IL RICORDO DI 3P Don Pino Puglisi: il coraggio di un parroco contro la mafia

 

 

Don Giuseppe “Pino” Puglisi, sacerdote palermitano, è divenuto simbolo della lotta etica e civile contro la mafia. Parroco nel difficile quartiere di Brancaccio a Palermo, ha dedicato la vita all’educazione dei giovani e al riscatto sociale della sua comunità, entrando inevitabilmente in conflitto con i boss mafiosi locali. Il suo omicidio, avvenuto il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno, scosse profondamente la coscienza collettiva: fu il primo sacerdote assassinato da Cosa Nostra nel dopoguerra, un evento che segnò uno spartiacque sia per la società sia per la Chiesa siciliana. Don Pino è stato riconosciuto martire dalla Chiesa cattolica, beatificato nel 2013 e annoverato tra coloro che hanno testimoniato con la vita l’impegno per il Vangelo e la legalità. A oltre trent’anni dalla sua morte, la sua eredità morale resta vivissima, alimentando memoria, impegno civile e riflessioni sul complesso rapporto tra Chiesa e mafia nel XX secolo.

Brancaccio: un quartiere sotto assedio e l’impegno di padre Puglisi

Brancaccio, periferia sud-est di Palermo, all’inizio degli anni ’90 era un quartiere degradato e quasi interamente sotto il controllo delle cosche mafiose. I boss Giuseppe e Filippo Graviano, capi famiglia di Cosa Nostra a Brancaccio, dominavano la zona reclutando manovalanza criminale tra i giovani senza prospettive. In questo contesto, nell’ottobre 1990 arrivò come parroco di San Gaetano padre Pino Puglisi, inviato dall’allora arcivescovo Salvatore Pappalardo con il compito non solo pastorale ma anche sociale di “risollevare” un quartiere difficilissimo.

Fin dall’inizio don Pino si immerse nella realtà del quartiere, mettendo in luce i suoi mali e lavorando per rianimare la comunità. Con uno stile semplice, mite e ricco di autoironia, riusciva a creare empatia con chiunque incontrasse. Il suo approccio pastorale metteva al centro i giovani. Egli mostrava ai ragazzi che la loro vita poteva prendere una piega diversa da quella dei genitori soggiogati dai boss. Offriva alternative concrete a chi era spinto a rubare o spacciare, insegnando il valore del lavoro onesto, del sacrificio con la gioia dell’onestà. Nel piccolo oratorio parrocchiale e per le strade di Brancaccio, “3P”, come lo chiamavano affettuosamente i suoi ragazzi, dalle iniziali di Padre Pino Puglisi, toglieva letteralmente i giovani dalla strada e dalle grinfie di Cosa Nostra. Il suo motto non dichiarato era “mi sta a cuore”, il medesimo di don Milani: prendersi cura degli ultimi, degli emarginati, dare loro speranza e strumenti per il futuro.

Tra le diverse iniziative di don Pino vi fu la creazione, nel luglio 1991, del Centro di accoglienza “Padre Nostro”, luogo deputato ad attività educative, doposcuola e assistenza a quanti avevano bisogno. Si batté strenuamente per ottenere servizi pubblici essenziali nel quartiere come ad esempio la costruzione di una scuola media, necessaria per sottrarre tanti ragazzini alla strada, sogno che si è realizzato solo dopo la sua morte. Il 13 gennaio 2000 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi inaugurò a Brancaccio la scuola media a lui intitolata, riconoscendo idealmente l’importanza di quella battaglia condotta dal parroco martire. In una realtà priva quasi di tutto, ogni gesto di don Pino, dal campo di calcio per i giovani ai servizi di carità per i poveri, rappresentava un seme di cambiamento sociale e una sfida aperta al potere mafioso.

“Una spina nel fianco” della mafia

L’attivismo evangelico e civico di Puglisi non passò inosservato ai boss di Cosa Nostra. Col tempo, divenne chiaro che quel prete era “una spina nel fianco” del sistema mafioso locale. Collaboratori di giustizia avrebbero poi rivelato lo stupore e la rabbia che il suo operato suscitava nei clan: “Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada… ogni giorno martellava e rompeva le scatole. Questo era sufficiente, anzi ‘sufficientissimo’, per farne un obiettivo da togliere di mezzo” raccontò il pentito Giovanni Drago. Un altro pentito, Totò Cancemi, riferì che tutte le cosche della zona si lamentavano con i capi di Brancaccio, i Graviano, per l’attività di padre Puglisi, perché “i picciotti seguono questo prete e non vengono a sentire i discorsi di Cosa Nostra”. Don Pino stava prosciugando il vivaio di manovalanza criminale su cui la mafia contava per il futuro.

