MAFIA e APPALTI di Damiano Aliprandi

 

 

Alberto Di Pisa: «Borsellino ucciso per mafia-appalti». «Proprio il giorno dell’attentato di Via D’Amelio Paolo Borsellino aveva urgenza di parlarmi, ma purtroppo non c’ero quando era passato a cercarmi». A raccontarlo a Il Dubbio è il dottor Alberto Di Pisa, magistrato di lungo corso che aveva fatto parte del pool antimafia fin dagli albori. Ha lavorato a stretto contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ed è stato tra i giudici che istruirono il maxiprocesso. Ha svolto importanti inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, iniziò il processo Ciancimino, che gli fu affidato come singolo e non come componente del pool. Avviò anche una inchiesta sui grandi appalti di Palermo gestiti dall’allora ben noto “comitato d’affari”. Gliele tolsero tutte di mano per via dell’accusa – poi conclusasi con una piena assoluzione – di essere stato l’autore della lettera del “corvo”.  In particolar modo l’inchiesta su mafia e appalti palermitani, passata di mano per volere dell’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco, finì per essere archiviata. Nel 2016, dopo 45 anni di attività giudiziaria, ha riposto la sua toga per limiti di età. A 72 anni ha lasciato l’ufficio di procuratore di Marsala, un posto che prima ancora fu occupato da Borsellino. Recentemente ha pubblicato un nuovo libro dal titolo “Morti opportune” dove analizza alcuni decessi sospetti come i suicidi, infarti, incidenti stradali, ma che riguardano persone che appartengono alle forze dell’ordine e ai servizi segreti. Morti che sarebbero state archiviate troppo frettolosamente.

Dottor Di Pisa, lei conosceva molto bene Paolo Borsellino?

Sì, eravamo in ottimi rapporti. Sia al livello professionale visto che abbiamo lavorato assieme nel pool antimafia, sia al livello umano. Inoltre abbiamo anche una parentela in comune. Purtroppo hanno scritto di tutto, anche che i miei rapporti con Falcone e Borsellino non erano idilliaci. Eppure, per quanto riguarda Giovanni Falcone basterebbe leggere i verbali di quando fu sentito al Csm. Alla domanda quali fossero i rapporti con me, lui rispose che erano ottimi e professionali. Non solo, quando fu nominato procuratore aggiunto a Palermo, mi congratulai  con lui e mi disse che avremo lavorato insieme. Ritornando a Borsellino, sa cosa mi disse quando uscì l’articolo di Repubblica dove si scrisse che io sarei stato l’autore della lettera del “corvo”?

No, mi dica.

Mi disse che non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto con i propri occhi che quell’anonimo l’ho scritto io. Quella vicenda, mi creda, la vorrei cancellare dalla mia mente. Tutto iniziò quando Totuccio Contorno venne arrestato a San Nicola l’Arena. Arrivò segretamente a Palermo quando era già collaboratore di giustizia negli Stati Uniti. Era sotto protezione, ma giunse in Sicilia nel periodo in cui si stava verificando un regolamento di conti all’interno della mafia. Io stesso, in una riunione dove erano presenti tutti i miei colleghi del pool, dissi apertamente che bisognava fare delle indagini per capire come fosse possibile che un collaboratore di giustizia fosse impunemente tornato in Sicilia. Ricordo che proprio in quel periodo Tommaso Buscetta disse che Contorno è stato pregato di tornare a Palermo, ma poi ha ritrattato questa sua affermazione.

Poi arrivò la lettera del “corvo” che in sostanza puntò gravissime accuse nei confronti anche di Falcone e Giovanni De Gennaro, l’allora dirigente superiore della Polizia. A quel punto è stato lei a farne le spese.

Dovrò aspettare quattro anni prima di essere definitivamente scagionato dall’accusa di essere il “corvo” di Palermo. L’accusa nasce dalla costruzione di una pseudo prova. L’allora alto commissario Domenico Sica mi prese le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellavo con le dita. In realtà, come ben spiegato nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, non c’è mai stata una mia impronta sulla lettera anonima, ma solo la foto di un’impronta costruita a tavolino. Nella lettera c’è solo una macchia, probabilmente un pasticcio da chi ha cercato invano di trasferirle la mia impronta. Tra l’altro denunciai Sica per abuso di potere, perché quell’indagine doveva essere eseguita dalla Polizia giudiziaria e non da un organo amministrativo.

Ma secondo lei chi è stato l’autore del “corvo”?

Basta leggere la sentenza di assoluzione. Dice chiaro e tondo che queste lettere nascono da una faida interna alla Criminalpol. E infatti in quel periodo c’era uno scontro tra la squadra di De Gennaro e quella di Bruno Contrada. Il “corvo” bisognava cercarlo lì, ma nessuno lo fece.

Ma come mai c’è stata la volontà di incastrarla?

In quel periodo avevo inchieste scottanti, tra le quali quella su mafia e appalti del comune di Palermo. Era il periodo della famosa primavera, con Leoluca Orlando sindaco. Ma in realtà appurai che i grandi appalti erano ancora in mano a referenti mafiosi. In realtà non era cambiato nulla e Vito Ciancimino ancora contava. Inchieste che l’allora capo della procura di Palermo Pietro Giammanco me le tolse. Ancora non ero stato raggiunto da un avviso di garanzia per il Corvo, ma era bastato un articolo de La Repubblica contro di me – che giorni prima aveva invece avanzato sospetti per il ritorno di Contorno – per sospendermi. Quella sugli appalti fu affidato ad un collega della procura di Palermo che poi fece richiesta di archiviazione. In quel periodo, ad esempio, mi occupai anche della vicenda di Pizzo Sella, sperone di granito che è diventata “la collina del disonore”. Scoprii che furono rilasciate dalla giunta comunale guidata da Salvatore Mantione centinaia di concessioni edilizie a Rosa Greco, sorella del boss Michele Greco. Fu una lottizzazione abusiva avvenuta in cambio di favori. Dopo anni uscì fuori che in questa operazione edilizia ci fu l’interessamento della Calcestruzzi di Ravenna del gruppo Gardini-Ferruzzi. In quel periodo chi toccava gli appalti veniva delegittimato oppure moriva.

Perché, chi è morto per gli appalti?

Sicuramente Paolo Borsellino. Non c’entra nulla la trattativa, perché ne avrebbe parlato e soprattutto denunciato in Procura se avesse appurato una cosa del genere. In realtà è morto per la questione appalti, erano lì tutti gli interessi della mafia. Lui stesso si era incontrato con i Ros per discutere delle indagini relative al dossier.

A lei ne ha mai parlato?

No, ma ricordo che in una occasione – se non erro ai funerali di Falcone – gli chiesi se l’attentato fosse una strategia di “destabilizzazione”. Lui mi rispose di no, ma che è “stabilizzante”. Le racconto un’altra circostanza. Quella domenica del 19 luglio Borsellino era passato da mio cognato che vive nella zona di Marina Longa, la località estiva dove Paolo ogni tanto, il fine settimana, andava. Lui sapeva che ci andavo pure io. Purtroppo non ho fatto in tempo a incrociarlo. Quando arrivai, mio cognato mi disse che Borsellino mi aveva cercato, anche con insistenza. Rimango con questa amarezza nel non averlo incrociato, chissà cosa mi avrebbe voluto dire con una certa urgenza.

A proposito di magistratura, il caso Palamara le ha sorpresa?

Io che provengo dall’esperienza della Procura dei veleni assolutamente no. Ho scritto recentemente nella mailing list dell’Associazione nazionale magistrati che questo sistema uscito ora, in realtà esiste da 30 anni. Ad esempio, tutti gli incarichi direttivi venivano sempre dati agli esponenti di Magistratura Democratica. Non dimentichiamoci di Falcone. Con la sola eccezione di Gian Carlo Caselli, tutta MD votò contro di lui come successore di Antonino Caponnetto alla guida dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.

Ma lei pensa che ora ci sia un cambiamento?

No. Non c’è la volontà politica di fare un cambiamento radicale del sistema. Ho letto il progetto di riforma e mi pare acqua fresca. D’altronde potrebbe esserci il rischio che Luca Palamara diventi l’unico colpevole, una sorta di capro espiatorio della magistratura e, infatti, la sua linea difensiva mi pare chiara. Ovvero che non è solo lui, ma un sistema generalizzato.


Mafia-appalti, Totò Riina voleva far uccidere Borsellino, prima ancora di Falcone. La prima parola chiave nelle cinquemila pagine di motivazioni della sentenza di primo grado sul processo trattativa Stato- mafia è “accelerazione”. Il concetto che la sentenza intende esprimere è che il contatto avuto dagli ufficiali ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino, avrebbe accelerato la strage di via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Non ci sono prove oggettive, ma solo deduzioni logico fattuali. Nelle motivazioni della sentenza, in linea con la tesi della procura, si fa cenno a un passaggio di ciò che ha detto Totò Riina, intercettato nel 2013, al suo compagno durante l’ora d’aria nel carcere milanese di Opera. «Non era studiato da mesi, ma studiato alla giornata!», ha detto Riina al detenuto Alberto Lorusso riferendosi all’attentato. Elemento che rafforzerebbe, appunto, la tesi sull’accelerazione. Ma in realtà il motivo lo ha spiegato sempre Riina. Cosa nostra conosceva gli spostamenti di Paolo Borsellino perché aveva messo sotto controllo il telefono del giudice e della madre. Per questo il 19 luglio 1992 fu facile per boss e picciotti pianificare e mettere in atto la mattanza di via D’Amelio, sotto la casa della madre di Borsellino. «Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: “domani mamma vengo”», ha raccontato sempre l’ex capo dei capi.

Ma perché quell’attentato si è dovuto fare in giornata? Totò Riina ha spiegato che la sorella di Borsellino si accorse di qualcuno che stava mettendo mano alla centralina telefonica del palazzo della madre. Quindi ecco spiegato il motivo: per paura che la sorella si insospettisse e quindi potesse far fallire l’attentato, Riina dette l’ordine di attuarlo nell’immediato, quindi in giornata.

Ma la tesi dell’accelerazione dell’attentato di via D’Amelio a causa della presunta trattativa Stato- mafia dovrebbe crollare definitivamente dal momentoche si era da tempo venuti a conoscenza di un fatto, per nulla riportato in maniera adeguata all’opinione pubblica. Prima ancora di uccidere Giovanni Falcone ( quindi molto prima che si avviasse la presunta trattativa), Cosa nostra aveva progettato l’eliminazione ‘ eclatante’ di Paolo Borsellino. Un progetto fallito per il rifiuto di alcuni componenti del clan marsalese. Sì, perché, per ordine di Riina, Borsellino doveva essere ucciso con un’autobomba a Marsala tra il ‘ 91 e i primi del ‘ 92. Lo stesso Riina, come si evince dalle trascrizioni delle conversazioni intercettate quando era al 41 bis, ha detto riferendosi a Borsellino: «Eh … sì, sì. Minchia. Ma poi era il numero, non so il numero due. secondo… di Magistrato era un potentoso Magistrato … come Falcone, perché erano amici insieme… e dovevano… avevano fatto carriera insieme, hanno fatto tutto insieme. Che era Procuratore… a… a … là a Trapani, a Marsala era Procuratore di Marsala… lui. Ha fatto diversi anni là a Marsala. Minchia, l’ho cercato ( in gergo mafioso “cercare” vuol dire uccidere, ndr) una vita a Marsala… mai agganciato. Mai. Mai. Minchia! L’ho cercato, lo cercavo… Ma picciotti sbrigatevi, vedete…».

