascrizioni dellā Arma non fanno capolino nelle trascrizioni della Procura? Chi eā , ad esempio, āquel procuratore nelle mani di Provenzanoā che assicurava al boss una quieta latitanza a Bagheria? Eā vero che il sostituto Roberto Scarpinato ammise con il capitano di aver archiviato lā inchiesta āper le pressioni subite da parte di Lo Forteā? Tutto da rifare, dunque. Lā inchiesta come le polemiche. Che, cā eā da giurarci, non mancheranno.
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Appalti, nuova pista per Borsellino. Il magistrato voleva riaprire lā indagine insabbiata, incontro segreto con i vertici del Ros. Percheā , il 19 luglio 1992, fu ucciso Paolo Borsellino? La sua morte si coniuga male con lāabituale, percheā secolare, pragmatismo di Cosa nostra. Giovanni Falcone era morto da 48 ore.Ā
Erano le 8 del mattino del 26 maggio e le stanze della Procura di Palermo erano deserte, ghiacce, gonfie di un silenzio oscuro come lā angoscia.
Paolo Borsellino ragionava della āconvenienzaā per la mafia di uccidere il suo amico a Palermo.
Diceva: āPer killer e mandanti di mafia il problema piuā importante eā assicurarsi lā impunitaā , che eā una costante per i mafiosi. La certezza dellā impunitaā eā condizione essenziale per Cosa nostra. Nessun mafioso eā disposto a rischiare anche un sol giorno di galera per un omicidioā.
Ecco percheā , dopo sette anni, e nonostante i processi e le condanne, le ragioni della strage di via DāAmelio stanno in piedi come un sacco vuoto. Anche il piuā gonzo (o sanguinario) di quegli āuomini del disonoreā avrebbe potuto prevedere che schiacciare con il tritolo la vita di Borsellino, a 56 giorni dallā esplosione di Capaci, avrebbe rovesciato sulle loro teste le residue forze di uno Stato debilitato dagli arresti e dalle incriminazioni di Mani pulite. Bernardo Provenzano e Salvatore Riina devono aver messo in conto la spietata repressione dello Stato. Eppure, decisero quella mossa. Percheā ?
Paolo Borsellino ragionava della āconvenienzaā per la mafia di uccidere il suo amico a Palermo.
Diceva: āPer killer e mandanti di mafia il problema piuā importante eā assicurarsi lā impunitaā , che eā una costante per i mafiosi. La certezza dellā impunitaā eā condizione essenziale per Cosa nostra. Nessun mafioso eā disposto a rischiare anche un sol giorno di galera per un omicidioā.
Ecco percheā , dopo sette anni, e nonostante i processi e le condanne, le ragioni della strage di via DāAmelio stanno in piedi come un sacco vuoto. Anche il piuā gonzo (o sanguinario) di quegli āuomini del disonoreā avrebbe potuto prevedere che schiacciare con il tritolo la vita di Borsellino, a 56 giorni dallā esplosione di Capaci, avrebbe rovesciato sulle loro teste le residue forze di uno Stato debilitato dagli arresti e dalle incriminazioni di Mani pulite. Bernardo Provenzano e Salvatore Riina devono aver messo in conto la spietata repressione dello Stato. Eppure, decisero quella mossa. Percheā ?
Apparentemente Borsellino non era, in quel momento, una minaccia come poteva esserlo Falcone, Zar della lotta antimafia. Era in un angolo, messo nellā angolo dal procuratore Pietro Giammanco.
Ha raccontato Lucia Borsellino a Umberto Lucentini (Il valore di una vita): āPur di continuare a lavorare, papaā era disposto ad accettare i limiti che gli pone sempre piuā spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che, per motivi gerarchici, eā costretto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza peroā ricevere lo stesso flusso di informazioniā.
Borsellino, nellā estate del 1992, eā un uomo in ginocchio.
Disperato per la morte dellā amico, costretto a non mettere becco sulle indagini di Palermo, confinato alle inchieste di Trapani e Agrigento, imbrigliato sulla sua seggiola di procuratore aggiunto dal diffuso potere di Giammanco (che addirittura gli tace una notizia di āun pesante segnale di pericolo per la sua incolumitaā). Percheā ucciderlo, allora?
I magistrati di Caltanissetta lo hanno chiesto ossessivamente ai disertori di Cosa nostra. Salvatore Cancemi era a Capaci e faceva āla staffettaā a via Dā Amelio.