Lo stesso capo dei capi, Totò Riina, notò con irritazione la sfida costituita da quel parroco di periferia. In un’intercettazione in carcere del settembre 2013 Riina ricordò Puglisi definendolo uno che voleva comandare il quartiere, lamentando che “doveva fare il parrino (ndr, il prete), pensare alle messe, lasciar stare… il territorio…”. Secondo i mafiosi, Puglisi “non si limitava a dire Messa” ma portava avanti ogni iniziativa utile a restituire dignità e speranza a Brancaccio, minando l’ordine oppressivo imposto dai boss. Per questo la sua opera era vista come elemento di sovversionedell’ordine mafioso: padre Pino appariva uno degli oppositori più tenaci e indomiti a quel sistema di potere criminale.

Le ripetute minacce e intimidazioni non fermarono il parroco. Subì aggressioni fisiche, l’incendio della porta di casa, il taglio delle gomme dell’auto. Don Pino rispondeva con un sorriso sdrammatizzando i pericoli e proseguendo nel suo dovere, ponendo sempre al primo posto evangelizzazione e promozione sociale. Puglisi era consapevole dei rischi che correva, confidò agli amici di aspettarsi una reazione violenta, e tuttavia scelse di andare avanti, dicendo: “Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto” e lui era sempre il primo a “fare qualcosa”. Un coraggio alimentato dalla fede, che lui considerava parte del suo ministero sacerdotale senza veli di ambiguità o complicità. Don Pino non poteva tacere di fronte all’ingiustizia e all’oppressione dei più deboli.

L’omicidio e il martirio

La sera del 15 settembre 1993 la mafia decise di eliminare quella voce scomoda. Mentre rincasava in via delle Due Torri, davanti al portone di casa, don Pino fu avvicinato da due sicari. Il killer Gaspare Spatuzza finse una rapina, strappandogli il borsello e gridando: “Padre, questa è una rapina!”. Puglisi, intuendo tutto, sorrise al suo assassino e mormorò soltanto: “Me lo aspettavo”. Queste furono le sue ultime parole. Un attimo dopo, Salvatore Grigoli gli sparò alla nuca con un colpo di pistola calibro 7.65. Padre Puglisi spirò poco dopo all’ospedale, dove inutilmente si cercò di rianimarlo.

Cosa Nostra tentò inizialmente di far passare l’agguato per rapina finita male, ma nessuno credette a quella messinscena. Troppo evidente era la matrice mafiosa dell’omicidio, subito condannato da tutta Palermo.

“Perché uccidere un prete? Perché uno come don Pino dava fastidio”, fu la tragica risposta emersa poi nei processi. I mandanti erano proprio i boss Graviano, che ottennero l’avallo anche dai vertici di Cosa Nostra dell’epoca. Leoluca Bagarella, cognato di Riina, approvò la decisione di eliminare il sacerdote perché “predicava tutto il giorno” e “si portava i ragazzini con sé” sottraendoli al controllo mafioso. Riina, dal canto suo, era d’accordo. La condanna a morte di Puglisi rientrava in una strategia più ampia. Quelli erano gli stessi mesi in cui la mafia stragista attaccava lo Stato con le bombe del 1993 a Roma, Firenze, Milano, e la Chiesa, con attentati dinamitardi contro chiese a Roma dopo il celebre anatema di Giovanni Paolo II. Eliminare “3P” doveva essere un messaggio chiaro a sacerdoti e fedeli: “Non interferite negli affari di Cosa Nostra”.

L’assassinio di quel “prete inerme”, compiuto con vigliaccheria e ferocia, si rivelò però un errore fatale per la mafia. Lungi dallo spegnere l’opera e il messaggio di Puglisi, quel sangue versato divenne seme di una nuova consapevolezza e di riscatto. La testimonianza di don Pino è divenuta ancor più esempio dopo la sua morte, i semi da lui gettati sono cresciuti nelle coscienze di tanti cittadini, soprattutto dei giovani, a cui ha dedicato il sacrificio della sua vita. Come dirà 25 anni dopo il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “la mano vile della mafia spezzò la vita di Pino Puglisi, ma non riuscì a ucciderne la testimonianza che, come un seme, ha poi germogliato nel cuore e nell’impegno di tanti palermitani onesti”.

