Il caso. L’arrivo dei boss al 41 bis spaventa la Sardegna

 

 

In Italia i detenuti al 41 bis sono più di 700

In Italia i detenuti al 41 bis sono più di 700

 

Il conto alla rovescia è già iniziato. “L’apertura della sezione 41 bis (il regime di carcere duro, ndr) a Cagliari farà della Sardegna la regione che ospita in assoluto il maggior numero di detenuti al 41 bis, pari a 180: nessuno dei quali sardo”. Firmato Maria Cristina Ornano, presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari, che il 31 luglio scorso ha suonato l’allarme davanti ai preoccupati consiglieri regionali. Oltre ai 92 boss già presenti nelle carceri dell’Isola, ne arriveranno altri 90 nel nuovo braccio in fase di completamento a Uta, vicino al capoluogo. Il 16 settembre la governatrice Alessandra Todde è volata a Roma per chiedere al ministro della Giustizia Carlo Nordio di ripensarci. Nordio ha preso tempo, assicurando che nessuna decisione definitiva è stata presa. Ma secondo quanto risulta ad Avvenire lo sbarco dei capimafia è inevitabile. I lavori a Uta sono in corso da anni, la scelta risale a diversi governi fa. Nordio l’ha semplicemente ereditata e fermare l’ingranaggio è complicato, anche solo per il denaro pubblico speso. Siamo ormai alla scelta degli arredi, la sezione verrà aperta a breve. Probabilmente non a novembre, come si era paventato, ma quasi certamente nella prima metà del 2026. Il dado è tratto, e quel che è peggio è che potrebbe non essere finita qui. Perché alcuni sopralluoghi sono stati effettuati anche a Nuoro, dove al momento c’è solo una manciata di 41 bis: ne potrebbero arrivare altri.
Spedire i boss in Sardegna ha però pesanti effetti collaterali, in primis le infiltrazioni criminali. Luigi Patronaggio, procuratore di Cagliari, siciliano doc con robusta esperienza antimafia, non ha usato mezzi termini: «I familiari e gli accoliti dei detenuti di lungo corso, per stare vicino ai reclusi, si insediano nel territorio comprando immobili ed investendo in attività imprenditoriali nei settori del turismo e della ristorazione». Un paradosso: si allontanano i boss dai loro territori per isolarli, ma poi la “famiglia” li segue. La “malapianta” così non si estirpa, finisce solo per mettere radici altrove. In luoghi come la Sardegna, esposti al “contagio” perché ancora sprovvisti dei necessari anticorpi sociali ed economici. Una scelta che qualche addetto ai lavori sentito da Avvenire non esita a definire “scellerata”. Anche perché l’invasione non è certo iniziata ieri. «Io denuncio il fenomeno da almeno 15 anni» sottolinea Mauro Pili, ex governatore sardo, che in estate con alcuni post ha acceso i riflettori su un pestaggio in puro stile camorristico ai danni di un povero cameriere di un hotel di Alghero. Nel Nord Sardegna le mafie – camorra soprattutto, ma anche Cosa nostra – sono presenti da un pezzo. «Oltre ai 41 bis reclusi a Bancali, vicino a Sassari, ci sono anche 400 mafiosi sottoposti al regime di alta sicurezza 1, ovvero gli ex 41 bis, “declassati” ma ancora pericolosi, dislocati tra le carceri di Tempio Pausania e Oristano – evidenza Pili – . Il loro entourage ha iniziato da tempo a rastrellare attività commerciali: ti mettono in condizioni di vendere, diciamo così. Se non lo fai ti esponi a conseguenze. I numerosi incendi sono la spia di quanto accade, eppure nessuno unisce i puntini per avere un quadro della situazione. L’approccio è sempre quello di non parlarne». Uno sguardo lucido e impietoso, che trova riscontro presso le fonti qualificate interrogate da Avvenire. Nel Nord Sardegna ci sono «evidenze precise di queste presenze, coincidenti con l’arrivo dei primi 41 bis». Gente che fa visita al parente recluso, «poi dorme nel B&b e magari se lo compra pure». Esponenti di gruppi criminali «con liquidità spaventose», che vedono nella Sardegna una sistemazione redditizia e perché no, anche confortevole. Una situazione che ora rischia di allargarsi anche al Sud dell’Isola. La stessa giudice Ornano, nella sua relazione, rimarca il pericolo della calata di queste “famiglie”, consistente soprattutto nel “riciclaggio, perché si tratta di organizzazioni che movimentano grandi masse di denaro di provenienza illecita e che necessita di essere ripulito, di talché il rischio concreto è quello di grossi investimenti immobiliari ed in attività commerciali”. Tranchant la sua conclusione: “Cagliari ed il suo territorio non sono pronti. Allo stato, mentre mancano pochi mesi all’annunciata apertura, non è dato sapere quali misure di prevenzione e contrasto di tali rischi si intenda adottare a tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, nonché dell’ordine e della sicurezza economica”.
Il 41 bis prevede che i boss vengano inviati in “aree insulari”, ma lo spirito della norma è stato quantomeno forzato. Il legislatore si riferiva infatti a isole piccole, come l’Asinara, dove poter sorvegliare meglio i capimafia. Oggi queste carceri non ci sono più, così li si manda in Sardegna. Con gravi implicazioni sanitarie, visto che si tratta di detenuti anziani che necessitano di cure prolungate. Ogni ospedale dovrebbe avere un reparto dedicato, ma purtroppo così non è: ci si sta attrezzando per rimediare, ma ci vorrà tempo (e denaro). Secondo la relazione del Tribunale di sorveglianza, “la spesa per la sanità penitenziaria di un detenuto in Sardegna è sostenuta da 680 residenti, in Friuli da 3.325, il che significa che la spesa sanitaria per un detenuto costa a un sardo 5 volte di più che a un friulano”.
Ma c’è anche un (grave) problema di sicurezza. I 41 bis arrivano in aereo, la polizia penitenziaria va a prelevarli in pista, in mezzo ai normali passeggeri. Poi li deve scortare a destinazione lungo percorsi obbligati. Tra Alghero e Bancali c’è una sola arteria adatta ai convogli, cambiare percorso significa perdersi tra tortuose stradine di campagna. Il pericolo di un agguato insomma è alto.  
La Sardegna è in ansia e non lo nasconde. «Stiamo preparando un ordine del giorno per esprimere i nostri timori – spiega Carla Fundoni (Pd), presidente della commissione regionale Sanità – Sappiamo che questi detenuti arriveranno, ma non sono chiari né i tempi né le modalità. I costi non saranno solo pubblici, ma anche sociali: c’è il forte rischio di infiltrazioni, peraltro già presenti». Un esempio viene dal traffico di droga, un business che sembra stia esplodendo proprio grazie all’alleanza tra criminalità locale e mafia “immigrata” da Campania, Sicilia e Calabria. «In carcere si creano i rapporti che poi si riflettono all’esterno, il narcotraffico è un esempio di queste dinamiche» aggiunge Pili. E’ il fallimento di un modello ormai superato. «C’è ancora l’idea di chiudere le criticità dentro contenitori stagni – chiosa una fonte riservata -. Che però non si rivelano mai tali…» Marco Birolini mercoledì 24 settembre 2025 AVVENIRE