L’ANALISI STORICA Chiesa e mafie: un rapporto controverso

 

Chiesa e mafia nel Novecento

 

 

La morte di don Puglisi (leggi l’approfondimento) si inserisce nel più ampio e difficile rapporto tra la Chiesa cattolica e la mafia, in particolare in Sicilia, lungo tutto il XX secolo. Per molto tempo, infatti, la Chiesa, sia a livello locale che nazionale, ha faticato a prendere posizione netta contro le organizzazioni mafiose.
All’inizio del ’900 e fino al secondo dopoguerra prevalse una sorta di silenzio o di percepita estraneità. Le mafie erano viste come un problema di ordine pubblico di competenza dello Stato, mentre la Chiesa si teneva ai margini, spesso concentrata su altre sfide, ad esempio la lotta al comunismo.
Storicamente, in certe realtà meridionali, poteri mafiosi e poteri ecclesiastici hanno finito talora per convivere tacitamente, condividendo un’influenza sulle comunità locali. Simbolicamente, mentre Pio XII nel 1949 emanava la scomunica per i comunisti, nessun analogo provvedimento giunse per i mafiosi, nonostante questi ultimi prosperassero in una cultura di violenza e sopraffazione chiaramente antitetica al messaggio cristiano.
Negli anni ’60 la mafia veniva ancora minimizzata da alcuni esponenti di spicco della Chiesa siciliana. Celebre e controversa fu la posizione del cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1946 al 1967, il quale inizialmente negò quasi l’esistenza stessa di Cosa Nostra come entità organizzata. In una sua uscita famosa, Ruffini definì la mafia “una forma di delinquenza comune” come ce n’è in tutte le grandi città, attribuendo l’allarme mafia a un’esagerazione della stampa e ad una macchinazione dei comunisti. Questa valutazione rifletteva lo spirito del tempo: all’epoca le stesse autorità civili sottovalutavano il fenomeno, e la Chiesa locale adottava spesso le stesse categorie interpretative della società civile. Ancora nei primi anni ’80, prima delle grandi stragi, le parole ufficiali della Chiesa sulla mafia non si distinguevano molto da quelle dei sindaci o dei magistrati dell’epoca, come ha osservato lo storico mons. Cataldo Naro. Si può parlare di un ritardo nella presa di coscienza: un lungo periodo in cui molti ecclesiastici, tranne rare voci profetiche isolate, evitarono lo scontro frontale con i poteri mafiosi, spesso per prudenza o forse per timore.

Complicità, ambiguità e silenzi (1950-1980)

Tra gli anni Cinquanta e Ottanta, in molte aree della Sicilia, potere mafioso e potere religioso hanno condiviso linguaggi, ritualità, reti sociali.
Non fu una regola universale anche perché accanto a preti conniventi ci furono sacerdoti coraggiosi ma esistette una zona grigia: parroci che legittimavano socialmente i boss con onori funebri, posti d’onore in chiesa, comparatico nei sacramenti, processioni piegate al consenso e vescovi che per decenni minimizzarono il fenomeno, rinunciando a una denuncia esplicita. La letteratura storica e sociologica parla di “mafia devota”: un uso selettivo del cattolicesimo come simboli, feste e confraternite, per dare rispettabilità al dominio criminale e, talvolta, coperture e contatti.
Nei paesi di mafia la religiosità popolare fu terreno d’influenza. Studi storici documentano come il padrinato, ossia battesimi, cresime e matrimoni, cementasse alleanze fra famiglie e cosche, trasportando in chiesa relazioni di potere e protezione. Essere “compari” con un notabile mafioso significava entrare in una rete di favori e di lealtà. L’uso di titoli e segni religiosi, ricordiamo i santini bruciati nei riti, piccoli altari, bibbie e immagini sacre nei covi dei capi latitanti, contribuì a costruire rispettabilitàper uomini violenti che si autoproclamavano “cristiani”. Questo intreccio è ricostruito in ricerche su confraternite e sacramenti (anni ’20-’60) e nel saggio ormai classico di Alessandra Dino sulla “mafia devota”.

I casi simbolo

Alla morte del boss Calogero Vizzini  che avvenne a Villalba nel 1954, il paese assistette a un funerale trionfale, con autorità civili, clero in primo piano e una retorica pubblica che ne celebrava la figura. Foto e cronache raccontano l’evento come una investitura pubblica di onore: la chiesa gremita, l’epitaffio elogiativo, il corteo solenne. È un episodio emblematico della legittimazione morale che parte del clero locale seppe (o volle) offrire a un capo di Cosa nostra, specchio di un’epoca in cui la “rispettabilità” mafiosa passava anche per la porta della parrocchia.

