LE SCORTE – in libreria

 

Libro Cinque vite. Racconti inediti dei familiari della scorta di Paolo Borsellino di Mari Albanese
Palermo, 19 luglio 1992 ore 16:58. Cento chili di tritolo destinati al giudice Paolo Borsellino deflagrano dentro una piccola utilitaria in via d’Amelio a Palermo. Insieme al Giudice, perdono la vita Emanuela Loi, Vincenzo Fabio Li Muli, Eddie Walter Max Cosina, Agostino Catalano e Claudio Traina. Sono queste le cinque vite che il nuovo e necessario lavoro di Mari Albanese ci restituisce e che troppo spesso vengono citati solo come “i ragazzi della scorta”: locuzione sbrigativa che toglie loro lo spessore di un nome, di un corpo e dell’identità. Per non dimenticarli, l’autrice ha raccolto le parole inedite dei familiari, confidenze che ci donano ritratti intimi, non conosciuti, che vanno oltre la divisa: un racconto della loro vita fatta di quotidianità, curiose rivelazioni, emozioni, tante speranze. Conosceremo così l’amore di Fabio e Victoria, ancora inflessibile; la solarità di Emanuela, frizzante e briosa; i colori tenui e caldi di Agostino, che superbamente riversava nei suoi quadri; la musica nel cuore di Eddie, appassionato dj alla radio libera; e le mattinate a pesca di Claudio, nel silenzio del primo mattino. Prefazione di Enrico Bellavia.

 


Oltre Capaci. Rocco Dicillo agente di scorta al fianco di Falcone Copertina flessibile – 15 maggio 2019

 
Il 23 maggio 1992 nelle automobili che scortavano Giovanni Falcone e sua moglie c’era anche Rocco Dicillo, un giovane agente di polizia di Triggiano (BA).
Aveva scelto di servire lo Stato collaborando nella protezione dei principali obiettivi delle trame criminali mafiose, negli anni in cui Cosa Nostra faceva strage di magistrati, giornalisti, uomini e donne impegnati in prima persona contro la mafia.
Rocco Dicillo si mise dalla loro parte fino a diventare un «martire civile», come fu definito dall’arcivescovo di Bari Mariano Magrassi nel giorno dei suoi funerali. In questo libro il suo profilo viene ricostruito attraverso testimonianze che ci parlano del rapporto con le persone che amava (il fratello Michele, la fidanzata Alba, la madre Lisetta) declinando nel privato la sua tensione alla cura degli altri. Si aggiunge il ricordo del suo collega Giuseppe Costanza, sopravvissuto alla strage di Capaci. Questa è una storia di virtù civile.

 
 
Angelo Corbo, racconta la sua vicenda umana e professionale, di agente di scorta di Giovanni Falcone e sopravvissuto alla strage di Capaci. Lo fa a distanza di tempo per riprendere quel filo della memoria che sbiadiva fino a perdersi e porre dinanzi a noi squarci improvvisi su alcuni aspetti ancora oscuri della strage di Capaci e della protezione di Giovanni Falcone. Angelo è riuscito ad emergere dal suo nascondiglio, dallo spazio protetto del suo lavoro e dei legami forti della sua famiglia che lo hanno sostenuto in tutti questi anni. Vi si era rifugiato pagando il caro prezzo degli incubi e delle paure e confidando nella smemoratezza degli uomini, anche e soprattutto di quelli delle Istituzioni che, prima, si erano scordati del suo trasferimento a Firenze e, poi, della sua stessa esistenza. Leggere la sua testimonianza aiuta a decifrare il lavoro faticoso degli agenti di scorta, la necessità di una preparazione professionale sempre al passo con i tempi, proprio per garantire al meglio l’incolumità di chi è sottoposto quotidianamente al rischio per il semplice motivo di compiere il proprio dovere, e offre un contributo prezioso a fare chiarezza sulle modalità con cui le grandi scelte si riverberano sulle vicende quotidiane di chi opera in contesti mafiosi. Scorrendo il testo, è molto forte l’impressione che l’esperienza di ogni giorno potrebbe essere molto utile per comprendere e contrastare meglio le organizzazioni criminali, mentre chi decide sembra muoversi secondo altre logiche, legate molto spesso, negli ultimi tempi, alle cosiddette economie, termine con cui si mascherano semplicemente dei tagli alle risorse per opporsi alla mafia. Le sue parole restituiscono alcuni tratti della vicenda con una luce nuova. Ne indichiamo solo due perché sono quelli più ricorrenti nel racconto: se vi era la convinzione che il pericolo per Giovanni Falcone fosse attenuato tanto da rinunciare alla scorta specifica per lui, dopo l’attentato di Capaci possiamo legittimamente chiederci su quali elementi era fondata tale convinzione, chi ne erano gli autori e come giudicarli? Ancora: mentre si sottolinea quanto sia importante, oltre la preparazione e la professionalità degli uomini della scorta, il loro affiatamento, come si giustifica la composizione di quella del 23 maggio? A questi interrogativi che ci suggerisce il racconto di Angelo e che mantengono intatta la loro forza e urgenza, perché non hanno avuto risposta plausibile a distanza di anni, si aggiunge, ad inquietarci, il ricordo del primo soccorritore. Dopo essere arrivato sul luogo dell’attentato e aver scattato alcune foto gli è stato sottratto il rullino da due “agenti di Polizia”. Dei due sorprende innanzitutto la celerità con cui sono giunti sul teatro dell’attentato, molto prima dell’intervento di Polizia e Carabinieri, e sorprende che la loro preoccupazione di entrare in possesso di un documento utile alle indagini non abbia avuto seguito con la consegna agli investigatori. I modi bruschi per appropriarsene e la scomparsa del rullino accrescono ombre e ipotesi che gravano anche questo passaggio cruciale della nostra storia. I mafiosi autori della strage e i complici fuggono dopo il terribile boato, come ci ricordano i pentiti, e quindi occorre cercare in altre direzioni per dare un volto ai due e tornano in mente le parole del pentito Gioacchino La Barbera, che vi erano uomini estranei alla mafia nei preparativi all’attentato. Qualcuno che era sul luogo e cercava qualcosa fra le rovine dell’esplosione e non gradiva essere ripreso!
 