Indagini e processi: la giustizia identifica mandanti ed esecutori

Le indagini sull’omicidio, condotte dai sostituti procuratori Luigi Patronaggio e Lorenzo Matassa, portarono in breve all’individuazione dei responsabili. I mandanti del delitto, i fratelli Graviano, furono arrestati nel 1994 e successivamente condannati all’ergastolo. Come esecutori materiali, furono assicurati alla giustizia i membri del gruppo di fuoco di Brancaccio: Gaspare Spatuzza, Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro, Luigi Giacalone, tutti condannati al carcere a vita. L’uomo che esplose il colpo mortale, Salvatore Grigoli, fu arrestato nel 1997 e decise subito di collaborare con la giustizia, confessando l’agguato nei dettagli. Grazie al suo pentimento ottenne uno sconto di pena, una condanna a 16 anni ridotti a 14 per la collaborazione, e già nel 2004 fu ammesso agli arresti domiciliari. Nel 2008 anche Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare, offrendo ulteriori riscontri sui retroscena del delitto.

Nei processi, due gradi di giudizio più Cassazione, emerse chiaramente il movente dell’omicidio: l’opera di don Puglisi rappresentava “un’insidia e una spina nel fianco” per il clan che dominava Brancaccio, perché costituiva “un elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso, conservatore e opprimente, imposto nella zona”. Puglisi si era schierato senza ambiguità “dalla parte dei deboli ed emarginati”, sostenendo “i progetti di riscatto degli onesti” decisi a cambiare volto al quartiere. I giudici riconobbero la statura morale del parroco, arrivando a definire il suo assassinio un vero martirio. In Appello, nella sentenza emessa nel 2001, si sottolineò che don Pino sapeva di andare incontro alla morte, ma trovò il coraggio di proseguire la missione “tra minacce e intimidazioni”, disposto al sacrificio supremo “come se la morte non gli facesse paura”. Neppure gli attentati ripetuti contro di lui e i suoi collaboratori, dalle porte date alle fiamme alle aggressioni fisiche, lo fermarono: “don Puglisi stesso si trovò le ruote dell’auto tagliate e un labbro spaccato, ma lui sdrammatizzava sempre e continuava a fare il proprio dovere“. Questa dedizione fino all’estremo sacrificio confermava, per i magistrati, la natura martiriale della sua morte.

La Chiesa cattolica, da parte sua, ha riconosciuto ufficialmente il martirio “in odium fidei” di padre Puglisi. La causa di beatificazione, avviata pochi anni dopo la morte, ha raccolto numerose testimonianze sul suo altruismo e la sua fede. Nel maggio 2013 don Pino è stato beatificato a Palermo come martire, davanti a una folla di fedeli che lo acclamavano come eroe della fede e della legalità. È oggi venerato come Beato e la sua memoria liturgica, il 21 ottobre, ricorda il sacerdote “ucciso dalla mafia perché fedele al Vangelo. La Chiesa, in lui, ha voluto indicare un esempio luminoso di coerenza cristiana: un pastore che non esitò a denunciare il male e a difendere i suoi poveri, fino a dare la vita.

La reazione della Chiesa: dai funerali al ricordo degli arcivescovi

La Chiesa palermitana visse con profondo turbamento la barbara uccisione di padre Puglisi. La sera dell’omicidio il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo dal 1970 e guida spirituale molto amata in città, accorse sconvolto all’ospedale Buccheri La Ferla dove era stato portato il sacerdote morente. Fu uno shock enorme. Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, adesso la mafia aveva fatto scorrere il sangue di un prete, colpendo la Chiesa direttamente. Due giorni dopo, il 17 settembre 1993, il cardinale Pappalardo celebrò i funerali di don Pino Puglisi in un affollato piazzale dell’area industriale di Brancaccio. In quell’omelia funebre, l’arcivescovo, con voce ferma, ma il cuore colmo di dolore, invitò tutti a scuotere le proprie coscienze, a non cedere alla violenza mafiosa, a “lavare nel sangue di padre Puglisi le proprie incertezze” e ritrovare il coraggio della fede. Pappalardo sottolineò come don Pino avesse sacrificato la propria vitaper non venir meno al suo dovere di presbitero” e auspicò che quel sacrificio non risultasse vano. In quelle ore concitate, molti videro il vecchio cardinale, già provato dai lutti che avevano insanguinato Palermo, visibilmente pallido e scosso; alcuni collaboratori lo sentirono chiedersi con amarezza se si sarebbe potuto fare di più per evitare una tragedia del genere.

