Il provvedimenti che centralizza le autorizzazioni alle attività educative e culturali mette in difficoltà l’aspetto riabilitativo della pena
C’è un rumore che manca, nelle carceri italiane di questo autunno. Non il fragore delle sbarre che si chiudono, quello continua implacabile. È il brusio di una classe che discute, il respiro sospeso prima che si alzi il sipario, il vocio incerto di chi arriva da fuori portando l’odore del mondo. È il suono della possibilità che si spegne, soffocato da una circolare che ha il sapore della cenere.
Il 21 ottobre 2025 il direttore generale del Dap, Ernesto Napolillo, ha firmato un documento che centralizza a Roma ogni decisione su attività educative, culturali e ricreative nelle carceri con circuiti di Alta Sicurezza, Collaboratori di Giustizia e 41-bis. Circa 8.800 detenuti, la maggioranza degli istituti del Paese. Prima il percorso era lineare: richiesta al direttore, parere, trasmissione al magistrato di sorveglianza. Ora quel corridoio è diventato labirinto. Ogni iniziativa deve passare da Roma, con “congruo anticipo”, liste dettagliate, attese indefinite.
Il cervello umano è una macchina di previsioni. Quando l’attesa diventa incerta e potenzialmente infinita, si innesca quella che le neuroscienze chiamano impotenza appresa: non è solo noia, è la progressiva erosione della speranza. E in carcere, quella speranza è già appesa a un filo sottilissimo.
Le proteste trasversali. La Camera Penale di Milano ha denunciato l’annullamento senza motivazione di un evento a Opera con 140 iscritti. A Rebibbia, dove Fabio Cavalli ha costruito il Teatro Libero, le associazioni chiedono un incontro urgente: «Non è chiara la procedura, i progetti rischiano il blocco».
Il Coordinamento nazionale dei Magistrati di Sorveglianza parla di “grande preoccupazione”: la centralizzazione «rischia di compromettere i progetti faticosamente portati avanti dal terzo settore». Stefano Anastasìa, Garante del Lazio, definisce la circolare «un balzo all’indietro di più di quarant’anni».
Quando parlano le vittime. Ma la lettera che pesa di più l’hanno firmata Giovanni Bachelet, Fiammetta Borsellino, Maria Agnese Moro e altri familiari di vittime di terrorismo e criminalità organizzata.
Loro, che hanno pagato il prezzo più alto, scrivono al ministro Nordio esprimendo «perplessità e sofferenza personale» per norme che bloccano ciò che hanno visto funzionare: «Il ripensamento del proprio passato criminale è più spesso il risultato di una contaminazione culturale, emotiva e relazionale, che supera le barriere tra dentro e fuori».
È esattamente così. Il cervello cambia attraverso l’esperienza relazionale, attraverso quella che i neuroscienziati chiamano neuroplasticità. Ha bisogno di stimoli, di “arricchimento ambientale”. Un carcere che si chiude è un cervello che si atrofizza.
Il paradosso kafkiano. C’è un’ulteriore crudeltà: i volontari ex art. 17 possono entrare solo per attività autorizzate. Se le attività si bloccano, i volontari non entrano più. È un cortocircuito perfetto. E senza volontariato, con risorse Dap inferiori al 10% del budget, l’articolo 27 della Costituzione diventa lettera morta.
La circolare si inserisce in un contesto drammatico: 62.445 detenuti al 30 aprile 2025, affollamento al 133%, 1.500 episodi di protesta nel 2024. Solo il 4,8% dei detenuti lavora per datori esterni. Questi non sono numeri astratti, sono vite in celle sovraffollate, con un tempo che scorre vuoto come una condanna nella condanna.
La posta in gioco. Quale sicurezza produce un carcere che rinuncia a educare? La criminologia ci dice che il principale fattore protettivo contro la recidiva è la costruzione di legami prosociali, di competenze, di narrative alternative. Tutto si costruisce attraverso quelle attività che ora rischiano di sparire.
Ogni persona che entra in carcere, salvo rarissime eccezioni, ne uscirà. La domanda non è se, ma come. Con nuove competenze o con nuovi traumi? Con una rete di supporto o con legami interrotti? Un carcere che si chiude alla società è una società che si chiude alla possibilità di essere migliore.
In qualche ufficio del Dap, si sta decidendo se autorizzare un laboratorio. Anche da questo dipende che tipo di società vogliamo essere: una che crede nel cambiamento o una che ha rinunciato a credere che le persone possano essere meglio del peggiore errore commesso. La scelta sembra tecnica, è invece profondamente politica. E il tempo, nelle carceri italiane, sta per scadere.
Tommaso Scicchitano 2 Dicembre 2025 RIFORMA.IT
Tommaso Scicchitano è operatore sociale e autore. Lavora con la Diaconia Valdese nel progetto Percorsi Lavorativi a Cosenza/Rende.