 

 
 

 

Emanuela Loi, assegnata alla squadra di scorta del giudice Paolo Borsellino, si aggiudicò il triste primato di “prima donna agente di polizia morta in servizio”. Aveva 24 anni, un fidanzato, una famiglia unitissima e una volontà di ferro. Una carica di esplosivo ha fermato il suo sogno. Questa è la storia degli ultimi mesi della sua vita. Un romanzo appassionato, nato da una dettagliata ricerca di fonti per raccontare ai più giovani una pagina intensa e drammatica della nostra storia.

 


 
 
 
Edito nel 2012, Uomini di scorta di GILDA SCIORTINO diede voce e visibilità a tutti quegli agenti che, negli anni precedenti e immediatamente successivi al 1992, hanno vissuto e scommesso la loro esistenza per tutelare e garantire la salvaguardia della vita di magistrati, imprenditori e personalità del giornalismo e della cultura, che hanno, in vario modo, osato sfidare apertamente la prepotenza e la tracotanza di Cosa nostra. “Uomini di scorta” è dedicato a tutti loro, ma principalmente agli otto “angeli custodi” che il 23 maggio e il 19 luglio non pensavano minimamente che non sarebbero ritornati dalle loro famiglie, assurgendo agli onori della cronaca perché vittime di un senso del dovere che non sempre viene riconosciuto dalle istituzioni. di Gilda Sciortino edito da Officina Trinacria, 2012.
E’ dedicato ai poliziotti dell’Ufficio scorte di Palermo che ogni giorno, da anni, mettono in gioco la loro vita l’ultimo libro della giornalista palermitana Gilda Sciortino “Uomini di scorta”, edito da Officina Trinacria. E in modo ancora più particolare ad Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Rocco Di Cillo, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Antonio Montinaro, Claudio Traina e Vito Schifani, gli 8 “angeli custodi” di Francesca Morvillo e dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, scomparsi insieme a loro il 23 maggio e il 19 luglio 1992. Attraverso le parole di chi ancora è in servizio attivo, ma anche quelle dei familiari di chi ha perso la vita, il lavoro dell’autrice consente di capire cosa successe negli anni precedenti e in quelli immediatamente seguenti il ’92, portando a scoprire cosa voleva e vuole ancora dire “proteggere” uomini come Falcone e Borsellino, come anche i tanti altri magistrati e imprenditori che, ieri come oggi, sono in prima linea sul fronte della lotta contro la mafia. Un percorso lungo e sofferto, quello che anima le 256 pagine di questo libro, all’interno del quale ci sono le storie degli agenti di scorta, ma anche quello dei familiari, mogli e figli che, allo stesso modo, vivono l’ansia, le paure, le soddisfazioni e le frustrazioni di un quotidiano in continuo bilico, spesso determinato e condizionato in maniera irreversibile da un semplice cambio di turno. Così fu per Antonio Montinaro, di cui parla la moglie Tina, che non doveva essere di scorta quel pomeriggio; ma anche per Antonello Marini, ancora operativo alle scorte, uno dei primi a parlare con Gaspare Cervello, sopravvissuto alla strage di Capaci insieme a Giuseppe Costanza. Ai generosi racconti di questi ultimi due si unisce drammaticamente quello di Antonio Vullo, l’unico a restare in vita il 19 luglio, come anche quello della famiglia di Agostino Catalano, il caposcorta di Paolo Borsellino, che attraverso la voce della madre Emilia denuncia la cattiveria di quella gente che ha pensato si fossero arricchiti grazie alla morte del figlio. Presente e rilevante anche l’esperienza dei baschi verdi, anche loro in trincea negli anni caldi di una Palermo nella quale, scrive l’autrice, “c’è sempre una sirena che suona, impazzita, che sia della Polizia, dei Vigili del Fuoco o di un’ambulanza. Neanche quel 23 maggio fece differenza, anzi Palermo impazzì ancora più del solito”. Il libro è stato realizzato anche grazie alla collaborazione del Siulp, il Sindacato italiano unitario dei lavoratori della Polizia, che ha dato il proprio contributo per mettere in rete molte delle relazioni.