Ha risposto di ānon saperloā. Giovanni Brusca, che a Capaci addirittura schiaccioā il pulsante dellā attentatuni, ha detto di essere rimasto āsorpresoā dalla morte del giudice. Si tocca con mano che le ragioni della morte di Borsellino sono piuā segrete, piuā intricate, meno trasparenti. Anche per alcuni boss della Commissione.
Anche dentro Cosa nostra. āPercheā fu ucciso Paolo Borsellinoā eā comunque una domanda che puoā avere una risposta.
Le possibili tracce di una risposta, gli indicativi segni per una spiegazione sono stati (e sono) sotto gli occhi di tutti. Pochi se ne vogliono curare (o sono a disagio a curarsene).
Pochissimi ne vogliono parlare (o scriverne). E tuttavia quelle impronte (non superficiali) ognuno, se vuole, puoā maneggiarle soppesandone il valore e la densitaā .
Ha raccontato il pubblico ministero Antonio Ingroia, quasi un figlio adottivo per Borsellino: āPaolo in quei giorni riprese in mano il famoso rapporto dei carabinieri del Ros su mafia e appaltiā, unā inchiesta nata con Falcone procuratore aggiunto e finita nelle mani di Giammanco.
Borsellino legge e rilegge āi diari di Falconeā, pubblicati dal Sole 24 Ore, che raccontano il conflitto in Procura che obbligoā il giudice a lasciare Palermo. Dice Ingroia (Il valore di una vita): āPaolo vuole approfondire quelle vicende, sente che si tratta di episodi che, letti in un modo isolato, possono sembrare inconsistenti, ma che per il solo fatto di essere stati scritti da un uomo come Falcone nascondono qualcosa di importante⦠In quei giorni Paolo contatta le persone citate negli appunti di Giovanni, i colleghi della Procura di cui si fida e che sono in grado di offrirgli nuovi particolari su quelle vicendeā. Paolo Borsellino si convince che āla causale piuā probabile della morte di Giovanniā eā nellā intreccio degli appalti.
Ne parla con Leonardo Guarnotta, lā amico del vecchio pool dellā ufficio istruzione (oggi presidente del tribunale che giudica Dellā Utri). E fa di piuā .
In un caldo pomeriggio di metaā giugno chiede al generale del Ros Mario Mori āun incontro riservatoā. Lontano dalla procura. In una stanza appartata della caserma dei carabinieri di piazza Verdi a Palermo. Lā annotazione di quellā appuntamento, dicono, eā ben chiara nellā agenda del magistrato. Borsellino, da uomo franco, mette subito le carte in tavola.
Vuole la disponibilitaā di quello speciale nucleo dā investigazione per unā indagine che deve essere segreta. Chiede che il capitano Giuseppe De Donno gli sia accanto. E, dāaltronde, eā lā ufficiale che ha lavorato al Rapporto Mafia ā Appalti, il piuā indicato dunque per riprenderne le fila (vedi qui accanto la sua deposizione al processo, 4 dicembre 1998). Eā peroā un lavoro che deve essere fatto a due condizioni.
La procura di Giammanco non deve sapere nulla; il capitano deve riferire soltanto a lui.
Leggere i verbali dellā interrogatorio dellā ufficiale e del generale Mori accappona la pelle.
Borsellino eā un uomo assediato, convinto che liā in quella Procura qualcuno ha tradito Falcone. Lo disse, senza tanti giri di parole, anche in quel mattino del 26 maggio: āSoltanto in questo ufficio sapevano che cā erano ormai i numeri per fare, di Giovanni, il procuratore nazionale. Soltanto in questā ufficio sapevano che sabato 23 maggio, per due anni, sarebbe stato lā ultimo sabato a Palermo per Giovanniā.
Nonostante il tempo scivolato via, angoscia il pensiero di un uomo consapevole che, se vuole dare un nome agli assassini e un percheā alla morte dellā amico, si deve guardare da alcuni ambienti della procura.
E, di piuā , andare al limite della legge sollecitando indagini riservate e private. Si possono soltanto immaginare (forse) la disperazione, lā affanno, la solitudine che ha spinto un servitore dello Stato come Borsellino a deformare le regole, rispettoso come ne era fino al tormento.