Ciò che ha detto Riina confermano le rivelazioni dei pentiti Antonino Patti e Carlo Zichittella fatte nel 1996 che hanno consentito all’allora procura distrettuale di Palermo di emettere ottanta ordini di custodia cautelare. Antonino Patti, all’epoca 37enne, che si è autoaccusato di quaranta omicidi, ha raccontato che «a D’ Amico e Craparotta era stato chiesto se volessero cooperare all’omicidio di Borsellino, con modalità eclatanti, in particolare con un’autobomba. Craparotta e D’ Amico fecero sapere che non volevano organizzare un attentato “di tale gravità” a Marsala. Da quel giorno furono protetti da due guardiaspalle, ma furono fatti ugualmente sparire». Versione confermata anche dal pentito Carlo Zichitella.

Quest’ultimo, a distanza di decenni, non ha cambiato versione. A dicembre nel 2018 è stato sentito nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta contro il super latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e di via d’Amelio. Alle domande poste dal procuratore nisseno Gabriele Paci, il pentito ha ribadito che Borsellino doveva essere ucciso “con modalità eclatanti” ma i capi Francesco D’Amico e Francesco Craparotta, interpellati dalla famiglia di Mazara del Vallo, si rifiutarono e per questo furono uccisi. Il motivo del rifiuto a Totò Riina venne giustificato dal clamore che avrebbe generato a Marsala un omicidio così eclatante, tanto da provocare la presenza massiccia di forze di polizia sul territorio.

Rispondendo sempre alla domanda del procuratore Paci su cosa intendesse per ‘ modalità eclatanti’, il pentito Zichitella ha aggiunto: «Non c’era un posto giusto dove si poteva fare. Nel tragitto che Borsellino faceva ogni giorno sarebbero morte anche altre decine e decine di persone e allora i marsalesi non ci stavano a questa storia qua e non hanno accettato. Loro dicevano che erano tranquilli lì a Marsala e chiesero di trovare un altro posto con meno clamore. Non ricordo se Borsellino all’epoca dormiva in caserma. Nel tragitto che faceva ogni giorno comunque era impossibile mettere una bomba». Quindi, secondo i piani, Borsellino sarebbe dovuto morire già quando era a Marsala e quindi prima di Falcone. Perché? Se da una parte c’è la tesi della presunta trattativa ( ma che sarebbe avvenuta dopo la morte di Falcone) come movente della strage, dall’altra c’è una sentenza definitiva dove i giudici hanno scritto nero su bianco che la concausa è da ritrovarsi nel filone mafia appalti.

In esclusiva Il Dubbio può rivelare che Paolo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, già chiese copia del dossier mafia- appalti che era appena stato depositato ( il 20 febbraio 1991 su spinta di Falcone) nella cassaforte della procura di Palermo. In un verbale di assunzione di informazione, si evince che nel 1998, innanzi all’allora sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, Biagio Insacco, il capitano Raffaele Del Sole ha spiegato che dal 1987 al 1992 ha guidato la compagnia di Marzara del Vallo. Ha raccontato che su richiesta di Borsellino, ha accompagnato presso la procura di Marsala l’allora collega Giuseppe De Donno in un periodo poco successivo al deposito del dossier mafia- appalti alla procura di Palermo. «Ricordo che nel corso dell’incontro – ha spiegato Del Sole – il procuratore Borsellino chiarì al De Donno i motivi per cui chiedeva copia del rapporto riconducendoli sostanzialmente alla pendenza di indagini che la procura di Marsala stava effettuando su alcuni appalti in Pantelleria. Fatti che erano stati ritenuti connessi alle indagini espletate dai Ros». Sempre il capitano Del Sole ha aggiunto che nel corso di tale incontro c’era anche il maresciallo Carmelo Canale, il quale avvalorò quanto riferito da Borsellino definendo con espressione metaforica il dossier mafia- appalti come il “cacio sui maccheroni”.

È probabile che il primo tentativo di attentato eclatante, poi fallito per via di una diserzione, sia da collegarsi proprio all’evidente interessamento di mafia- appalti? Di certo si tratta di un ulteriore tassello che smentisce categoricamente il passaggio delle motivazioni della sentenza di primo grado sulla trattativa, dove si scarta l’ipotesi mafia- appalti come movente, quando si scrive che Borsellino non avrebbe avuto nemmeno il tempo di leggere il dossier.


Mafia-appalti, sparito il pentito che parlò a Borsellino del coinvolgimento di Raul Gardini. Testimonianze, prove documentali, sentenze definitive e audizioni del Consiglio superiore della magistratura rese dai magistrati della procura di Palermo tra il 28 e il 31 luglio 1992, provano inequivocabilmente che Paolo Borsellino si interessava, anche se non formalmente visto che ancora non aveva ottenuto la delega, dell’indagine contenuta nel dossier mafia- appalti. Tale informativa, ricordiamo, è scaturita da un’inchiesta condotta, tra la fine degli anni 80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno.

Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia- appalti relativa alla prima parte delle indagini, su esplicita richiesta di Giovanni Falcone, che all’epoca stava passando dalla procura di Palermo alla Direzione degli affari penali del ministero della Giustizia. Lo stesso Falcone, anche pubblicamente durante il famoso convegno del 15 marzo del 1991 al Castel Utveggio di Palermo, disse che quell’indagine era di vitale importanza che non era confinata solamente a una questione “regionale”.

Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma anche di altri delitti di mafia come l’omicidio dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile alla questione degli appalti. Lo disse soprattutto allo scrittore e giornalista Luca Rossi durante un’intervista del 2 luglio del 1992. Il nome di Salvo Lima lo ha evocato recentemente anche l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Di Pietro ha spiegato che la conferma del collegamento affari- mafia, l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini ( capo della Calcestruzzi spa), una provvista da 150 miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinatari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima».

La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui. Ma in realtà è più che una intuizione. Borsellino aveva trovato un pentito che non solo gli aveva confermato la questione dell’importanza degli appalti, ma che anche gli aveva dato un riscontro su quello che effettivamente già risultava ben spiegato nel dossier dei Ros: parliamo del coinvolgimento delle imprese del nord, in particolare della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini.

Proprio il giorno prima della sua intervista a Luca Rossi, Borsellino aveva interrogato per la seconda volta consecutiva Leonardo Messina, un pentito ritenuto credibile che, come Tommaso Buscetta, aveva raccontato perfettamente la struttura di Cosa Nostra, escludendo il discorso del “terzo livello”, ma evidenziando come la mafia di Totò Riina riusciva a compenetrare nel tessuto economico e politico attraverso la gestione degli appalti pubblici e privati. Leonardo Messina stesso ne è stato un testimone. Il Dubbio è in grado di rivelare i contenuti dei due verbali di interrogatorio.

Il primo si è svolto il 30 giugno del 1992 con la presenza non solo di Borsellino, ma anche del collega Vittorio Aliquò, oltre che dell’ispettore Enrico Lapi e del dirigente della polizia Antonio Manganelli. Leonardo Messina aveva la veste di indagato per 416 bis dalla procura di Caltanissetta. Lo stesso si è dichia- rato uomo d’onore della famiglia di San Cataldo e ha inteso rendere dichiarazioni sulla struttura di Cosa nostra. Nel primo interrogatorio ha spiegato sostanzialmente come venivano elette le rappresentanze, da quelle locali a quelle regionali, non solo siciliane, fino ad arrivare alle rappresentanze mondiali. Ha approfondito come i corleonesi hanno preso il potere in Cosa nostra.

Interessante la sua spiegazione di come riuscì a finire sotto l’ala del boss Giuseppe Madonia. «A Madonia – ha spiegato il pentito a Borsellino – avevo rilevato di essere stato contattato da elementi del Sisde, i quali mi avevano offerto la somma di 400 milioni perché lo facessi catturare». Madonia, quindi, avendo appreso che Messina non si era fatto indurre a tradirlo, lo prese ancora di più in considerazione. In questo modo ebbe la possibilità di saltare le gerarchie e incontrare personaggi “di calibro” come lo stesso Brusca.

Nell’occasione con Brusca – ha raccontato Messina – «si parlò dell’omicidio del capitano D’Aleo che si vantava di averlo fatto eliminare poiché costui lo aveva schiaffeggiato in occasione di un suo fermo in caserma. Disse che gli avevano tirato una fucilata in faccia!». Il pentito Messina racconta anche di Giovanni Falcone. «Brusca – ha spiegato Messina – pur mostrandosi al corrente dei suoi movimenti, e infatti accennava alle sue frequentazioni presso una pizzeria insieme alla scorta, diceva che in quel momento non era il caso di passare alla sua sentenza di morte».

Leonardo Messina poi affronta nel resto dei suoi due interrogatori– soprattutto nel verbale del primo luglio 1992 – la questione mafia- appalti. A lui stesso Madonia gli ha affidato la questione dell’appalto dei lavori dell’istituto tecnico per geometri di Caltanissetta e lo ha messo in contatto con Angelo Siino, considerato “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Il pentito ha spiegato dettagliatamente come funzionava la spartizione degli appalti e ha anche sottolineato come la mafia intimidiva gli imprenditori fino ad ucciderli se non sottostavano alle condizioni dettate. Ha spiegato come i corleonesi curavano che i vari appalti fossero distribuiti equamente fra le ditte interessate, in modo da realizzare congrui guadagni attraverso un sistema predeterminato di tangenti a percentuali sull’importo dei lavori. Percentuali che variavano a seconda del tipo dei lavori da eseguire e secondo se si tratti di appalti pubblici o privati. Fa nomi e cognomi Messina, anche di parlamentari dell’epoca e imprese. Parla anche di Salvo Lima, che aiutò un personaggio di rilievo nel favorire una impresa per introdurla nella miniera Pasquasia. «In tale miniera – ha spiegato Messina – non lavorano solo ditte in mano alla mafia, ma anche singoli dipendenti mafiosi», i quali potevano acquisire con facilità anche del materiale per l’esplosivo.

Leonardo Messina, a quel punto fa una rivelazione scottante. «Totò Riina è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale». Messina lo aveva appreso perché si era lamentato che aveva ricevuto pochi soldi per un appalto che valeva miliardi. “L’ambasciatore” di Madonia gli rispose di lasciar perdere, perché c’erano gli interessi di Riina tramite la Calcestruzzi spa di Gardini.

Paolo Borsellino, per la prima volta, trovò un riscontro su quanto aveva già appreso dal dossier mafia- appalti, che aveva ben evidenziato il ruolo dell’azienda del nord. Lo stesso Leonardo Messina, qualche tempo dopo, lo ribadì in un’audizione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante. Alla domanda se nella gestione mafiosa degli appalti ci fossero ditte nazionali, Messina rispose con un’affermazione inquietante: «La Calcestruzzi Spa di Riina».

Leonardo Messina è un testimone considerato importante da Borsellino, così come, in seguito, da altri magistrati. Il pentito ha ribadito l’importanza della gestione degli appalti anche nel 2013, sentito al processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia. Messina avrebbe dovuto deporre – assieme ad Angelo Siino ( assente per gravi motivi di salute) – a settembre scorso anche nel processo di Caltanissetta relativo al latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il pentito Leonardo Messina non è più reperibile da qualche tempo. È come se fosse scomparso nel buio: gli inquirenti stessi si dicono preoccupati.


Di Pietro: «Paolo Borsellino ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia- appalti». Un fiume in piena l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro, sentito come teste – citato dalla difesa degli ex ros Mario Mori e Giuseppe De Donno – nell’ambito del processo d’appello sulla presunta trattativa stato- mafia.