L’omelia di Pappalardo destò vasta eco. Pur senza usare toni profetici come avrebbe fatto Papa Wojtyla pochi mesi dopo, il cardinale affermò il concetto chiaro che il bene non può essere vinto da nessuna mafia. Era un messaggio di speranza e insieme una sveglia alle coscienze, rivolto sia alla comunità ecclesiale sia alle istituzioni dello Stato, colpevoli di aver a lungo sottovalutato quanto avveniva a Brancaccio. Qualcuno, in seguito, criticò Pappalardo per aver definito Puglisi “non un prete antimafia”, quasi a rimarcare che il suo era anzitutto un impegno evangelico, interpretando quella frase come un tentativo di smorzare la portata sociale del martirio. Altri accusarono in generale la Curia di aver lasciato solo don Pino nella sua difficile missione. Tuttavia, studi e documenti emersi negli anni seguenti hanno ridimensionato queste critiche: Pappalardo in realtà stimava profondamente Puglisi e lo sostenne durante il ministero a Brancaccio, mantenendo frequenti contatti personali con lui e appoggiandone le iniziative, come l’acquisto della casa per il centro “Padre Nostro”, a cui la Curia contribuì finanziariamente. L’arcivescovo era consapevole dei pericoli e, sebbene forse non immaginasse un epilogo così atroce, diede fiducia a Puglisi fino all’ultimo. Il suo dolore sincero al funerale resta una delle immagini emblematiche di quei giorni luttuosi.

Oggi la Chiesa palermitana continua a ricordare don Puglisi attraverso le parole dei successori di Pappalardo. L’attuale arcivescovo, mons. Corrado Lorefice, che da giovane prete ebbe modo di collaborare con Puglisi nell’ambito della pastorale vocazionale, ne ha più volte tratteggiato la figura come quella di un dono e un monito per la comunità. Nell’omelia per l’anniversario della morte dello scorso anno, Lorefice ha evidenziato come Puglisi abbia lasciato “chiari segni e parole di liberazione dall’oppressione mafiosa”, ma non tramite slogan o potere umano perchè lo fece camminando fedelmente dietro a Gesù, “da testimone autentico, da martire, fino al martirio di sangue”. Il suo esempio, ha aggiunto l’arcivescovo, “è quello di un discepolo che dà la vita per amore, fino in fondo, e così facendo libera davvero i fratelli dall’oppressione”. Puglisi stesso, in uno scritto autobiografico ritrovato, precisava con umiltà: “Non sono un eroe, non sono un prete antimafia. Sono solo un uomo, un battezzato che ha ricevuto la grazia di un ministero specifico, quello del sacerdozio”. Queste parole, citate da Lorefice, mostrano come don Pino vedesse il suo impegno anti-mafia non come militanza politica, ma come diretta conseguenza del Vangelo e della sua vocazione sacerdotale. Lorefice, nel giorno del trentesimo anniversario, ha ricevuto anche un’importante lettera di Papa Francesco in memoria di Puglisi: il Pontefice ha definito don Pino “autentico testimone della fede”, paragonandolo al “buon pastore, mite e umile” che conosce e ama uno ad uno i suoi ragazzi, che li educa “alla libertà, ad amare la vita e a rispettarla”. “Don Puglisi – ha scritto Papa Francesco“non si è fermato, ha dato sé stesso per amore abbracciando la Croce sino all’effusione del sangue”. Parole che riecheggiano, ancora una volta, il significato spirituale del suo sacrificio.