Non si possono, invece, immaginare lā intreccio criminale che ha intuito e le complicitaā che, quellā intreccio, proteggevano.
Un fatto eā peroā certo. Per sbrogliare quellā intreccio e illuminarne le collusioni bisogna guardare agli appalti, a quel tavolo trilaterale dove sedevano politici, imprenditori e mafiosi.
Ieri a Palermo eā stato arrestato Giuseppe Pino Lipari. Era uno di quegli imprenditori su cui i carabinieri avevano puntato gli occhi nellā inchiesta Mafia ā Appalti.
Si legge nellā ordinanza del gip di Caltanissetta che ha riaperto lā indagine sulla corruzione in Procura: āAssumere a sommarie informazioni Mario Dā Acquisto, giaā segretario dellā onorevole Franz Gorgone, il quale avrebbe informato dellā esistenza della indagine Mafia & Appalti Pino Lipariā.
Il primo rapporto Mafia & Appalti eā del 20 febbraio 1991. Ieri era il 9 febbraio 1999.
Sono gli otto anni di vantaggio che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non volevano concedere a Cosa nostra.
Nonostante lo straordinario impegno di Giancarlo Caselli, sono stati concessi. Falcone e Borsellino sono morti.Ā
Ha raccontato Lucia Borsellino a Umberto Lucentini (Il valore di una vita): āPur di continuare a lavorare, papaā era disposto ad accettare i limiti che gli pone sempre piuā spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che, per motivi gerarchici, eā costretto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza peroā ricevere lo stesso flusso di informazioniā.
Borsellino, nellā estate del 1992, eā un uomo in ginocchio.
Disperato per la morte dellā amico, costretto a non mettere becco sulle indagini di Palermo, confinato alle inchieste di Trapani e Agrigento, imbrigliato sulla sua seggiola di procuratore aggiunto dal diffuso potere di Giammanco (che addirittura gli tace una notizia di āun pesante segnale di pericolo per la sua incolumitaā). Percheā ucciderlo, allora?
I magistrati di Caltanissetta lo hanno chiesto ossessivamente ai disertori di Cosa nostra. Salvatore Cancemi era a Capaci e faceva āla staffettaā a via Dā Amelio.
Ha risposto di ānon saperloā. Giovanni Brusca, che a Capaci addirittura schiaccioā il pulsante dellā attentatuni, ha detto di essere rimasto āsorpresoā dalla morte del giudice. Si tocca con mano che le ragioni della morte di Borsellino sono piuā segrete, piuā intricate, meno trasparenti. Anche per alcuni boss della Commissione.
Anche dentro Cosa nostra. āPercheā fu ucciso Paolo Borsellinoā eā comunque una domanda che puoā avere una risposta.
Le possibili tracce di una risposta, gli indicativi segni per una spiegazione sono stati (e sono) sotto gli occhi di tutti. Pochi se ne vogliono curare (o sono a disagio a curarsene).
Pochissimi ne vogliono parlare (o scriverne). E tuttavia quelle impronte (non superficiali) ognuno, se vuole, puoā maneggiarle soppesandone il valore e la densitaā .
Ha raccontato il pubblico ministero Antonio Ingroia, quasi un figlio adottivo per Borsellino: āPaolo in quei giorni riprese in mano il famoso rapporto dei carabinieri del Ros su mafia e appaltiā, unā inchiesta nata con Falcone procuratore aggiunto e finita nelle mani di Giammanco.
Borsellino legge e rilegge āi diari di Falconeā, pubblicati dal Sole 24 Ore, che raccontano il conflitto in Procura che obbligoā il giudice a lasciare Palermo. Dice Ingroia (Il valore di una vita): āPaolo vuole approfondire quelle vicende, sente che si tratta di episodi che, letti in un modo isolato, possono sembrare inconsistenti, ma che per il solo fatto di essere stati scritti da un uomo come Falcone nascondono qualcosa di importante⦠In quei giorni Paolo contatta le persone citate negli appunti di Giovanni, i colleghi della Procura di cui si fida e che sono in grado di offrirgli nuovi particolari su quelle vicendeā. Paolo Borsellino si convince che āla causale piuā probabile della morte di Giovanniā eā nellā intreccio degli appalti.
Ne parla con Leonardo Guarnotta, lā amico del vecchio pool dellā ufficio istruzione (oggi presidente del tribunale che giudica Dellā Utri). E fa di piuā .