«Che c’azzecca con la trattativa», ha sbottato ad un certo punto Di Pietro. In effetti nulla. Nel senso che l’ex magistrato, in qualità di testimone ha affermato che «Paolo Borsellino è stato ucciso perché avrebbe voluto indagare su mafia appalti». Però con la trattativa c’entra, nel senso che nelle motivazioni della sentenza di condanna di primo grado, il giudice della corte d’assise di Palermo Montalto ha sentenziato che non solo la trattativa ci sarebbe stata, ma che Borsellino sarebbe stato fatto fuori perché avrebbe potuto opporsi.

Ma non solo. Scartando l’ipotesi di mafia appalti, ha anche scritto che l’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio non avrebbe avuto nemmeno il tempo di leggere il dossier. Però varie testimonianze, atti pubblici come le audizioni al Csm e, non per ultimo, lo stesso Di Pietro, smentiscono tutto ciò. Borsellino aveva già avuto copia del dossier mafia appalti depositato dagli ex Ros per volere stesso di Falcone.

Non solo lo ha letto quando era ancora procuratore a Marsala, ma ha anche svolto indagini informali visto che l’ex procuratore capo della procura di Palermo Petro Giammanco non gli aveva dato la delega. Quest’ultima – come ha detto anche il legale della famiglia Borsellino durante il processo d’appello Borsellino Quater – gli sarebbe stata data da Giammanco, tramite una telefonata, la domenica mattina presto. Lo stesso giorno in cui verrà ucciso dalla mafia.

Ma ritorniamo alla testimonianza di Di Pietro. «Il primo che mi disse di fare presto – ha spiegato l’ex pm – e di chiudere il cerchio fu Paolo Borsellino. In quell’incontro, il giorno del funerale di Falcone, eravamo d’accordo di rivederci per stabilire dei collegamenti d’indagine». Poi ha sottolineato che «era presumibile che anche soggetti politici e istituzionali del Sud fossero coinvolti».

La conferma del collegamento affari- mafia, Di Pietro ha spiegato che l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini, una provvista da 150miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima». La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui.

Da ricordare l’intervista che gli fece Luca Rossi, quando parlò di una possibile connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cuiil primo era stato in qualche modo coinvolto e che il secondo stava studiando. Ma anche il nome di Gardini, in realtà, già appare proprio nel dossier mafia appalti, quando controllava la Calcetruzzi Spa, identificata dai Ros come quella collegata con la spartizione degli appalti tra mafia, imprese e politica. Imprese, appunto, che erano anche del Nord.

Tutto ciò trova conferma anche nella sentenza della Cassazione del 2012 che respinse la revisione del processo Panzavolta, ex ad della Calcestruzzi condannato per aver favorito i boss. La sentenza riporta in primo piano proprio i rapporti tra Gardini e Cosa nostra. Poi Gardini, già indagato per tangentopoli, si suicidò. Il suo gesto, ha spiegato durante il processo Di Pietro «è il dramma che mi porto dentro».

Nel luglio del 1993 «l’avvocato di Raul Gardini, che all’epoca era latitante, mi assicurò che il suo cliente si sarebbe consegnato. Io volevo sapere che fine avessero fatto i soldi della maxi tangente Enimont. Ma la notte prima dell’interrogatorio l’imprenditore tornò nella sua abitazione, che tenevamo sotto controllo. La polizia giudiziaria mi chiese se doveva scattare l’arresto. E io dissi di aspettare», ha raccontato Di Pietro. La mattina dopo si uccise con un colpo di pistola.

L’esame di Di Pietro, come detto, ha ruotato soprattutto sul famoso dossier mafia appalti, e sui colloqui che ebbe con Paolo Borsellino prima e dopo la strage di Capaci. E su eventuali progetti di indagini coordinate sul filone delle ingerenze mafiose e della corruzione politico- amministrativa nella gestione degli appalti. Anche perché in quel dossier comparivano imprese del Nord, coinvolti nell’inchiesta Mani pulite.

Inchiesta che, all’epoca, lo porta ad avere «colloqui frequenti e approfonditi» con entrambi i magistrati uccisi nel ‘ 92. I primissimi rapporti sono stati con Falcone, che gli dice di puntare molto sulle rogatorie internazionali, «materia per me all’epoca sconosciuta – ha rivelato -. Lui mi fece un po’ da insegnante in questa prima fase, per poter realizzare al meglio queste rogatorie». Che sono importanti perché rappresentano «l’unico modo per ritrovare la provvista». Mani pulite, infatti, poggia su un presupposto nuovo per l’epoca: non indagare su chi prendeva la tangente, non solo almeno, ma su come si formava, a monte, la “provvista”.

E fu Giovanni Falcone, come ha rivelato l’ex pm, a dirgli: «Ma se tutto questo si sta scoprendo a Milano, controlla anche gli appalti in Sicilia». Poi Falcone è stato ucciso a via Capaci, e Di Pietro continuò il discorso con Borsellino: «Dobbiamo fare presto, dobbiamo sbrigarci, dobbiamo andare di corsa», ha testimoniato sempre Di Pietro. Si accorda con Borsellino per incontrarsi e iniziare a coordinare le indagini che riguardavano tutto il territorio nazionale.

«Con Borsellino parlai poco, ma ho capito che stava andando in quella direzione. Anche se non sapevo dei suoi colloqui con Mutolo e del rapporto del Ros del ‘ 91. Io il bandolo della matassa l’ho ritrovato dopo, all’epoca del suicidio di Gardini», ha sottolineato l’ex pm di Mani Pulite. «Dopo la morte di Borsellino rimasi scosso – ha proseguito l’ex pm – avevo capito la diffusione del sistema, mi chiusi in me e continuai a indagare. Intanto, era arrivata una segnalazione del Ros, per una minaccia di attentato nei miei confronti. E con un ufficiale del Ros, di cui non ricordo il nome, andai a parlare in carcere con l’ex capo area della Rizzani De Eccher in Sicilia, il geometra Giuseppe Li Pera». Quell’ufficiale era l’allora capitano Giuseppe De Donno, rivela in aula il suo legale, l’avvocato Francesco Romito.

Di Pietro – incalzato dall’avvocato Basilio Milio, legale degli ex ros -, ha raccontato di aver subito delegittimazioni attraverso indagini contro di lui. «Sono stato prosciolto e ho detto che chi ha indagato su di me non poteva indagare, cioè Fabio Salamone che io denunciai al Csm», ha sottolineato Di Pietro. Il magistrato Salamone, fratello di Filippo più volte definito come il “re degli appalti”: quest’ultimo compariva anche nel famoso dossier dei Ros nato sotto l’impulso di Giovanni Falcone e al quale era interessato Borsellino.

La corte d’assise d’appello ha convocato Silvio Berlusconi che dovrà presentarsi, come chiesto dalla difesa di Marcello Dell’Utri, ma potrà avvalersi della facoltà di non rispondere.


Strage di via d’Amelio, i legali di Borsellino puntano il dito su “ mafia- appalti”. «A differenza di ciò che dice la sentenza sulla trattativa Stato- mafia, Borsellino aveva una profonda conoscenza del dossier mafia- appalti», così ha detto ieri mattina l’avvocato Vincenzo Greco, legale dei figli giudice, nel corso delle conclusioni delle parti civili nel processo d’appello del Borsellino Quater a Caltanissetta.

«Va fatta luce sulla figura dell’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco. Come difensore dei figli del giudice Borsellino, mi associo alle richieste di condanna della Procura generale. Sono condivise le richieste, il contenuto e l’impostazione della requisitoria. Proprio perché siamo sempre orientati verso l’accertamento della verità», ha continuato l’avvocato Greco.

«Dalla Procura sono stati elencati sei punti oscuri su cui bisogna fare ancora luce. Questa difesa si permette di aggiungerne un altro – ha sottolineato il legale -, perché vi è un punto che ancor più avrebbe dovuto essere indagato e che riguarda la persona del procuratore capo Giammanco, morto poco tempo fa. In oltre 20 anni nessun elemento della magistratura ha ritenuto di doverlo ascoltare. È un soggetto che avrebbe potuto dirci molte cose interessanti rispetto alla strage. Il procuratore Giammanco e il giudice Borsellino avevano totalmente interrotto i loro rapporti».

L’avvocato ha aggiunto che vi era stato un totale disprezzo da parte di Borsellino nei confronti del procuratore capo Giammanco. «Il giorno 28 giugno del 1992 – ha proseguito l’avvocato – nella sala vip dell’aeroporto di Fiumicino apprende non da Giammanco, ma da un politico che era pervenuto il tritolo che lo doveva uccidere. Poco dopo ci sarà un drammatico incontro tra i due e Borsellino esce con la mano fratturata perché ha battuto un pugno sulla scrivania visto che aveva saputo da altri l’arrivo del tritolo».

Ma l’avvocato Greco si spinge oltre e va alla questione cruciale della famosa telefonata di Giammanco delle sette e mezza di domenica mattina del 19 luglio ‘ 92. «Quella mattina – ha precisato il legale Giammanco dirà con toni allusivi a Borsellino “La partita è stata chiusa. Ti sarà affidato la delega su mafia- appalti”. Quel pomeriggio stesso ci sarà la strage». Ma non solo. Il legale della famiglia Borsellino ha aggiunto che in pieno agosto il Gip archivia l’inchiesta su mafia appalti.

Il legale della famiglia Borsellino nella sua arringa ha aggiunto il particolare che fino a qualche mese fa era rimasto inedito. Si riferisce alla famosa riunione del 14 luglio 1992, cinque giorni prima dell’uccisione di Borsellino, quando il procuratore Giammanco convocò in procura per salutare i colleghi prima delle ferie estive, ma anche per trattare problematiche di interesse generale su alcune indagini come “mafia- appalti”. I magistrati che parteciparono alla riunione saranno poi sentiti dal Csm.

«Due di questi, Patronaggio e Consiglio – ha spiegato ieri l’avvocato Greco –, riferiranno che Borsellino faceva delle domande specifiche sul rapporto mafia- appalti ottenendo dagli interlocutori risposte generiche ed elusive». «Questo prova incontrovertibilmente ha concluso l’avvocato Greco – la profonda conoscenza di Borsellino della questione relativa al rapporto mafia- appalti, diversamente da quando sembrerebbe venir fuori dal contenuto della sentenza sulla cosiddetta “trattativa”, ove è scritto che il giudice, essendo stato ucciso, non avrebbe avuto modo di addentrarsi su questo argomento».


Borsellino, gli atti del Csm e le sue domande sul caso “mafia e appalti”  Sul Foglio di ieri c’è un magistrale articolo intitolato “La verità ritrovata”. Un contributo straordinario offerto a chi volesse liberarsi dal labirinto della “trattativa Stato- mafia”.

Anche ai giudici della Corte d’appello di Palermo, dunque, chiamati a rivalutare la sentenza emessa in primo grado; a riconsiderare, soprattutto, la posizione di alcuni uomini dello Stato come Mario Mori e Giuseppe De Donno. I carabinieri del Ros ritenuti colpevoli di aver trattato con Cosa nostra e di averne favorito i propositi assassini nei confronti di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e degli altri eroi massacrati a Capaci e via d’Amelio.

Nella pronuncia firmata dal presidente della Corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto, lo snodo cruciale è nella presunta “preoccupazione” dei mafiosi per la scoperta, fatta da Borsellino, dei contatti fra gli stessi uomini del Ros e Vito Ciancimino.

L’omaggio a Borsellino
Come si può ben comprendere, il servizio proposto ieri dal Foglio, a firma di Ermes Antonucci, è anche un omaggio reso allo scoccare dei 27 anni da via D’Amelio. Si chiude non a caso con la seguente frase: «Il modo migliore per commemorare il sacrificio di Paolo Borsellino è fare luce, una volta per tutte, su ciò che accadde attorno a questa indagine negli ultimi giorni di vita del magistrato e subito dopo la sua morte».