La memoria nello Stato e nella società civile

La figura di don Puglisi ha lasciato un segno profondo non solo nella Chiesa, ma anche nell’immaginario civile dell’Italia. Le istituzioni dello Statohanno più volte onorato la sua memoria, riconoscendolo come esempio di educatore alla legalità e servitore del bene comune. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, egli stesso palermitano e fratello di una vittima di mafia, lo ha definito un “martire civile” morto per quei valori di solidarietà, giustizia e dignità umana che sono “il nucleo vitale” della Costituzione. Nel 25° anniversario dell’assassinio, Mattarella ha ricordato che la testimonianza di Puglisi ha germogliato nel cuore di tanti, e che la Chiesa proclamandolo Beato ne ha indicato “l’integrale ribellione alle mafie” come esempio luminoso di coerenza cristiana. “La Repubblica ha aggiunto – vede in lui un modello di cittadino esemplare, che come i giudici Falcone e Borsellino aveva capito che la vittoria contro la mafia passa soprattutto attraverso la crescita della coscienza dei giovani”. Il Capo dello Stato ha inolktre sottolineato che “Puglisi fu un generoso, instancabile educatore” e il suo appello a “camminare a testa alta” contro il giogo dell’oppressione criminale ha contribuito ad arricchire Palermo e l’intero Paese. Nel 2018 Mattarella concludeva il suo messaggio con un impegno solenne: “non si tornerà indietro rispetto a ciò che ci ha lasciato”, un monito a tutte le istituzioni e ai cittadini perché il sacrificio di Puglisi non sia mai considerato vano.

Anche altri Presidenti della Repubblica prima di lui hanno reso omaggio a Puglisi: Oscar Luigi Scalfaro nel 1993, che partecipò commosso ai funerali; nel 2000 Carlo Azeglio Ciampi, inaugurando la scuola dedicata al sacerdote, ne lodò la lungimiranza educativa; Giorgio Napolitano nel 2013 ne ricordò la beatificazione come “segno di riscatto per la Sicilia”. Innumerevoli realtà della società civile si ispirano oggi al suo esempio. Associazioni e scuole di tutta Italia portano oggi il suo nome. Ogni 21 marzo, la Giornata della memoria per le vittime di mafia, il nome di don Puglisi risuona nelle piazze accanto a quelli di magistrati, giornalisti, donne e uomini caduti per mano mafiosa. Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, ha spesso indicato in Puglisi un riferimento etico: un prete di frontiera che col suo sorriso disarmato ha insegnato a un’intera generazione che mafioso e cristiano sono condizioni incompatibili. Nel commentare l’impatto storico dell’“urlo” di Giovanni Paolo II contro la mafia nel 1993, don Ciotti ha osservato che quelle parole furono un abbraccio al coraggio del popolo siciliano e insieme la fine di “un lungo e inaccettabile ritardo delle coscienze” nella Chiesa. E quel risveglio delle coscienze ha il volto di martiri come Pino Puglisi e, più recentemente, del giudice Rosario Livatino, ucciso nel 1990 e beatificato nel 2021: figure che uniscono dimensione spirituale e impegno per la giustizia, testimoniando ai credenti e ai non credenti la forza rivoluzionaria del bene contro ogni tirannia del male. In Sicilia quest’anno, nel giorno della riapertura delle scuole che coincide con il 32° anniversario della morte di “3P”, l’Assessorato regionale dell’istruzione e della formazione professionale ha deciso di inviare una circolare agli istituti di ogni ordine e grado invitando tutte le scuole dell’isola “a dedicare un momento di riflessione” alla memoria del sacerdote ucciso perché “la sua testimonianza di fede, coraggio e dedizione rappresenta ancora oggi un potente modello pedagogico-educativo e uno strumento di cambiamento sociale e culturale da preservare”.

L’eredità di don Pino Puglisi può essere riassunta in una parola: speranza. Egli ha incarnato la speranza che anche nel territorio più difficile si possa affermare una cultura della vita contro la “civiltà della morte” mafiosa. La sua azione pastorale, fondata su valori evangelici, ha prodotto effetti concreti nel tessuto sociale di Brancaccio: molte delle opere da lui volute sono fiorite negli anni successivi. Oggi Brancaccio ha finalmente strutture che prima non c’erano, la scuola media, il campo sportivo, centri di aggregazione, e soprattutto esiste il Centro di Accoglienza Padre Nostro, che prosegue da decenni la missione iniziata da 3P. Giovani volontari vi prestano servizio civile, assistendo bambini, anziani, famiglie in difficoltà, detenuti in reinserimento: “si crea con le persone un legame di fiducia difficile da interrompere”, racconta una volontaria, a dimostrazione che la semina di don Pino continua a dare frutti. Resta ancora molto da fare, ma nessuno ha dimenticato la lezione di quel prete: “il primo dovere a Brancaccio è rimboccarsi le maniche. E i primi obiettivi sono i bambini e gli adolescenti”, come amava ripetere.