In un caldo pomeriggio di metaā giugno chiede al generale del Ros Mario Mori āun incontro riservatoā. Lontano dalla procura. In una stanza appartata della caserma dei carabinieri di piazza Verdi a Palermo. Lā annotazione di quellā appuntamento, dicono, eā ben chiara nellā agenda del magistrato. Borsellino, da uomo franco, mette subito le carte in tavola.
Vuole la disponibilitaā di quello speciale nucleo dā investigazione per unā indagine che deve essere segreta. Chiede che il capitano Giuseppe De Donno gli sia accanto. E, dāaltronde, eā lā ufficiale che ha lavorato al Rapporto Mafia ā Appalti, il piuā indicato dunque per riprenderne le fila (vedi qui accanto la sua deposizione al processo, 4 dicembre 1998). Eā peroā un lavoro che deve essere fatto a due condizioni.
La procura di Giammanco non deve sapere nulla; il capitano deve riferire soltanto a lui.
Leggere i verbali dellā interrogatorio dellā ufficiale e del generale Mori accappona la pelle.
Borsellino eā un uomo assediato, convinto che liā in quella Procura qualcuno ha tradito Falcone. Lo disse, senza tanti giri di parole, anche in quel mattino del 26 maggio: āSoltanto in questo ufficio sapevano che cā erano ormai i numeri per fare, di Giovanni, il procuratore nazionale. Soltanto in questā ufficio sapevano che sabato 23 maggio, per due anni, sarebbe stato lā ultimo sabato a Palermo per Giovanniā.
Nonostante il tempo scivolato via, angoscia il pensiero di un uomo consapevole che, se vuole dare un nome agli assassini e un percheā alla morte dellā amico, si deve guardare da alcuni ambienti della procura.
E, di piuā , andare al limite della legge sollecitando indagini riservate e private. Si possono soltanto immaginare (forse) la disperazione, lā affanno, la solitudine che ha spinto un servitore dello Stato come Borsellino a deformare le regole, rispettoso come ne era fino al tormento.
Non si possono, invece, immaginare lā intreccio criminale che ha intuito e le complicitaā che, quellā intreccio, proteggevano.
Un fatto eā peroā certo. Per sbrogliare quellā intreccio e illuminarne le collusioni bisogna guardare agli appalti, a quel tavolo trilaterale dove sedevano politici, imprenditori e mafiosi.
Ieri a Palermo eā stato arrestato Giuseppe Pino Lipari. Era uno di quegli imprenditori su cui i carabinieri avevano puntato gli occhi nellā inchiesta Mafia ā Appalti.
Si legge nellā ordinanza del gip di Caltanissetta che ha riaperto lā indagine sulla corruzione in Procura: āAssumere a sommarie informazioni Mario Dā Acquisto, giaā segretario dellā onorevole Franz Gorgone, il quale avrebbe informato dellā esistenza della indagine Mafia & Appalti Pino Lipariā.
Il primo rapporto Mafia & Appalti eā del 20 febbraio 1991. Ieri era il 9 febbraio 1999.
Sono gli otto anni di vantaggio che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non volevano concedere a Cosa nostra.