L’indagine è quella su “mafia e appalti”, avviata su impulso di Falcone, condotta materialmente dal colonnello Mori e dal capitano De Donno, esposta dai due ufficiali del Ros in una informativa del 20 febbraio 1991, ma non assegnata a Falcone, che proprio all’epoca sta per trasferirsi dalla Procura di Palermo al ministero della Giustizia.

Ne diventano titolari alcuni sostituti dell’ufficio siciliano, allora diretto da Pietro Giammanco: i pm Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Borsellino, racconta il Foglio, non smette mai di coltivare l’interesse per un fascicolo che pure non è affidato a lui. Se ne occupa a distanza ma con attenzione.

Tanto è vero che, un anno e mezzo dopo l’informativa del Ros, reagisce con evidente smarrimento di fronte agli esiti dell’inchiesta. Segnala che la stessa ansia è comune ai militari del Ros, dei quali ha fiducia e che, secondo la sentenza dello “Stato- mafia”, lo avrebbero invece disgustato per i traffici con Ciancimino.

Una riunione drammatica
Tali interrogativi vengono esplicitati eccome dal magistrato ucciso a via d’Amelio. Avviene in una riunione in Procura, a Palermo, il 14 luglio 1992. Cinque giorni prima che il tritolo esploda sotto casa della mamma di Paolo e che massacri, con il magistrato, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, la scorta.

In quella riunione, Borsellino ascolta il collega Lo Forte spiegare che l’inchiesta “mafia e appalti” offre elementi di assai minore consistenza del previsto non tanto a carico di Angelo Siino, il mafioso considerato ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra, quanto nei confronti dei politici e degli imprenditori che, secondo il Ros, Siino avrebbe coinvolto nella cupola degli affari. Il giorno prima Lo Forte e Scarpinato, non a caso, hanno finito di redigere la richiesta di archiviazione dell’indagine.

Tre giorni dopo via d’Amelio, la depositano, vistata intanto dal capo dell’ufficio Giammanco. Il gip Sergio La Commare emette l’ordinanza di archiviazione alla viglia di Ferragosto.

Date fondamentali
Ci sono dunque quattro date. Tre sono note: via d’Amelio, il deposito della richiesta di archiviazione di “mafia e appalti”, l’accoglimento di tale richiesta firmato il 14 agosto. La prima data invece non la conosceva nessuno. O quasi.

La prima data è quella del 14 luglio 1992. L’ultima riunione in Procura a cui abbia partecipato Paolo Borsellino. Come si è scoperto di quell’assemblea tra pm? La risposta spiega anche cosa c’entri il Dubbio con il pregevole contributo reso ieri dal Foglio alla ricostruzione dei fatti.

Il vertice a Palermo voluto dal procuratore Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’ 92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Vengono sentiti in audizione pochi giorni dopo via D’Amelio. Tra loro c’è anche Luigi Patronaggio, ormai notissimo come procuratore di Agrigento.

La testimonianza di Patronaggio
«Il collega, il procuratore Borsellino, chiede addirittura delle spiegazioni, vuole chiarezza, su determinati processi», racconta Patronaggio al Csm, «chiede spiegazioni su un procedimento riguardante Siino Angelo e altri, e capisco che qualche cosa non va».

Patronaggio aggiunge che, secondo Borsellino, «i carabinieri si aspettavano da questa informativa risultati giudiziari di maggiore respiro». Il Dubbio, cioè questo giornale, c’entra perché sulla diversità di aspettative rispetto a “mafia e appalti” ha pubblicato articoli per i quali i magistrati Lo Forte e Scarpinato hanno sporto querela.

E c’entra anche perché le audizioni al Csm che segnalano tale diversità di aspettative sono state depositate non solo da Basilio Milio, difensore di Mori, al processo d’appello sulla “trattativa”, ma anche da Simona Giannetti, avvocata dei giornalisti del Dubbio, al processo per diffamazione seguito alle querele di Lo Forte e Scarpinato.

Ma alla vigilia del 19 luglio, a 27 anni da via D’Amelio, viene prima di tutto un’altra aspettativa. Manifestata ieri da Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo: «L’impegno per la verità di mio padre e di Falcone credo che debba essere presente ancora oggi per far luce sulle tante omissioni e sulle irregolarità che hanno caratterizzato le indagini e i processi su via d’Amelio». C’è un modo per onorare la ricorrenza. E anche per uscire dal labirinto.


La figlia di Borsellino: “Perché avete archiviato mafia-appalti?”  «Un tema che stava molto a cuore a mio padre era il rapporto tra la mafia e gli appalti. Infatti mi chiedo come mai il suo dossier fu archiviato il giorno dopo l’uccisione». Le parole, durissime, sono di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino ucciso dalla mafia a via D’Amelio nel 1992, che domenica sera è stata ospite di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. Una lunga intervista, quella di Fazio, preceduta dalle terribili immagini di quel tragico 19 luglio 1992. «Come mai – le ha chiesto il conduttore – ha deciso di parlare proprio ora?». Fiammetta ha risposto partendo da quanto avvenuto un paio di anni fa, ovvero la fine di un processo che non era riuscito ancora a fare piena luce su quanto avvenuto. «Nell’aprile del 2017 – ha raccontato Fiammetta Borsellino – il bilancio è stato amarissimo. C’è stata una sentenza che svelava il grande inganno di Via D’Amelio, in quello che poi verrà definito il depistaggio più grave della storia di questo Paese». Fiammetta ha poi spiegato che le indagini e i processi sono stati una storia di bugie. Borsellino non si è risparmiata e ha fatto nomi e cognomi delle persone coinvolte nel grande depistaggio. «La Procura di Caltanissetta – ha detto – non ha mai ascoltato un testimone fondamentale dopo la morte di mio padre: il procuratore Giammanco. Colui il quale conservava nel cassetto le informative dei Ros che annunciavano l’arrivo del tritolo. Fino a quando Giammanco, poco tempo fa, è morto».

Fiammetta Borsellino si riferisce a Pietro Giammanco – morto lo scorso dicembre -, ex Capo della Procura di Palermo dal 1990 al 1992, poi dimessosi e trasferitosi in Corte di Cassazione qualche mese dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, quando otto Sostituti Procuratori avevano lanciato un appello minacciando le dimissioni dalla Procura se lui non se ne fosse andato, oltre a chiedere misure di sicurezza eccezionali per prevenire nuove stragi. Al suo posto – il 15 gennaio del 1993 – arrivò Giancarlo Caselli, che si insediò proprio nel giorno in cui venne catturato Riina grazie ai Ros capitanati dal generale Mario Mori.

Il biennio di Giammanco – ricordiamo – fu un periodo caldissimo. Stragi, inchieste delicate, gravi accuse nei suoi confronti poi definitivamente archiviate. L’unica certezza è che gli attriti all’interno della Procura non mancavano. A partire dal disagio di Giovanni Falcone, cristallizzato negli stralci del suo diario pubblicati dal Sole24ore dopo l’attentato di Capaci. Tanti sono i passaggi che evocavano il suo malessere per spiegare la sua decisione di lasciare la Sicilia per il ministero: «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni? O soltanto per fornire un alibi?».

Gli stralci dei diari furono confermati da Paolo Borsellino durante la sua ultima uscita pubblica a Casa Professa. Ma anche quest’ultimo era sofferente. Una sofferenza che ritroviamo narrata in un articolo di Luca Rossi pubblicato sul Corriere della Sera il 21 luglio, due giorni dopo la strage di Via D’Amelio ( l’intervista era del 2 luglio precedente – come confermò nella testimonianza a Palermo del 6.7.2012). Vale la pena riportarla, soprattutto quando l’eroico magistrato gli ammise testualmente: «Devo reggere il mio entusiasmo con le stampelle». Borsellino gli disse che stava seguendo delle indagini sull’omicidio di Falcone e che aveva un’ipotesi. Quale? «Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». Il riferimento era all’inchiesta sul dossier mafia- appalti. Ma ritorniamo all’intervista della figlia più piccola di Paolo Borsellino e della sua decisione di rompere il silenzio in occasione del 25esimo anniversario delle stragi del ’ 92, fino a quel momento «dettato da una rispettosa attesa». In quell’occasione ci fu una diretta Rai condotta proprio da Fazio. «Quella sera sono rimasta fino alla rimozione dell’ultima transenna – racconta Fiammetta Borsellino -. Provai un grande senso di vuoto. Non fui avvicinata da nessuno, se non da alcuni ragazzi che erano venuti apposta dalla Campania e dall’unico superstite di quella strage, Antonio Vullo».

Continua con le sue considerazioni sul depistaggio. «C’è stata una grande mole di anomalie e omissioni che hanno caratterizzato indagini e processi – ha aggiunto Fiammetta Borsellino -. Le indagini furono affidate a Tinebra, appartenente alla massoneria. E poi i magistrati alle prime armi che si ritrovarono a gestire indagini complicatissime tanto che dichiararono di non avere competenze in tema di criminalità organizzata palermitana. Fu un depistaggio grossolano perché le indagini furono totalmente delegate ad Arnaldo La Barbera, una persona che era un poliziotto da un lato e dall’altro pare che ricevesse buste paga dal Sisde per condurre una vita dissoluta in giro per l’Italia». Fiammetta poi racconta la vicenda di Scarantino che «fu vestito da mafioso» e che si prestò per far condannare persone poi rivelatesi innocenti. Fiammetta non risparmia nessuno, oltre ai poliziotti, anche i magistrati che «evitarono confronti che avrebbero fatto crollare immediatamente l’impianto accusatorio». Sappiamo che l’anno della svolta è il 2008, quando parlò Spatuzza: dopo gli opportuni riscontri, i magistrati hanno avuto chiari i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. Fiammetta Borsellino parla proprio dell’incontro che lei ha avuto con i fratelli Graviano al 41 bis. «Questa esigenza è venuta fuori da un percorso privato – ha detto Fiammetta Borsellino -. Avevo la necessità di dare voce a un dolore profondo che era stato inflitto non solo alla mia famiglia ma alla società intera. Lo chiamo il mio viaggio nell’inferno dei silenzi, dei cancelli. È stato però un viaggio di speranza. Io dico sempre alle mie figlie che non bisogna mai smettere di sognare. Forse quando intrapresi quel viaggio ero io stessa quella bambina che spera nel cambiamento, nel cambiamento delle coscienze». E quando Fazio le domanda se c’è qualcuno del quale si fida, lei risponde: «Né io né tutta la mia famiglia – risponde Fiammetta – pensiamo di avere dei nemici, neanche i peggiori criminali che attualmente stanno scontando delle pene».

Poi aggiunge: «Credo di non fidarmi di chi dà le pacche sulle spalle, mentre mi fido di chi essendo esposto al peggiore pericolo svolge il suo lavoro con sobrietà e in silenzio. Non mi fido di chi si espone alle liturgie dell’antimafia per la devozione dei devoti». Fazio le chiede su che cosa stava lavorando suo padre, cosa c’era di così di indicibile tanto da ammazzarlo e attuare un depistaggio. «A mio padre – risponde Fiammetta- sicuramente stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici: eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute». A quanto detto occorre solo fare una piccola precisazione sulla sequenza degli atti che importarono l’archiviazione dell’indagine aperta con il deposito della nota informativa “mafia appalti” da parte dei Ros su insistenza di Giovanni Falcone. Occorre rammentare che dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip nello stesso 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte».


