
L’ex Procuratore della Repubblica di Palermo nel citato suo intervento su La Stampa osservava che sarebbe stata una “operazione riduttiva” ricondurre le uccisioni di Falcone e Borsellino ad una semplice contabilità della ramificazione di “Cosa Nostra” nel mondo degli affariPuò sembrare un depistaggio di tipo ideologico, e ne avrebbe le sembianze, la presa di posizione critica di Giancarlo Caselli, ex Procuratore della Repubblica del Tribunale di Palermo, esternata in una intervista a La Stampa nei confronti dell’intenzione della Commissione parlamentare antimafia di approfondire il dossier appalti/mafia/politica come motivazione della frettolosa uccisione del Giudice Paolo Borsellino. L’argomento sollevato da Fabrizio Cicchitto sul quotidiano Libero ripercorre l’acquisto di azioni del Gruppo Calcestruzzi Ferruzzi/Gardini da parte del boss Buscemi.
Una scalata che ha fatto dire a Giovanni Falcone: “la mafia è entrata in borsa”.
Un filone da lui seguito a livello internazionale tanto da suscitare nei suoi confronti la reazione punitiva del fallito attentato dinamitardo alla Villa estiva dell’Addaura, dove era ospite una magistrata elvetica anch’ella interessata alla confluenza di capitali di origine criminale nel sistema dell’economia e finanza legali.
Premessa, questa, necessaria per comprendere l’essenza delle parentele coltivate da “Cosa Nostra” con il mondo della politica e dell’imprenditoria e, nel contempo, per scandagliare le dinamiche interne alla Procura di Palermo divergenti, prima delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, rispetto alle tesi investigative di Falcone e Borsellino ed a seguire devianti nei rispettivi processi con sentenze ferme sugli esecutori materiali e per nulla rivelatrici sui mandanti.
L’ex Procuratore della Repubblica di Palermo nel citato suo intervento su La Stampa osservava che sarebbe stata una “operazione riduttiva” ricondurre le uccisioni di Falcone e Borsellino ad una semplice contabilità della ramificazione di “Cosa Nostra” nel mondo degli affari, ma non ne ha esplicitata alcuna alternativa fondata su atti processuali compiuti o volontariamente non presi in considerazione.
Sul punto c’è una dichiarazione di Luciano Violante, ex magistrato e già Presidente della Camera dei Deputati e della Commissione parlamentare antimafia, resa in una udienza del processo d’appello sulla trattativa Stato/Mafia secondo la quale lo “colpiva l’insistenza del Procuratore Capo di Palermo Pietro Giammanco di ritenere inconsistente il rapporto dei carabinieri su mafia ed appalti”, mentre “per Falcone “era la più importante”.
Sta di fatto che il 14 luglio, nonostante la richiesta di approfondimento avanzata da Borsellino, ne è stata disposta l’archiviazione, divenuta esecutiva il 22 luglio, appena tre giorni dopo la strage di Via D’Amelio.
Fin quando non si riuscirà a scrivere su pietre vive e non sulla sabbia la verità storica, qualsiasi interpretazione è un galleggiamento nel mainstream dell’informazione sia che si tratti della tesi di Roberto Scarpinato, ex Procuratore generale di Palermo, ora parlamentare del M5S, secondo il quale “Borsellino fu travolto da un gioco” e lo angoscerebbe l’occultamento di “causali politiche, che se rivelate avrebbero destabilizzato il sistema”, sia che si prefigurino le soppressioni dei due magistrati come azioni preventive per impedire che le loro inchieste sbarcassero a Milano (ne ha dato testimonianza Antonio Di Pietro) per cui “Mani pulite” avrebbe potuto assumere dimensioni ben più consistenti rispetto agli illeciti finanziamenti dei partiti. Non semplici patti corruttivi, ma di potere di ingresso della mafia in santuari della finanza. Si temeva l’esportazione a Nord del sistema di indagini di Falcone e Borsellino basato sulla esperienza del Maxi Processo contro “Cosa Nostra” nel seguire l’assunto “politica e mafia – parole di Borsellino – sono due poteri che vivono sul controllo del territorio, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.
Una sorta di esplorazione mai praticata, a largo raggio, fuori della Sicilia e non si capiscono le riserve esternate da ex magistrati e politici di lungo corso sulla rilettura delle carte promossa da Chiara Colosimo, Presidente della Commissione parlamentare antimafia.
Alcune delle quali tendenti a delegittimare le affermazioni di Borsellino sul “covo di vipere” attivo nel Palazzo di Giustizia di Palermo. È comprensibile, viceversa, il senso sammaritano di Caselli in remissione dei peccati dei suoi ex collaboratori della Procura palermitana.
Il punto non sciolto dopo 33 anni è “un debito di verità non solo nei confronti della famiglia Borsellino, ma dell’intero Paese”.
È l’ultima promessa della Procura di Caltanissetta, sostenuta anche dal Presidente Direzione Nazionale Antimafia Giovanni Melillo. Come dire “eppur si muove” qualcosa nell’universo
Eugenio Ciancimino 14 agosto 2025 ULISSE