Nonostante lo straordinario impegno di Giancarlo Caselli, sono stati concessi. Falcone e Borsellino sono morti.Ā
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CosƬ Cosa Nostra evitò la trappola di Tangentopoli. Mafia e appalti, il sistema nazionale. Ciancimino disse al Ros: quel patto manda avanti lā Italia. E Borsellino era vicino alla veritaā Val la pena di occuparsi di Paolo Borsellino e della sua morte. Vale la pena, senza star tanto a chiedersi percheā occuparsene ora, come se ci fosse un giorno, un mese, un anno piuā adeguato. Quale sarebbe, poi, il momento acconcio? Come se fosse meno decoroso o piuā ambiguo chiedersi percheā allora Paolo Borsellino fu soffocato dalla solitudine e tradito dal silenzio o da qualche sussurro. Le inchieste della Procura di Caselli, i nomi eccellenti finiti sul banco degli imputati e la cattura di Riina, Bagarella, Brusca, per farla breve i successi dello Stato potevano gettare (o hanno gettato?) in un angolo, malgrado le intenzioni, quei lacerti di veritaā che avvicinano alle ragioni della sua morte. Alla causa di quellā attentato che, come sostengono i pubblici ministeri di Caltanissetta, fu āmisteriosamente acceleratoā. E, se non si vogliono chiudere gli occhi davanti alla realtaā , anche alla tessitura di un ambiente che, nel 1991 e ancora lā anno dopo, tra le convenienze del āblocco mafiosoā e la scelta di coraggio di Borsellino scelse le prime, schiacciando la seconda. Sappiamo, finalmente, che Paolo Borsellino cercava nellā intreccio tra la mafia, la politica e lā imprenditoria la ācausaleā della morte di Giovanni Falcone. E aveva deciso di muoversi da solo, in segreto, con un ristretto numero di investigatori, diffidando del procuratore Pietro Giammanco e della Procura di Palermo. Val la pena di aggiungere, della Procura di Palermo degli anni 1991 / 1992. Anno cruciale, il 1991. Giaā incubava la crisi di legittimazione del ceto politico che poi sprofondoā nella catastrofe giudiziaria di Tangentopoli. E giaā Cosa Nostra, con grande tempismo, cambia pelle, uomini e procedure. Lā obiettivo eā lo stesso: stringere in un solo nodo ben serrato le utilitaā della politica, le convenienze dellā imprenditoria e i vantaggi della mafia. Raccontiamolo con le parole di Vito Ciancimino, lā intreccio: āEā impensabile che il sistema politico e imprenditoriale italiano possa sopravvivere senza lā esistenza della tangenti. Eā come se a una macchina uno gli toglie una ruota. Partiti e imprenditoria non possono fare a meno di questo meccanismo tangentizio che permette ai partiti di avere le somme di denaro disponibili per i loro bisogni; alle imprese di creare fondi neri per pagare tangenti e affrontare le necessitaā dellā impresa. Mentre Cosa Nostra garantisce che i patti stabiliti tra le imprese, e tra le imprese e i politici, siano rispettati con il ricatto del terroreā. Chiaro, no? Eā il giugno del 1992. Vito Ciancimino parla al capitano De Donno nel salotto della sua casa romana di via San Sebastianello, tra piazza di Spagna e Trinitaā dei Monti. Il capitano del Ros eā liā per lā impresa folle, spregiudicata (e per altri torbida e inquietante) di sollecitare la collaborazione del vecchio sindaco di Palermo e amico dei Corleonesi. Lā ufficiale, autorizzato dai suoi superiori, vuole farsi dare una mano per capire dove cercare gli assassini di Falcone. Per parare nuovi colpi, se nuovi colpi sono in programma. Per mettere le mani su Salvatore Riina. Ciancimino accetta il colloquio, non si tira indietro e sciorina al capitano una proposta, a tutta prima, pazzoide. Ha detto lā ufficiale ai giudici: āCiancimino ci propose di creare unā attivitaā investigativa che lo vedesse protagonista al nostro servizio. Si proponeva quasi come un infiltrato, diciamo cosiā . Era sicuro di poter ricreare un sistema nazionale, di poter svolgere la figura del garante di questo sistema tangentizio nazionale per tutte le forze politiche facendo conto su un elemento sostanziale: il potere intimidatorio di Cosa Nostra. Tutta questa attivitaā doveva essere gestita da lui con un paio di societaā che avrebbero dovuto lavorare per suo conto. Per noi ci sarebbe stato il ritorno pratico di tutta questa massa dā informazioniā. Una pazzia? Meno di quanto si possa immaginare a leggere la tiritera del corleonese. Il ānuovo sistemaā era giaā pronto da un anno. Tocca ascoltare Giovanni Brusca, lā assassino di Giovanni Falcone. Eā incerto sulle date. āEra la fine del 1990 o lā inizio