 Borsellino lavorava sul dossier Mori… Poi fu ammazzato. Non ci sono più dubbi. Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», con alcuni funzionari della polizia che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verità sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Ma non solo. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, depositata sabato a chiusura del processo Borsellino quater e rassegnate nelle 1865 pagine, non vengono dimenticate le responsabilità dei magistrati che fecero le indagini e sostennero le accuse «senza particolare cautela e rigore».

Le considerazioni della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonio Balsamo, conducono il collegio a disporre nella sentenza anche la trasmissione dei verbali di udienza dibattimentale alla Procura di Caltanissetta «impegnata nella difficile ricerca della verità», in quanto possano «contenere elementi rilevanti». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state, quindi, al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di Via D’Amelio.

Le motivazioni confermano che alcuni investigatori guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera dissero a Scarantino cosa confessare, dopo aver ricevuto delle informazioni su come fu effettivamente organizzata la strage da «ulteriori fonti rimaste occulte» : furono queste informazioni a rendere credibili le testimonianze di Scarantino e altri “falsi pentiti”. In particolare su La Barbera, morto di tumore il 12 dicembre 2002, le motivazioni della sentenza dicono che ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». E ancora, che ci fu «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».

L’irritualità della vicenda processuale.

Il «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» è quello delle «anomalie» e delle «irritualità» che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Questa è in sintesi la conclusione della motivazione. È la vicenda processuale dell’acquisizione probatoria degli interrogatori di Scarantino, una di quelle più aspramente contestate dalla Corte. Quelli che vengono citati in sentenza sono anche stralci delle sentenze dei processi Borsellino bis e ter. È qui che la Corte non tarda a richiamare l’’ attenzione sull’importanza che avrebbe avuto la ricerca dei «riscontri individualizzanti, oltre che di rispettare i limiti della chiamata e il controllo sull’accusa de relato». Proprio in merito al depistaggio per i giudici della Corte d’Assise era evidente che Scarantino non fosse mai stato coinvolto nelle attività relative alla strage, e che quindi fosse logico ritenere che tali circostanze fossero state «a lui suggerite da altri soggetti, i quali loro volta le avevano apprese da fonti occulte». La sentenza giudica anche il comportamento degli inquirenti, quando rileva che le dichiarazioni di Scarantino sono di tutta evidenza «caratterizzate da incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» e che proprio questi elementi ben avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni» in capo agli inquirenti.

Con queste sue considerazioni nella sentenza la Corte d’Assise critica aspramente la carenza di una «minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi e negativi che fossero».

Si parla di irritualità da parte dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, come nel caso in cui viene citata la richiesta di intervento nelle indagini di Contrada, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e nonostante «la normativa gli precludesse rapporti diretti con la magistratura» ; o quando si allude all’assenza di informazioni assunte da Borsellino nei 57 giorni dopo la strage di Capaci prima della sua uccisione, «benché lo stesso, avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il contributo conoscitivo». In ultimo, ma per nulla meno importante, balza all’occhio un richiamo, quello alla pervicacia con cui fu condotta l’attività di determinazione dello Scarantino a rendere dichiarazioni accusatorie: sono le parti civili che vi alludono ma i giudici devono averla ritenuta particolarmente interessante, perché ne fanno citazione, rinviando ad una trama, quella riferita del calunniatore Scarantino, forse un po’ troppo complessa, perché fu capace di attirare in inganno anche i giudici di ben due processi sulla strage di Via D’Amelio. È per questo che il Collegio disporrà la trasmissione degli atti alla Procura di Caltanissetta, per proseguire nella ricerca della verità: questa volta, con riguardo alle «anomalie» e «irritualità» di chi si era occupato delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ad ogni livello.


Mafia Appalti, concausa della strage di via D’Amelio?  Nelle motivazioni emerge anche un altro elemento non trascurabile. Ovvero il fattore scatenante per il quale la mafia avrebbe deciso di uccidere Paolo Borsellino. Viene citata la testimonianza del pentito Antonino Giuffrè, tramite la sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania. La Corte aveva osservato come le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino siano state precisate dal collaborante Giuffrè, il quale ha dichiarato che, dalle notizie apprese dopo la sua uscita dal carcere, ha potuto comprendere come i timori di Cosa Nostra fossero basati su due motivi: la possibilità che Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia, e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti. «Un motivo è da ricercarsi – dichiarò Giuffrè -, per quello che io so, sempre nel discorso degli appalti. Perché il dottore Borsellino, sì sono resi conto che era molto addentrato in questa branca, cioè in questo discorso mafia politica e appalti. E forse forse alla pari del dottore Falcone».

La motivazione, infatti, preme molto sulla questione mafia appalti che, ricordiamo, fu un’operazione condotta dai Ros capitanata dal generale Mario Mori e voluta da Giovanni Falcone. Giuffrè, nel confermare le precedenti dichiarazioni secondo cui «il Dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti», ha chiarito che gli esponenti di ‘ Cosa Nostra’ «avevano avuto notizia di un «rapporto che era stato presentato alla Procura di Palermo da parte dei Ros all’allora Procuratore Giammanco». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con «persone importanti» appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che portava all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno» e non erano ben visti neppure all’interno della magistratura. Nella decisione di eliminare i due Magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura».

Nel verbale di assunzione di informazioni del 18 agosto 2009, davanti al Pubblico Ministero presso questo Tribunale, la signora Agnese Piraino Borsellino ha dichiarato: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». Paolo Borsellino, in tale occasione, non fece nessun nome alla moglie, la quale però ha soggiunto: «comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore Giammanco».

Borsellino non si fidava dei suoi colleghi e riferendosi alla Procura di Palermo, parlò di «Covo di vipere». D’altronde, come riportò Il Dubbio, lo stesso Borsellino, dopo la morte di Falcone, si interessò di mafia appalti e ne parlò con i Ros tramite un incontro riservato in caserma, non in Procura. Altro aspetto fondamentale è che la Corte indirettamente sconfessa il teorema giudiziario sulla presunta trattativa Stato Mafia. «Va, altresì, rilevato – viene evidenziato nelle motivazioni – che l’attentato contro Paolo Borsellino costituiva un attacco terroristico diretto a piegare lo Stato. L’obiettivo perseguito con questo e con analoghi delitti era quello di destabilizzare le Istituzioni e favorire nuovi equilibri con il potere politico, strumentali alla tutela degli interessi di Cosa Nostra, ma nulla escludeva che, nella fase successiva, lo Stato avrebbe potuto reagire, come effettivamente avvenne, mediante misure dirette ad assicurare una più forte repressione del fenomeno mafioso». Viene confermato che lo Stato agì duramente per reprimere la mafia. Quindi nessun patto con Cosa Nostra.

La prima versione sulla strage.

Le indagini sulla strage di via D’Amelio, avvenuta il 19 luglio 1992, vennero assegnate al “gruppo Falcone- Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Già il 13 agosto il Sisde di Palermo annunciò di aver individuato l’automobile usata e la carrozzeria dove era stata preparata; alla fine di settembre venne nominato il “colpevole”, nella persona di Vincenzo Scarantino, 27 anni: era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati un mese prima per violenza carnale. Il suo arresto era stato annunciato così dal procuratore Tinebra: «Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio». Appena di Scarantino si seppe qualcosa di più, fu però una vera delusione, tanto apparve fasullo. Era un ragazzo, di bassissimo livello intellettuale, piccolo spacciatore, non affiliato a Cosa Nostra benché nipote di un boss della Guadagna, il quartiere meridionale di Palermo dove era conosciuto come lo scemo della borgata. Però aveva confessato, e nei mesi seguenti questo personaggio così improbabile, da semplice ladro d’auto che scambiava con qualche dose di eroina, si trasfigurò in astuto organizzatore, reclutatore di un piccolo esercito, stratega militare, partecipante di prestigio alle riunioni della Cupola. Il ragazzo stesso, peraltro, si smentiva, ritrattava, denunciava, piangeva, ma nessuno gli dava retta malgrado emergessero via via testimonianze di violenze e pressioni sulla sua famiglia, dei verbali ritoccati e concordati, degli interrogatori condotti in modi anomali: le sue ritrattazioni erano «tecniche di Cosa Nostra che conosciamo bene», scrisse l’allora Pm Nino Di Matteo, che in una requisitoria sostenne che «la ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni». A questo si aggiunse la requisitoria della Pm Anna Maria Palma: «dietro questa ritrattazione c’è la mafia». Il resto della storia, la conosciamo.

Borsellino lavorava sul dossier Mori… Poi fu ammazzato

Non ci sono più dubbi. Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’è stato «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», con alcuni funzionari della polizia che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verità sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. Ma non solo. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, depositata sabato a chiusura del processo Borsellino quater e rassegnate nelle 1865 pagine, non vengono dimenticate le responsabilità dei magistrati che fecero le indagini e sostennero le accuse «senza particolare cautela e rigore».

Le considerazioni della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonio Balsamo, conducono il collegio a disporre nella sentenza anche la trasmissione dei verbali di udienza dibattimentale alla Procura di Caltanissetta «impegnata nella difficile ricerca della verità», in quanto possano «contenere elementi rilevanti». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state, quindi, al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di Via D’Amelio.

Le motivazioni confermano che alcuni investigatori guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera dissero a Scarantino cosa confessare, dopo aver ricevuto delle informazioni su come fu effettivamente organizzata la strage da «ulteriori fonti rimaste occulte» : furono queste informazioni a rendere credibili le testimonianze di Scarantino e altri “falsi pentiti”. In particolare su La Barbera, morto di tumore il 12 dicembre 2002, le motivazioni della sentenza dicono che ebbe un «ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, come è evidenziato dalla sua reazione, connotata da una inaudita aggressività, nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». E ancora, che ci fu «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri».

L’irritualità della vicenda processuale.

Il «più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana» è quello delle «anomalie» e delle «irritualità» che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Questa è in sintesi la conclusione della motivazione. È la vicenda processuale dell’acquisizione probatoria degli interrogatori di Scarantino, una di quelle più aspramente contestate dalla Corte. Quelli che vengono citati in sentenza sono anche stralci delle sentenze dei processi Borsellino bis e ter. È qui che la Corte non tarda a richiamare l’’ attenzione sull’importanza che avrebbe avuto la ricerca dei «riscontri individualizzanti, oltre che di rispettare i limiti della chiamata e il controllo sull’accusa de relato». Proprio in merito al depistaggio per i giudici della Corte d’Assise era evidente che Scarantino non fosse mai stato coinvolto nelle attività relative alla strage, e che quindi fosse logico ritenere che tali circostanze fossero state «a lui suggerite da altri soggetti, i quali loro volta le avevano apprese da fonti occulte». La sentenza giudica anche il comportamento degli inquirenti, quando rileva che le dichiarazioni di Scarantino sono di tutta evidenza «caratterizzate da incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» e che proprio questi elementi ben avrebbero dovuto consigliare «un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni» in capo agli inquirenti.

Con queste sue considerazioni nella sentenza la Corte d’Assise critica aspramente la carenza di una «minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi e negativi che fossero».

Si parla di irritualità da parte dell’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, come nel caso in cui viene citata la richiesta di intervento nelle indagini di Contrada, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e nonostante «la normativa gli precludesse rapporti diretti con la magistratura» ; o quando si allude all’assenza di informazioni assunte da Borsellino nei 57 giorni dopo la strage di Capaci prima della sua uccisione, «benché lo stesso, avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il contributo conoscitivo». In ultimo, ma per nulla meno importante, balza all’occhio un richiamo, quello alla pervicacia con cui fu condotta l’attività di determinazione dello Scarantino a rendere dichiarazioni accusatorie: sono le parti civili che vi alludono ma i giudici devono averla ritenuta particolarmente interessante, perché ne fanno citazione, rinviando ad una trama, quella riferita del calunniatore Scarantino, forse un po’ troppo complessa, perché fu capace di attirare in inganno anche i giudici di ben due processi sulla strage di Via D’Amelio. È per questo che il Collegio disporrà la trasmissione degli atti alla Procura di Caltanissetta, per proseguire nella ricerca della verità: questa volta, con riguardo alle «anomalie» e «irritualità» di chi si era occupato delle indagini sulla strage di Via D’Amelio ad ogni livello.