 

 

È il 23 maggio del 1992. Alle 17.58 il silenzio delle campagne di Capaci viene squarciato da un tremendo boato causato dall’esplosione di cinque tonnellate di tritolo piazzate sull’Autostrada A29. Poche ore dopo due famiglie partono da Brindisi con una manciata di notizie date loro frettolosamente.
Sono quella d’origine del ventinovenne Antonio Montinaro e dell’agente scelto Rocco Dicillo, trent’anni appena compiuti.
Le famiglie non si conoscono né hanno informazioni precise su quanto accaduto. In un volo notturno di poche interminabili ore, i fratelli minori di Antonio e Rocco, Matilde e Michele, ripercorrono i ricordi d’infanzia e adolescenza dei loro cari: il legame con la propria terra d’origine, gli affetti, la quotidianità.


 

 

Per ultimo, Vito mi disse il nome di Giovanni Falcone. Mi ricordai del fallito attentato nella sua villa dell’Addaura e, come in un flashback, sentii le sirene. In quel momento alzai lo sguardo verso l’orizzonte, come in cerca di qualcosa che potesse convincere Vito a lasciar perdere quell’incarico così pericoloso, e notai delle nuvole nere che avevano oscurato il cielo azzurro. Con queste parole, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, caduto con Falcone a Capaci, rievoca il momento in cui il suo giovane sposo le disse orgoglioso che sarebbe entrato nella scorta del giudice. La storia è poi tragicamente nota e tutta l’Italia ricorda il suo grido di dolore che ai funerali di Stato scosse universalmente le coscienze. Come racconta per la prima volta in questo libro toccante, Rosaria Costa all’inizio rimase in Sicilia, lei che, provenendo da una famiglia modesta e onesta, era cresciuta nello spietato contesto della “Palermo di un morto al giorno”. Voleva lottare, reclamare il proprio diritto ad avere Giustizia, e per questo si avvicinò a Borsellino legandosi a lui, ma la strage di via D’Amelio rinnovò presto lo stesso dolore. Gli anni successivi, segnati dall’arresto di Totò Riina, la videro sempre in prima fila in quella che, da allora e ancora oggi, lei interpreta come una missione di testimonianza. Arrivò anche un giorno in cui per Rosaria rimanere in Sicilia non fu più sostenibile e si trasferì in Liguria per costruirsi una nuova vita, dopo la devastazione di tanto indicibile dolore. Ma oggi è riuscita a tornare nella sua terra d’origine, come donna nuova e come testimone diretta di un’epoca drammatica, consapevole di dover continuare a tenere alta la bandiera della legalità.

 

 


 
 
 


Giovanni Falcone. Giuseppe Sammarco e Luciano Tirindelli: gli agenti della scorta raccontano il loro giudice. 
Giovanni Falcone è stato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992, in un attentato che ha coinvolto anche la moglie e i suoi “ragazzi della scorta”. Giuseppe e Luciano avrebbero dovuto essere con loro ma quel giorno, per un gioco del destino, hanno avuto salva la vita. È anche per questo che non smettono di raccontare: cosa successe quel pomeriggio a Capaci, cosa avvenne dopo, ma soprattutto cosa c’era prima. Tra aneddoti e fatti di cronaca, il Giovanni Falcone della vita di tutti i giorni, severo, astuto e instancabile professionista, ma anche affabile, generoso ed infine fragile, in una Palermo che lo isola e che non riconosce più.

 

Palermo, anni Ottanta. Francesco entra in Polizia nel clima rovente dopo l’attentato al Generale Dalla Chiesa. Seguiranno anni di servizio allo Stato, prima come scorta nella Quarto Savona 15, questo il nome in codice del servizio di protezione del Giudice Giovanni Falcone, e poi nella sezione catturandi, per dare la caccia e consegnare alla giustizia i latinanti più pericolosi, come Giovanni Brusca, l’uomo che premette il telecomando della strage di Capaci. Tra aneddoti e frammenti di vita vera, Francesco Mongiovì ci porta dietro le quinte della sua Palermo, ripercorrendo anni di missioni