del 1991 o la fine del 1991 quando Salvatore Riina dice che bisogna considerare unā impresa sullā orlo del fallimento, la āReale costruzioniā, ācome se fosse suaā. Noi la mettiamo al centro del gioco e cambiamo il gioco. Al famoso tavolo rotondo dove sedevamo noi, con le imprese siciliane e nazionali, cā era prima la societaā āImpresemā di Salamone che faceva da anello con i politici e Angelo Siino distribuiva appalti e tangenti. Sbaracchiamo tutto. Al posto della āImpresemā mettiamo la āRealeā. Dovā era Salamone sistemiamo Benny Dā Agostino. Mettiamo da parte Angelo Siino. Lo sostituiamo con Giovanni Bini. Sono facce pulite, gente della Palermo bene, utili per essere presentabili in quellā altro mondo, con le imprese nazionali e i politiciā. Domande. Quando comincia la ātrasformazioneā? Percheā , apparentemente senza motivo, Riina rivoluziona il sistema? La risposta a queste domande incrocia tutti i fili che si aggrovigliano intorno alla Procura di Palermo nel 1991 e nel 1992. Il lavoro investigativo del Ros su Mafia & Appalti; la riluttanza dellā ufficio del procuratore Pietro Giammanco a trasformare le informative dellā Arma in unā indagine accurata; la mano complice che consegna quel fascicolo agli uomini di Cosa Nostra e che obbliga i Corleonesi a bruciare il vecchio sistema e a metterne in piedi, con altre sigle e altri responsabili, uno nuovo di zecca. Eā un fatto che, come sostengono i procuratori di Caltanissetta, ādepositare lā intera informativa del Ros senza un omissis ha significato cancellare tutte le potenzialitaā dellā indagineā. Mossa avventata e dispettosa? Sospetta, come gridarono i carabinieri? Comunque mossa, dicono oggi i magistrati nisseni, che āimpediā di individuare alcuni personaggi che non furono sfiorati dalle indaginiā. Per fare qualche nome, a moā di esempio: Salvatore e Antonino Buscemi. Sono i fratelli mafiosi di Boccadifalco ad āaver in manoā molti bandoli dellā intricata matassa. Sono in societaā nella āCalcestruzziā con il gruppo Ferruzzi ā Gardini, spiega Giovanni Brusca (vedi il suo interrogatorio qui accanto). Controllano gli uomini nuovi del āsistemaā siciliano. Hanno ārapporti privilegiatiā che non mettono in comune nemmeno con Salvatore Riina. Che se ne lamenta, alquanto querulo: āSe lo tengono bello stretto strettoā. Salvatore e Antonino Buscemi hanno soprattutto āun aggancio con un magistratoā e anche questo āse lo tenevano strettoā. Cā eā chi considera questa notizia un āvelenoā di Palermo. Con maggiori probabilitaā , eā un buon indizio per unā indagine soprattutto se combacia con altri indizi e con una convinzione che non eā piuā unā ipotesi: Borsellino capiā che nel rapporto Mafia & Appalti cā era la ragione della morte di Falcone; che nei suoi ādiariā cā erano tracce delle complicitaā . Senza accorgersene, si avvicinoā troppo al nuovo sistema voluto da Riina e, quindi, alla sua crudele fine. Lā ipotesi eā della Procura di Caltanissetta. Dove dicono (ancora in maniera anonima): āAbbiamo tante fonti di prova che dimostrano come Borsellino si rigirava gli appunti di Falcone tra le mani. Abbiamo fonti di prova che aveva eletto lā indagine sugli appalti a prioritaā assoluta. E tuttavia dobbiamo ancora lavorare per dimostrare che, siā , Paolo Borsellino aveva capito come Cosa Nostra aveva trasformato il āsistemaā, come questo āsistemaā non fosse soltanto regionale ma nazionale, come portasse lontano da Corleone. Noi crediamo che proprio questo sia accaduto. Dā altronde fu lui, era il primo giorno di luglio del 1992, a sentirsi dire dal pentito Leonardo Messina che āla Calcestruzziā era di Salvatore Riinaā. Questo ha perduto Paolo Borsellino morto nella piuā āinutileā (allā apparenza) strage di Cosa Nostra. Affermazione che ne trascina unā altra. Ecco che cosa ha impedito di ricostruire la ācorruzione sistemicaā, poi svelata da Mani Pulite a Milano, con un anno dā anticipo a Palermo dove, al contrario di Milano, il āsistemaā aveva, prima dellā arrivo di Caselli nel gennaio del 1993, un vantaggio: qualche magistrato e un procuratore āstrettoā nelle mani di Cosa Nostra. Fosse soltanto per capire le ragioni di quel āritardoā e di tragedie che potevano essere evitate, eā valsa la pena di occuparsi di Paolo Borsellino.Ā
Giuseppe DāAvanzo Corriere della Sera Ā 9,10 e 11 febbraio 1999
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MAFIA – APPALTI e lāeliminazione del dottor Borsellino
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