Tra il 1956 e il 1959, a Mazzarino (Caltanissetta), quattro frati cappuccinifurono coinvolti in una vicenda di estorsioni, violenze e rapporti con ambienti criminali. Il processo, che fece epoca, mostrò una contaminazione estrema: religiosi usati, e in parte coinvolti, in pratiche di controllo, ricatto e accumulazione di denaro. La ricostruzione giornalistica e storiografica realizzata da Frasca Polara e Fulvetti e gli atti giudiziari raccontano un intreccio fra sacro e violenza che travalicava la “tolleranza” e scivolava nella partecipazione. È un caso limite, ma serve a misurare quanto, in un contesto privo di anticorpi, il prestigio ecclesiale potesse essere piegato a fini mafiosi.
Sul versante gerarchico, il quadro 1950-70 fu segnato a Palermo dalla figura del cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo dal 1945 al 1967. In pubblici interventi e nella pastorale “Il vero volto della Sicilia” del 1964, Ruffini minimizzò la mafia, bollando spesso il tema come esagerazione della stampa e dei comunisti.
Dopo la strage di Ciaculli, avvenuta nel 1963, mentre il pastore valdese Pietro Valdo Panascia affiggeva per le strade un manifesto cristiano contro la violenza “È Dio che ordina: non uccidere”, dalla Curia cattolica palermitana non arrivò un analogo grido profetico.
La storiografia più recente discute se quella di Ruffini fu cecità o calcolo, ma converge su un punto: quel ritardo nel chiamare per nome Cosa nostra contribuì a tenere la Chiesa ai margini della denuncia pubblica in un passaggio decisivo.
Sul piano locale, le complicità si consumavano nei gesti: statue dei santi che “s’inchinano” davanti alla casa del capomafia durante le processioni, posti riservati in prima fila, funerali e matrimoni che diventano palchi di potere, confraternite usate come canali di prestigio, parroci che evitano scomuniche pubbliche, preferendo mediazioni e quieto vivere. Era una legittimazione simbolica: non necessariamente soldi o favori diretti, ma un credito morale concesso a chi dominava il territorio. Le ricerche su ritualità e devozioni mostrano come queste osmosi tra sacro e potere criminale abbiano consolidato il consenso mafioso e reso più difficile la ribellione civile.
Nel dopoguerra e fino agli anni ’60, in molte aree rurali la convergenza tra anticomunismo cattolico e interessi clientelari creò un clima favorevole alla coabitazione: i mafiosi garantivano ordine, voti e “tutela” della tradizione; parte del clero vedeva in quel presidio sociale una barriera alla sinistra e al conflitto. 
Gli storici della mafia quali Lupo e Dickie, collocano qui uno dei cardini dei rapporti Chiesa-notabilato-cosche: un triangolo che, senza formalizzarsi, favorì mutue convenienze, scambi di legittimitàe immunità sociale. Ma il lungo 1950-80 resta l’età dei silenzi e delle ambivalenze, con poche eccezioni profetiche come quella valdese del 1963.