Mafia- appalti, quel giorno che Paolo Borsellino fu convocato in Procura…. Esattamente quattro giorni prima che venisse brutalmente ucciso, Paolo Borsellino era a casa con la moglie, sconvolto e molto preoccupato. Perché? La spiegazione è in una deposizione della signora Agnese Borsellino rilasciata il 18 agosto 2009 di fronte ai Procuratori di Caltanissetta: «Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992; ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrarono…»

«Il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, alle ore 19.00, e, conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione, notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu“ ( affiliato a Cosa nostra, ndr) ». L’italiano non si interpreta, è la nostra lingua madre, eppure i teorici della presunta Trattativa hanno inteso che Borsellino, dicendo di aver visto la “mafia in diretta”, si riferisse all’ex generale dei Ros Subranni. Sappiamo che Borsellino si fidava ciecamente dei carabinieri del Reparto Operativo Speciale e non a caso, come vedremo in seguito, fece un incontro segreto con loro per discutere dell’inchiesta mafia- appalti presso la caserma e non negli uffici della Procura, visto che più di una volta aveva espresso di non fidarsi dei suoi colleghi.

Quindi, ritornando alla testimo- nianza della moglie Agnese, Borsellino era rimasto turbato perché qualcuno gli aveva detto che Subranni era un mafioso. Nella frase “ho visto la mafia in diretta” Borsellino infatti si riferiva al suo interlocutore, avendo capito la sua intenzione di infangare i Ros. Con chi si era visto? Non è dato saperlo. Dalla sua agenda personale sappiamo però che Borsellino, quel giorno, è stato in Procura dalle 17 in poi, dopodiché è rientrato a casa per l’ora di cena; a seguire avveniva l’angosciosa chiacchierata con la moglie. Con chi si era visto in Procura? La “mafia in diretta” era riferito a un suo collega?

Non lo sapremo forse mai. Quello che sappiamo, però, è che Borsellino stava seguendo la pista dell’inchiesta mafia- appalti anche per risalire agli assassini di Falcone. Diverse sono le testimonianze di primaria importanza. Una è dei Ros. Paolo Borsellino, subito dopo l’omicidio di Falcone – secondo la testimonianza del generale Mori –, chiese un incontro riservato a Mori stesso e De Donno per parlare di mafia- appalti, dove ribadì la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – racconta sempre Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo».

L’altra testimonianza è di Antonio Ingroia. Lui stesso, durante l’udienza del 12 novembre 1997 – parliamo del processo Borsellino bis della Procura di Caltanissetta -, ha raccontato che Borsellino era convinto che partendo dagli appunti contenuti nell’agenda elettronica di Falcone su mafia- appalti si potevano individuare i moventi della strage di Capaci. Probabilmente Ingroia ha poi rimosso questo ricordo ed ha imbastito l’inchiesta giudiziaria sulla presunta Trattativa.

L’altra testimonianza è quella della dottoressa Liliana Ferraro resa al Tribunale di Palermo nell’udienza del 28 settembre 2010. Disse che si incontrò con Borsellino, che le espresse la necessità di fare di tutto per scoprire gli autori della strage di Capaci. Oltre a riferirle i difficili rapporti che aveva con la Procura di Palermo, Borsellino le chiese informazioni su mafia- appalti, visto che lui non aveva nessuna delega dalla Procura di Palermo. Poi c’è la testimonianza di Antonio Di Pietro. Oltre a Falcone, l’ex pm di Mani pulite disse che Borsellino voleva approfondire lui stesso l’inchiesta mafia- appalti e collegarla all’indagine milanese. Di Pietro racconta che Borsellino lo incontrò al funerale di Falcone e gli disse: «Antonio facciamo presto perché abbiamo poco tempo».

Ma se fin qui parliamo di intenzioni da parte di Borsellino, c’è un evento che cristallizza i suoi primi passi concreti su mafia- appalti, nonostante non avesse ancora la delega. Poco prima della sua uccisione – esattamente il 29 giugno del 1992Borsellino aveva svolto a casa sua un incontro riservato con il suo collega Fabio Salomone.

Non è uno qualunque: parliamo del fratello di Filippo Salomone, l’imprenditore coinvolto nell’informativa mafia- appalti dei Ros. Cosa si dissero? Lo riferisce lo stesso magistrato Salomone in un verbale: «Lo andai a trovare a casa sua. Era un primo pomeriggio. C’erano altre persone, oltre alla moglie, Agnese. C’era Antonio Ingroia. Io e Paolo ci siamo chiusi nello studio con una porta a soffietto. Il colloquio sarà durato un’oretta circa. Ricordo che parlammo ancora una volta del fatto che Martelli e Scotti, avendolo indicato come probabile Procuratore Nazionale Antimafia, avevano sovraesposto la sua posizione. Lui si sentiva più protetto a Palermo. Parlammo ancora della mia situazione, che lui riteneva a rischio e mi invitò a venire a Palermo. Io obiettai che l’attività imprenditoriale di mio fratello rendeva inopportuno questo trasferimento, con Tangentopoli che era scoppiata. Borsellino mi disse che allo stato non gli risultava nulla a carico di mio fratello ed in ogni caso riteneva sufficiente che io non mi occupassi delle tematiche, in cui poteva essere coinvolto lo stesso mio fratello, data la dimensione della Procura di Palermo. Borsellino comunque insistette perché io andassi via da Agrigento. All’epoca della visita a Borsellino, io stesso stavo maturando la decisione di allontanarmi da Agrigento».

Il colloquio fin qui riportato dimostra chiaramente che per Borsellino l’inchiesta mafia- appalti era di primaria importanza. Le ragioni sono molteplici: perché si svolge qualche settimana prima dell’esecuzione della strage e dopo soli 4 giorni dall’incontro che Borsellino aveva tenuto con i Ros alla caserma di Piazza Verdi; perché non vi era stata, in precedenza, un’assidua consuetudine di frequentazioni fra i due magistrati e, non per ultimo, perché il fratello del magistrato era tra gli imprenditori implicati nel filone mafia- appalti.

Tutto questo fa pensare che Borsellino, se solo avesse preso in mano la delega per Palermo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta su mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Non doveva far altro che farsi dare la delega dal procuratore Giammanco.

Giungiamo quindi ai suoi ultimi istanti di vita. Verso le 7 e 30 della mattina di quel maledetto 19 luglio 1992, Borsellino ricevette una telefonata dal procuratore Giammanco. Lo aveva testimoniato la moglie Agnese. A quell’ora i tre figli di Borsellino dormivano e il giudice s’affrettò ad afferrare il telefono al primo squillo. La moglie, turbata dalla chiamata mattutina, sentì cosa rispondeva, freddo, all’interlocutore: «La partita è aperta». Il tono allarmò la signora. E fu il marito, rimettendo giù la cornetta, a spiegarle che era stato Giammanco a chiamarlo per assegnargli la delega sull’inchiesta palermitana. Borsellino però non poteva sapere che qualche giorno prima – esattamente il 13 luglio – c’era stata la richiesta di archiviazione da parte di Lo Forte e Scarpinato. E forse nemmeno Giammanco, visto che l’avrebbe vistata tre giorni dopo il tragico evento. Il pomeriggio stesso una Fiat rubata, piena di tritolo, esplose sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Morì lui e i suoi agenti di scorta.

Mafia-appalti, il verbale di Falcone desecretato: ”Sta emergendo un quadro preoccupante”

Giovanni Falcone, assieme a tutti gli altri colleghi della procura di Palermo, tra i quali l’allora capo Pietro Giammanco, viene sentito il 22 giugno del 1990 dalla commissione Antimafia nazionale venuta apposta a Palermo per ascoltarli. Si tratta del verbale appena desecretato grazie all’azione svolta da Nicola Morra, presidente della commissione nazionale Antimafia.

Mafia-appalti e omicidio Mattarella: i temi principali

I temi principali sono l’omicidio Mattarella e il discorso mafia–appalti.  «Allo stato, purtroppo o per fortuna (le cose accadono tutte in una volta), stanno venendo a maturazione in questo momento i risultati di indagini svolte in almeno un biennio dai carabinieri di Palermo, con encomiabile professionalità, e sta venendo fuori un quadro della situazione che non esiterei a definire preoccupante».

Falcone era sempre informato dai Ros: indagini svolte con encomia

È Falcone che parla, lo fa riferendosi all’indagine in corso da parte degli ex Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori. Quello che poi scaturirà con il deposito del dossier nel febbraio del 1991.Nel corso delle indagini Falcone era perennemente informato dai Ros, tanto da dare qualche anticipazione alla Commissione. Come detto, le indagini erano ancora in corso.

Falcone però ha detto innanzi alla Commissione Antimafia: «Possiamo ritenere abbastanza fondato che c’è almeno nella Sicilia occidentale una centrale unica di natura sicuramente mafiosa che dirige e l’assegnazione degli appalti e soprattutto l’esecuzione degli appalti medesimi, con inevitabili coinvolgimenti delle amministrazioni locali sia a livello di strutture burocratiche sia a livello di alcuni amministratori».

«Il problema dei pubblici appalti, abbiamo detto in più riprese e ormai da anni che è un punto cruciale nella strategia antimafia»

A cosa fa capo tutta questa gestione? «Non abbiamo difficoltà a dire che tutto fa capo a Salvatore Riina», risponde Falcone.  Non può entrare nei dettagli, l’indagine dei Ros è delicata, ma il giudice tiene un punto fermo, ovvero che «il problema dei pubblici appalti, abbiamo detto in più riprese e ormai da anni che è un punto cruciale nella strategia antimafia».

E sottolinea: «Abbiamo la conferma di un sistema mafioso che, per quanto concerne i grandi appalti, ed anche nei piccoli centri per tutti gli appalti, ne gestisce in pieno l’esecuzione».

Che cosa intendeva per centrale unica?

Ma cosa intende per centrale unica? Sono le domande ripetute, sul tema, che i membri della commissione gli pongono. Falcone ci ha tenuto a sottolineare che non bisogna errare di semplificazione. «Ora, per evitare equivoci, vorrei chiarire che quando parlo di centrale unica non vorrei che venisse interpretata in maniera meccanicistica e semplice, se non semplicistica e riduttiva», spiega il giudice.

«La realtà – prosegue Falcone -, purtroppo, è molto più articolata e complessa di quel che noi vorremmo, però, ormai è sicuro, c’è un vertice che dirige e coordina le assegnazioni e le esecuzioni, cioè tutta la materia».

Il comitato d’affari è regionale, ma le aggiudicazioni sono anche altrove

Ma allora è una centrale al livello nazionale? Falcone spiega più chiaramente che il comitato d’affari è regionale, perché la mafia è territoriale. «Il presupposto dell’intervento dell’organizzazione mafiosa sta nel controllo del territorio», ribadisce.

Ma aggiunge che le aggiudicazioni sono anche altrove. Su questo ultimo punto però mette un punto fermo: «Il problema sarà ampiamente chiarito, ma non posso farlo completamente in questo momento perché non credo sia opportuno».

Quando il dossier viene depositato nel 1991, a quel punto Falcone ne ha parlato pubblicamente in un convegno e ha rivelato che la questione è di carattere nazionale visto il coinvolgimento di alcune importanti aziende del nord.