Sul piano educativo e morale, don Puglisi ha lasciato un metodo e un messaggio. Il metodo è quello del coinvolgimento: “Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto” diceva, spronando tutti alla responsabilità condivisa. Il messaggio è che la fede non può essere chiusa in sacrestia, ma esige coerenza nella realtà sociale. Per Puglisi il Vangelo implicava la denuncia del peccato e dell’ingiustizia, la difesa della dignità umana in ogni contesto. In questo senso la sua è un’eredità profondamente etica: il richiamo a una coerenza tra valori proclamati e scelte di vita. La legalità, per don Pino, non era un concetto astratto né solo il rispetto formale delle leggi, ma una conseguenza dell’amore per il prossimo e del rifiuto radicale di ogni compromesso con l’oppressione. “Educare alla libertà” era la sua missione quotidiana: libertà dalla paura, dal bisogno, dal ricatto mafioso. Per questo oggi la figura di Puglisi è entrata a pieno titolo nei programmi di educazione civica e alla legalità nelle scuole, come esempio di cittadinanza attiva e di impegno morale. I suoi ex giovani di Brancaccio, molti dei quali salvati dalla criminalità, testimoniano alle nuove generazioni che un cambiamento è possibile, se si ha il coraggio di scegliere il bene.

C’è infine un’eredità prettamente spirituale e teologica. Don Pino ha vissuto in modo eroico il comandamento evangelico dell’amore per gli ultimi e il perdono verso i nemici. Celebre è l’episodio del suo assassino Grigoli che, anni dopo averlo ucciso, convertitosi, chiese perdono alla comunità cristiana e pregò davanti alla tomba di Puglisi: un segno potente di come il martirio cristiano porti frutto persino nei cuori induriti. Papa Francesco, nel ricordare don Pino, ha insistito sul suo andare “fino in fondo nell’amore” sull’esempio di Gesù. La Chiesa lo propone come modello di “santo della porta accanto”: un parroco umile, dalla fede schietta e sorridente, ma capace di scelte radicali di fronte al male. La sua beatificazione ha avuto anche il significato di indicare a tutta la comunità ecclesiale, specialmente in Sicilia, che lotta alla mafia e testimonianza cristiana coincidonoquando in gioco ci sono la dignità dell’uomo e la libertà dei figli di Dio. In don Puglisi, infatti, la lotta alla mafia non ebbe nulla di ideologico: fu piuttosto l’espressione naturale di una vita evangelica, tutta dedicata a servire gli altri. Come recita una sua frase spesso citata: “Dare la vita non è morire, ma è il massimo servizio che può e deve rendere un vero servo di Dio”. Il suo sacrificio resta perciò un faro etico, che illumina credenti e non credenti, ricordando a tutti che vale la pena spendersi per il bene, anche a costo della vita.

Ecco dunque l’eredità più grande lasciataci da don Pino Puglisi e da quanti come lui hanno operato sul confine tra Chiesa e impegno civile: l’idea che fede e legalità camminano insieme. La Chiesa italiana, fatta la sua autocritica per i silenzi del passato, oggi è in prima linea nel promuovere una cultura della legalità ispirata al Vangelo. Come ha scritto Papa Francesco, “è urgente l’opzione preferenziale per i poveri” e “non bisogna fermarsi di fronte alle piaghe sociali” come le mafie. Don Puglisi questo lo aveva capito e vissuto fino in fondo. La sua vita spezzata continua a parlare, a ispirare e a richiamare tutti, preti, credenti e cittadini, al dovere di non rassegnarsi mai al male. Come un chicco di grano caduto in terra, dal suo sacrificio è germogliata una nuova primavera di coscienze risvegliate. E, per usare un’espressione cara a Giovanni Paolo II, il bene – testimoniato da uomini giusti come Puglisi – “non può essere vinto da nessuna mafia”. Il suo martirio lo conferma.

15 settembre 1993, il giorno del suo compleanno, Cosa nostra elimina PINO PUGLISI, il prete che combatteva la mafia con il sorriso

 

La CHIESA e la MAFIA