La prima incrinatura: fine anni ’70 – primi ’80

La stagione delle stragi e degli omicidi eccellenti cambiò l’aria. Dopo gli anni Pio XII-Paolo VI, segnati da prudenza e solo primi richiami, con i delitti Giuliano, Terranova, Mattarella, Dalla Chiesa e le guerre di mafia, la voce di parte della Chiesa siciliana si fece più esplicita  e il cardinale Pappalardo, dal 1982, ruppe la retorica minimalista
La lettura retrospettiva di studiosi e testimoni concorda: la Chiesa istituzionale arrivò tardi a dichiarare incompatibile il Vangelo con la cultura mafiosa.
Capire il prima aiuta a spiegare il dopo: solo quando la Chiesa, locale e nazionale, ha rotto l’ambiguità, dalla stagione di Pappalardo all’anatema di Giovanni Paolo II nel 1993, fino alla formula di Papa Francesco sulla scomunica dei mafiosi, si è spezzata la pretesa mafiosa di abitare impunemente lo spazio sacro. Le pagine degli anni 1950-80 insegnano che, dove la comunità cristiana tace, la mafia si incensa da sé; dove la Chiesa parla con chiarezza, crolla la sua rispettabilità.
Qualcosa iniziò a cambiare con l’escalation di violenza mafiosa negli anni ’80. L’assassinio del prefetto-generale Dalla Chiesa a Palermo spinse il cardinale Pappalardo a tuonare, durante i funerali, la famosa frase: “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”, per denunciare l’inerzia delle istituzioni di fronte all’aggressione della mafia. Pur non nominando esplicitamente Cosa Nostra, quella citazione classica scosse l’opinione pubblica ed evidenziò che la Chiesa palermitana non intendeva più tacere.
Nel frattempo, alcune figure di “preti antimafia” cominciavano a emergere: in Sicilia padre Vincenzo Riggio e altri denunciavano la cultura mafiosa già dagli anni ’70, in Calabria don Italo Calabrò e don Francesco Sotgiudifendevano i giovani dalla ’ndrangheta, in Campania si alzava la voce di don Peppino Diana, che sarà ucciso dalla camorra nel 1994. Tuttavia, fu negli anni ’90 che avvenne la vera svolta.
Il 9 maggio 1993, nella Valle dei Templi ad Agrigento, Papa Giovanni Paolo II pronunciò parole destinate a fare storia. In visita pastorale in Sicilia, al termine della Messa, Wojtyla uscì dal protocollo e lanciò un grido infuocato contro la mafia, parlando a braccio con tono accorato: “Dio ha detto una volta: Non uccidere. Non può l’uomo, non può qualsiasi mafia, cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!” tuonò il Papa polacco davanti a migliaia di siciliani. Poi, rivolto direttamente ai mafiosi, alzò ancor di più la voce in un appello che riecheggia profetico: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”. Denunciò la “civiltà della morte” portata dalla mafia, opponendovi la “civiltà della vita” nel nome di Cristo. Mai un Papa aveva parlato con tanta chiarezza: quelle frasi segnarono il punto di non ritorno nel rapporto tra Chiesa e mafie. Da allora in poi, la Chiesa adottò esplicitamente il suo linguaggio biblico-profetico per interpretare e giudicare le cosche mafiose, riconoscendo finalmente il fenomeno per quello che è: male radicale, peccato gravissimo, cultura anti-Vangelo.
La reazione di Cosa Nostra all’“invettiva” del Papa non si fece attendere. I boss sentirono vacillare quel tacito rispetto di cui un tempo godevano in ambienti ecclesiali: Riina insultò ferocemente Wojtyla. Intercettato in carcere lo definì “un carabinierequello polacco era cattivo” e ironizzò su quel “pentitevi” gridato ad Agrigento.
Pochi mesi dopo, come accennato, la mafia fece esplodere bombe presso due antiche chiese di Roma, San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, la cattedrale del Papa, nell’attentato del 28 luglio 1993. si trattò un gesto dal forte valore simbolico, orchestrato dal boss Matteo Messina Denaro su mandato di Riina.
La sfida alla Chiesa era dichiarata. Collaboratori di giustizia confermarono che Cosa Nostra aveva rotto ogni indugio: “Nel passato la Chiesa era considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa Nostra sta attaccando anche la Chiesa perché si sta esprimendo contro la mafia”, spiegò il pentito Francesco Marino Mannoia già nell’agosto ’93. Un altro pentito, Leonardo Messina, aggiunse: “La Chiesa ha capito prima dello Stato che doveva prendere le distanze da Cosa Nostra”. In questo clima maturò, poche settimane dopo, l’omicidio di don Puglisi – quasi una vendetta trasversale e un avvertimento verso quella “Chiesa che parla troppo”. Ma l’effetto ottenuto fu l’opposto: la morte di Puglisi, come si è visto, suonò ancor di più come chiamata alla responsabilità per uomini di Chiesa e laici.
Sull’onda dello shock e del monito di Giovanni Paolo II, la Conferenza Episcopale Siciliana prese posizione ufficiale. Il 13 aprile 1994. Neanche un anno dopo il grido del Papa ad Agrigento, i vescovi dell’isola pubblicarono un documento storico dal titolo eloquente: “Convertitevi!”. In esso definirono la mafia un “distorto complesso di falsi valori”, ribadendo l’“assoluta incompatibilità” tra mentalità mafiosa e Vangelo e rinnovando la censura della scomunica per i mafiosi. I vescovi siciliani dichiararono quindi che non si può essere cristiani e mafiosi allo stesso tempo. Chi persiste nell’organizzazione mafiosa “si autoesclude dalla comunione con il Signore” e di fatto incorre nella scomunica, scrissero ,a meno che non intraprenda un cammino autentico di conversione e pentimento. Questa presa di posizione fu epocale, ponendo fine a decenni di ambiguità. Da allora, periodicamente l’episcopato isolano è tornato sull’argomento come nel caso di una nuova lettera “Convertitevi!” nel 2018, a 25 anni dall’appello di Wojtyla, richiamando sia i credenti sia i mafiosi stessi alla necessità di un cambiamento radicale.
Parallelamente, anche la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) inserì la lotta alle mafie nel più ampio impegno pastorale per la legalità e il bene comune, specialmente nel Mezzogiorno. Nel documento programmatico “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno” (2010), i vescovi italiani denunciarono che la mafia, pur conclusa la fase stragista, agiva ormai come “un torrente sotterraneo” infiltrato in ogni angolo della società, con metodi nuovi e subdoli: le mafie “hanno messo radici in tutto il territorio italiano” evolvendosi in attività economiche sofisticate, ma mantenendo al contempo “forme arcaiche e violente di controllo” del territorio. Questa analisi dimostra che la Chiesa, a livello nazionale, aveva ormai maturato una piena consapevolezza del fenomeno mafioso non solo come emergenza criminale, ma come questione culturale e morale di prima grandezza.