Ritornando all’audizione del 1990, Falcone precisa che tale condizionamento mafioso coinvolge «qualsiasi imprenditore che operi in determinate zone, sia esso persona fisica, che cooperativa o ente a partecipazione statale».

Dopo l’audizione del 1990 i giornali locali ne parlano

Dopo questa audizione, come testimonierà l’ex Ros Giuseppe De Donno nel processo Borsellino ter del 1998, escono le notizie sui giornali locali proprio su tutto quello che ha detto. «Era quello che volevo», disse Falcone a De Donno. Nel senso che Falcone avrebbe voluto anticipare la questione mafia appalti appositamente.

In effetti diverse procure lo hanno in seguito contattato. Proprio per questo, quando il dossier viene depositato nel ’92, diverse procure ne hanno chiesto acquisizione. Compresa la procura di Marsala, in particolar modo da Paolo Borsellino.

Le ipotesi di Falcone sui delitti eccellenti

Interessante il discorso dei delitti eccellenti. Falcone fa sua l’ipotesi del compianto giudice Rocco Chinnici.  «Si sarebbe trattato – spiega Falcone -, cioè, di omicidi “eccellenti” che sono in un certo modo apparentemente scaglionati nel tempo, ma che in realtà si inseriscono in vicende di dinamiche anche interne alla mafia». Non è un caso, spiega Falcone, che il periodo che va dal 1978 al 1982 «coincide conil massimo degli sconvolgimenti interni a Cosa Nostra». Cosa significa?

L’omicidio Mattarella voluto dalla mafia

Falcone fa l’esempio dell’omicidio Mattarella. Prende per ipotesi che gli esecutori siano stati proprio gli ex nar Valerio Fioravanti e Cavallini. Come mai la mafia avrebbe usato soggetti esterni?  Non c’entra nessun piano eversivo, nessun complotto.Come sempre, la spiegazione sarebbe quella più semplice. Una questione tutta interna alla mafia.

«Il 1980 – spiega Falcone – ha rappresentato il momento più acuto di quella crisi che sarebbe poi sfociata nella guerra di mafia: da un lato vi erano Bontade e Inzerillo (Badalamenti era stato già buttato fuori da Cosa Nostra) mentre dall’altro vi erano i corleonesi».  Importante questo punto, perché nel momento della crisi «ognuno aveva paura di fare il primo passo».

C’era una parte della mafia che voleva ucciderlo, l’altra era indifferente.Ma allora perché una parte della mafia decise di eliminare Mattarella, ma senza avvisare gli altri? «Bisognava indicare le ragioni per cui si uccideva una persona, quale fatto in concreto si contesta a Mattarella, quale persona del mondo politico aveva chiesto di ammazzarlo!», risponde Falcone.

In sostanza, la mafia non può aver commissionato questo delitto a uomini di Cosa nostra, perché a causa dei precari equilibri interni di quel momento ciò avrebbe fatto esplodere duri contrasti. Quindi, quella parte di mafia che lo ha deciso, avrebbe preferito ricorrere a mani esterne per rimanere segreta l’origine del delitto.Ricordiamo che Falcone non era solo innanzi alla commissione antimafia scesa a Palermo. Era presente l’allora presidente della Corte d’appello di Palermo Carmelo Conti, il procuratore generale della Repubblica di Palermo Vincenzo Pajno, l’allora procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco e i due giudici istruttori Leonardo Guarnotta e Gioacchino Natoli.

Il verbale desecretato dal presidente dell’Antimafia Nicola Morra

Ricordiamo che parliamo di un verbale appena desecretato grazie all’azione svolta da Nicola Morra, presidente della commissione nazionale antimafia. Dopo l’articolo de Il Dubbio, nel quale è stata riportata la richiesta da parte dell’associazione “I Cittadini contro le mafie e la corruzione”, il presidente Morra ha raccolto l’invito e subito, dimostrando correttezza e coerenza, si è attivato in tal senso. «Ritengo questa richiesta assolutamente meritevole della massima condivisione – aveva detto Morra durante la seduta – e ne ho dunque disposto l’immediato inserimento all’ordine del giorno di questa Commissione per la procedura di desecretazione». Detto, fatto.

Mafia- appalti, quel giorno che Paolo Borsellino fu convocato in Procura…

Esattamente quattro giorni prima che venisse brutalmente ucciso, Paolo Borsellino era a casa con la moglie, sconvolto e molto preoccupato. Perché? La spiegazione è in una deposizione della signora Agnese Borsellino rilasciata il 18 agosto 2009 di fronte ai Procuratori di Caltanissetta: «Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992; ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrarono…»

«Il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza. Mi trovavo a casa con mio marito, verso sera, alle ore 19.00, e, conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione, notai Paolo sconvolto e, nell’occasione, mi disse testualmente “ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il Generale Subranni era “pungiutu“ ( affiliato a Cosa nostra, ndr) ». L’italiano non si interpreta, è la nostra lingua madre, eppure i teorici della presunta Trattativa hanno inteso che Borsellino, dicendo di aver visto la “mafia in diretta”, si riferisse all’ex generale dei Ros Subranni. Sappiamo che Borsellino si fidava ciecamente dei carabinieri del Reparto Operativo Speciale e non a caso, come vedremo in seguito, fece un incontro segreto con loro per discutere dell’inchiesta mafia- appalti presso la caserma e non negli uffici della Procura, visto che più di una volta aveva espresso di non fidarsi dei suoi colleghi.

Quindi, ritornando alla testimo- nianza della moglie Agnese, Borsellino era rimasto turbato perché qualcuno gli aveva detto che Subranni era un mafioso. Nella frase “ho visto la mafia in diretta” Borsellino infatti si riferiva al suo interlocutore, avendo capito la sua intenzione di infangare i Ros. Con chi si era visto? Non è dato saperlo. Dalla sua agenda personale sappiamo però che Borsellino, quel giorno, è stato in Procura dalle 17 in poi, dopodiché è rientrato a casa per l’ora di cena; a seguire avveniva l’angosciosa chiacchierata con la moglie. Con chi si era visto in Procura? La “mafia in diretta” era riferito a un suo collega?

Non lo sapremo forse mai. Quello che sappiamo, però, è che Borsellino stava seguendo la pista dell’inchiesta mafia- appalti anche per risalire agli assassini di Falcone. Diverse sono le testimonianze di primaria importanza. Una è dei Ros. Paolo Borsellino, subito dopo l’omicidio di Falcone – secondo la testimonianza del generale Mori –, chiese un incontro riservato a Mori stesso e De Donno per parlare di mafia- appalti, dove ribadì la sua convinzione che ci fosse un legame con la strage di Capaci. «Nel salutarci – racconta sempre Mori – raccomandò la massima riservatezza sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo».

L’altra testimonianza è di Antonio Ingroia. Lui stesso, durante l’udienza del 12 novembre 1997 – parliamo del processo Borsellino bis della Procura di Caltanissetta -, ha raccontato che Borsellino era convinto che partendo dagli appunti contenuti nell’agenda elettronica di Falcone su mafia- appalti si potevano individuare i moventi della strage di Capaci. Probabilmente Ingroia ha poi rimosso questo ricordo ed ha imbastito l’inchiesta giudiziaria sulla presunta Trattativa.

L’altra testimonianza è quella della dottoressa Liliana Ferraro resa al Tribunale di Palermo nell’udienza del 28 settembre 2010. Disse che si incontrò con Borsellino, che le espresse la necessità di fare di tutto per scoprire gli autori della strage di Capaci. Oltre a riferirle i difficili rapporti che aveva con la Procura di Palermo, Borsellino le chiese informazioni su mafia- appalti, visto che lui non aveva nessuna delega dalla Procura di Palermo. Poi c’è la testimonianza di Antonio Di Pietro. Oltre a Falcone, l’ex pm di Mani pulite disse che Borsellino voleva approfondire lui stesso l’inchiesta mafia- appalti e collegarla all’indagine milanese. Di Pietro racconta che Borsellino lo incontrò al funerale di Falcone e gli disse: «Antonio facciamo presto perché abbiamo poco tempo».

Ma se fin qui parliamo di intenzioni da parte di Borsellino, c’è un evento che cristallizza i suoi primi passi concreti su mafia- appalti, nonostante non avesse ancora la delega. Poco prima della sua uccisione – esattamente il 29 giugno del 1992Borsellino aveva svolto a casa sua un incontro riservato con il suo collega Fabio Salomone.

Non è uno qualunque: parliamo del fratello di Filippo Salomone, l’imprenditore coinvolto nell’informativa mafia- appalti dei Ros. Cosa si dissero? Lo riferisce lo stesso magistrato Salomone in un verbale: «Lo andai a trovare a casa sua. Era un primo pomeriggio. C’erano altre persone, oltre alla moglie, Agnese. C’era Antonio Ingroia. Io e Paolo ci siamo chiusi nello studio con una porta a soffietto. Il colloquio sarà durato un’oretta circa. Ricordo che parlammo ancora una volta del fatto che Martelli e Scotti, avendolo indicato come probabile Procuratore Nazionale Antimafia, avevano sovraesposto la sua posizione. Lui si sentiva più protetto a Palermo. Parlammo ancora della mia situazione, che lui riteneva a rischio e mi invitò a venire a Palermo. Io obiettai che l’attività imprenditoriale di mio fratello rendeva inopportuno questo trasferimento, con Tangentopoli che era scoppiata. Borsellino mi disse che allo stato non gli risultava nulla a carico di mio fratello ed in ogni caso riteneva sufficiente che io non mi occupassi delle tematiche, in cui poteva essere coinvolto lo stesso mio fratello, data la dimensione della Procura di Palermo. Borsellino comunque insistette perché io andassi via da Agrigento. All’epoca della visita a Borsellino, io stesso stavo maturando la decisione di allontanarmi da Agrigento».

Il colloquio fin qui riportato dimostra chiaramente che per Borsellino l’inchiesta mafia- appalti era di primaria importanza. Le ragioni sono molteplici: perché si svolge qualche settimana prima dell’esecuzione della strage e dopo soli 4 giorni dall’incontro che Borsellino aveva tenuto con i Ros alla caserma di Piazza Verdi; perché non vi era stata, in precedenza, un’assidua consuetudine di frequentazioni fra i due magistrati e, non per ultimo, perché il fratello del magistrato era tra gli imprenditori implicati nel filone mafia- appalti.

Tutto questo fa pensare che Borsellino, se solo avesse preso in mano la delega per Palermo avrebbe potuto gestire anche l’inchiesta su mafia- appalti e sarebbe potuto arrivare fino in fondo. Non doveva far altro che farsi dare la delega dal procuratore Giammanco.

Giungiamo quindi ai suoi ultimi istanti di vita. Verso le 7 e 30 della mattina di quel maledetto 19 luglio 1992, Borsellino ricevette una telefonata dal procuratore Giammanco. Lo aveva testimoniato la moglie Agnese. A quell’ora i tre figli di Borsellino dormivano e il giudice s’affrettò ad afferrare il telefono al primo squillo. La moglie, turbata dalla chiamata mattutina, sentì cosa rispondeva, freddo, all’interlocutore: «La partita è aperta». Il tono allarmò la signora. E fu il marito, rimettendo giù la cornetta, a spiegarle che era stato Giammanco a chiamarlo per assegnargli la delega sull’inchiesta palermitana. Borsellino però non poteva sapere che qualche giorno prima – esattamente il 13 luglio – c’era stata la richiesta di archiviazione da parte di Lo Forte e Scarpinato. E forse nemmeno Giammanco, visto che l’avrebbe vistata tre giorni dopo il tragico evento. Il pomeriggio stesso una Fiat rubata, piena di tritolo, esplose sotto il palazzo dove viveva la madre di Borsellino, presso la quale il giudice quella domenica si era recato in visita. Morì lui e i suoi agenti di scorta.