La condanna ecclesiale della mafia: dai vescovi a Papa Francesco

Oggi la posizione ufficiale della Chiesa verso la mafia è inequivocabile: la mafia è peccato gravissimo, un male intrinseco, una forma di idolatria incompatibile con la fede cristiana. Papa Francesco, in continuità con i suoi predecessori, ha più volte ribadito e rafforzato questa condanna. Durante una visita pastorale in Calabria, nel giugno 2014, Bergoglio ha pronunciato parole di portata storica: “Quando non si adora Dio si diventa adoratori del male, come lo sono coloro che vivono di malaffare e di violenza… La ’ndrangheta è questo: adorazione del male e disprezzo del bene comune. Questo male va combattuto, va allontanato. Quelli che seguono questa strada di male, come i mafiosi, non sono in comunione con Dio, sono scomunicati. È stato un anatema netto, un pronunciamento pubblico di “scomunica” ai mafiosi che ha fatto il giro del mondo. Non si trattava di un atto giuridico-formale, la scomunica latae sententiae per i mafiosi non è codificata nel diritto canonico, ma di un potentissimo monito pastorale: il Papa dichiarava che chi appartiene alla mafia si pone da sé fuori dalla comunione ecclesiale, finché non si pente sinceramente. Francesco ha poi affermato: “I mafiosi sono scomunicati”anche in altre occasioni, e ha pregato per la conversione di uomini e donne di mafia. Nel 2018, recandosi a Palermo proprio nel 25° anniversario del martirio di Puglisi, Papa Francesco ha pregato sulla tomba del sacerdote e l’ha additato ai fedeli come esempio di “pastore buono che ha vinto il male col bene”.
Anche la CEI e i vescovi meridionali, dal canto loro, hanno continuato a produrre documenti e iniziative. I vescovi di Calabria nel 2015 hanno emanato un decreto contro la presenza di padrini “ambigui” nelle cerimonie religiose (per evitare infiltrazioni mafiose in battesimi e cresime). Hanno inoltre richiamato la necessità di “purificare la pietà popolare”, cioè vigilare su processioni e feste religiose affinché non vengano inquinate da devozioni superstiziose o, peggio, strumentalizzate dai clan per ottenere consenso. Su questo fronte, la Chiesa sta operando concretamente: negli ultimi anni varie diocesi del Sud hanno emanato direttive per impedire, ad esempio, che le statue dei santi vengano fatte inchinare davanti alle case dei boss durante le processioni eliminando così un antico segno di omaggio mafioso. Papa Francesco ha sostenuto apertamente queste misure di “tolleranza zero”, incoraggiando i sacerdoti a non avere paura di isolare i mafiosi e a trovare “linguaggi giusti per mostrare la tenerezza di Dio, la sua giustizia e la sua misericordia” anche verso chi è colluso col male. Il messaggio è duplice: da un lato la Chiesa dichiara guerra spirituale alla mafia (nessuna convivenza è più ammessa), dall’altro tiene aperta la porta della misericordia per chi decide di pentirsi – perché il Vangelo impone di cercare la salvezza di ogni peccatore, anche del mafioso incallito, purché questi rinunci al male.
Si è passati, quindi, da un rapporto di relativa indifferenza o timidezzadella Chiesa verso le mafie a una posizione di aperta denuncia e contrasto.
Questa evoluzione, accelerata dal sangue dei martiri come Pino Puglisi e Peppe Diana, e dalla coraggiosa guida di pastori illuminati, rappresenta oggi un patrimonio di coscienza collettiva. Se un tempo qualche boss poteva definirsi “uomo d’onore” andando a messa la domenica, adesso sa che è un scomunicato e un traditore del Vangelo finché persevera nelle sue azioni malvagie.
Come hanno scritto i vescovi, la mafia è un “peccato” e un “clamoroso tradimento” del messaggio cristiano.
Questa chiara condanna morale contribuisce a isolare ulteriormente la mafia sul piano culturale e religioso, togliendole quell’aura di legittimità sociale che per decenni l’aveva protetta. Roberto Greco 15.9.


 

MAFIA e CHIESA