Borsellino quater, le motivazioni della sentenza d’appello

«Alla luce della sentenza della Corte di assise di appello riteniamo avvalorata la nostra tesi di una causale dell’accelerazione legata alla particolare attenzione mostrata da Paolo Borsellino verso il dossier “mafia e appalti”. Dovremo leggere le motivazioni, ma troppe anomalie sono state scoperte in questi anni circa il clima terribile creato in Procura attorno al procuratore Borsellino. Non sappiamo se sarà possibile visto il tempo trascorso, ma noi non smetteremo mai di cercare di capire le ragioni del perché il procuratore Borsellino ebbe a definire il suo ufficio un nido di vipere». Sono le parole che l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, raggiunto dal Dubbio, ha voluto gentilmente rilasciare subito dopo la notizia della sentenza di secondo grado sulla “”. Parole che in realtà trovano riscontro nella pronuncia d’appello del Borsellino quater.

Quelle motivazioni lo dicevano chiaro e tondo: Paolo Borsellino non fu ucciso per la presunta trattativa Stato-mafia, che ora viene sconfessata dalla sentenza d’appello, ma dalla mafia «per vendetta e cautela preventiva». La vendetta è relativa all’esito del maxiprocesso, mentre la “cautela preventiva” è relativa alle sue indagini, in particolare quelle su “mafia e appalti”. Quest’ultima ipotesi, come ha scritto la Corte d’assise di appello di Caltanissetta nelle motivazioni del “Borsellino quater”, «doveva, peraltro, essere anche collegata alla circostanza riferita dal collaboratore Antonino Giuffrè sui “sondaggi” con “personaggi importanti” effettuati da Cosa Nostra prima di decidere sull’eliminazione dei giudici Falcone e Borsellino oltre che sui sospetti per i quali lo stesso Borsellino, il giorno prima dell’attentato, aveva confidato alla moglie “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo , ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse”». Sempre nella sentenza nissena viene citato il fatto che l’arrivo di Borsellino nel nuovo ufficio della Procura di Palermo «era stato percepito con preoccupazione da Cosa Nostra, al punto che Pino Lipari (vicino ai vertici dell’organizzazione mafiosa) aveva commentato il fatto dicendo che avrebbe creato delle difficoltà a “quel santo cristiano di Giammanco”».


Mafia-appalti e il legame con la strage di via D’Amelio. La Corte d’assise di appello di Caltanissetta si è molto soffermata sull’indagine “mafia e appalti” come concausa della strage di via D’Amelio. Lo rimarca osservando che Borsellino aveva mostrato particolare attenzione alle «inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale». Viene riportato ciò che il collaboratore Giuffrè aveva riferito, in sede di incidente probatorio, all’udienza del 5 giugno 2012. Ovvero che le ragioni dell’anticipata uccisione del giudice Borsellino erano «anche da ricondurre al timore di Cosa Nostra che quest’ultimo potesse divenire il nuovo capo della Direzione Nazionale Antimafia nonché al timore delle indagini che il medesimo magistrato avrebbe potuto compiere in materia di mafia e appalti, con specifico riferimento al rapporto presentato dal Ros dei Carabinieri alla Procura di Palermo, su input del giudice Giovanni Falcone, nel quale erano stati evidenziati appunto i rapporti fra Cosa nostra, politica e imprese aggiudicatarie.

Con particolare riferimento alle interferenze dei boss in un rapporto triangolare fondato sulla condivisione di illecite cointeressenze economiche che coinvolgeva, mettendoli ad un medesimo tavolo, il mondo imprenditoriale, politico e quello mafioso». Troppi anni si sono persi alla ricerca di entità e terzi livelli, mentre la verità è sotto gli occhi di tutti. Il Dubbio è riuscito a trovare nuovi documenti.

I verbali del Csm

Dai verbali del Csm in cui sono riportate le testimonianze dei magistrati nel 1992, al documento da cui si evince come Falcone e Borsellino ritenessero che l’omicidio di Salvo Lima e del carabiniere Guazzelli fosse legato al fatto che si erano rifiutati di intervenire per insabbiare il procedimento “mafia-appalti”. Ciò significherebbe che la stagione stragista si sarebbe avviata proprio per la questione dell’indagine sugli appalti. Sarebbe ora che la Procura di Caltanissetta prenda spunto dalla sentenza del Borsellino quater stesso. Magari acquisendo i documenti nuovi portati avanti dalla difesa degli ex Ros. Paolo Borsellino cosa avrebbe voluto denunciare alla Procura nissena? Gli indizi li la lasciati lui stesso, dai convegni pubblici alle chiacchierate con persone ancora viventi. Magari si potrebbe iniziare da quella Procura che Borsellino definì «di vipere».

Falcone e Borsellino hanno detto: «Salvo Lima è stato ucciso per il dossier mafia-appalti»

È il 12 marzo del 1992, l’europarlamentare democristiano Salvo Lima, leader della corrente capitanata da Giulio Andreotti, viene ucciso dalla mafia a Mondello, località balneare in prossimità di Palermo. Al momento dell’agguato si trovava in compagnia di altre due persone, il professor Alfredo Li Vecchi e il dottor Leonardo Liggio, a bordo di una Opel Vectra.

Subito dopo essere partiti ed aver percorso un breve tragitto, l’autovettura viene affiancata da una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo, una delle quali esplode diversi colpi d’arma da fuoco, inducendo Li Vecchi, che si trova alla guida, a bloccare la vettura. Nel contempo Lima gridava “Stanno ritornando “e tutti e tre gli occupanti si precipitavano fuori dall’abitacolo in cerca di scampo, dirigendosi in senso opposto a quello di marcia dell’autovettura, cioè verso l’Addaura. Li Vecchi e Liggio avevano trovato riparo dietro il cassonetto della spazzatura e si erano accorti che Lima era disteso a terra, bocconi e privo di vita.

Un omicidio ordinato da Totò Riina

Parliamo di un omicidio commesso, per ordine di Totò Riina e di altri componenti della Cupola, dai mafiosi poi diventati pentiti, Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante. Un omicidio che, di fatto, ha aperto la stagione stragista. Si è sempre detto, come si legge in sentenza, che la casuale del delitto sarebbe consistita nella delusa aspettativa di un esito favorevole del maxiprocesso da parte della Corte di Cassazione con la sentenza del 30 gennaio ‘92, nonostante l’impegno che avrebbe assunto Salvo Lima per una più favorevole definizione. In realtà c’era chi intravvedeva qualcos’altro. In una vecchia intervista rilasciata al Corriere della sera, l’allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso disse qualcosa di più e che assieme al verbale inedito, che Il Dubbio ha potuto visionare, potrebbe cambiare la versione dei fatti e rafforzare ancora una volta la pista del dossier mafia-appalti: causale di tutta la stagione stragista.

Pietro Grasso: Falcone e Borsellino erano nemici da bloccare

«Certamente Falcone, come Borsellino, erano dei nemici da bloccare per quello che potevano continuare a fare. Ma l’attentato di Capaci, per le modalità non usuali per Cosa Nostra, fu anche un messaggio di tipo terroristico non tanto eversivo quanto conservativo per frenare le spinte che venivano fuori da Tangentopoli contro una politica che era in crisi». Queste sono state le valutazioni dell’allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. «Per noi è lacerante intuire ma non potere ancora dimostrare – ha affermato Grasso – che la strategia stragista sia iniziata prima di Capaci e cioè con l’omicidio Lima. È lì che scattò un segnale, per cui lo stesso Falcone mi disse “Adesso può succedere di tutto”».

Falcone e Borsellino avevano capito che l’omicido di Lima era legato a mafia-appalti

Ma Falcone cosa pensava? Ora sappiamo che sia lui che Borsellino avevano capito che quell’omicidio – e non solo quello – era scaturito dal rifiuto di Lima di intervenire presso la Procura di Palermo, in merito al procedimento nato dal dossier mafia- appalti, che era stato elaborato su impulso di Falcone stesso dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno. A rivelarlo è stato l’allora sostituto procuratore Vittorio Teresi, molti anni dopo conosciuto come uno dei pm del processo sulla presunta Trattativa Stato-mafia. Parliamo di un verbale di assunzione di informazione del 7 dicembre 1992, in cui viene sentito dal pubblico ministero Fausto Cardella della procura di Caltanissetta. Il verbale è stato di recente acquisito dalla Corte d’Appello di Palermo per il processo Trattativa oramai alle battute finali.

Anche al maresciallo Guazzelli era stato chiesto di attenuare le indagini

«Insieme a Paolo Borsellino, seguivo le indagini relative all’omicidio del Maresciallo Guazzelli – racconta Teresi innanzi al Pm di Caltanissetta-; a questo proposito riferisco di quanto ho appreso da Paolo Borsellino: il maresciallo Guazzelli sarebbe stato il referente dei Ros e in particolare del generale Subranni nella provincia di Agrigento. Per questa sua qualità il maresciallo sarebbe stato un giorno avvicinato da Siino Angelo e da Cascio Rosario, nei confronti dei quali il Ros stava sviluppando un’indagine, al fine di indurlo ad attenuare la loro posizione nell’inchiesta». Teresi prosegue: «Il maresciallo Guazzelli non solo avrebbe rifiutato di interporre suoi buoni uffici presso il Ros, ma addirittura avrebbe trattato in così malo modo il Siino e il Cascio, che il primo, uscito dalla casa del Guazzelli, si sarebbe sentito male». Ed ecco che Teresi spiega cosa gli raccontò Borsellino, ovvero che «andato a vuoto questo primo tentativo, il Siino si sarebbe rivolto all’onorevole Lima affinché questi intervenisse sul Procuratore Giammanco tramite l’onorevole D’Acquisto al medesimo fine».

Non solo. «Borsellino – continua Teresi – però aggiunse di aver commentato queste notizie con Giovanni Falcone e che anche lui riteneva possibile che potessero avere una rilevanza, non solo ai fini della spiegazione dell’omicidio Guazzelli ma anche di quello dell’onorevole Lima». Sintetizza Teresi innanzi al Pm di Caltanissetta il 7 dicembre 1992: «In sostanza secondo l’opinione concorde di Paolo e Giovanni, l’onorevole Lima non sarebbe stato in grado o, peggio, non avrebbe voluto influire sulla Procura di Palermo per alleggerire la posizione di Siino (tant’è che questi fu arrestato)».

L’informativa mafia-appalti fu illecitamente divulgata

Come ha scritto l’allora gip Gilda Loforti nella sua ordinanza di archiviazione del 2000, «risulta assolutamente certo che l’informativa del febbraio del 1991, denominata “mafia-appalti”, fu illecitamente divulgata prima della emissione dei provvedimenti restrittivi». Dopodiché inizia a scorrere il sangue. Il primo a morire – e ora sappiamo che secondo Falcone e Borsellino sarebbe stato ucciso da Cosa Nostra per la questione del procedimento mafia-appalti – fu l’andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, ritenuto dai Ros uno degli anelli di congiunzione tra mafia e imprenditoria. Quindi, come noto, seguirono le stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

Riina intercettato al 41 bis: «Ho ucciso Falcone anche per questo»

Come sappiamo, Falcone esplicitò l’importanza del dossier mafia-appalti sul coinvolgimento delle imprese dell’Italia del Nord. Anticipò tangentopoli, ma con la terza gamba mafiosa, durante il convegno del 15 marzo 1991, provocando la reazione dei fratelli Buscemi che dissero «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare»: parliamo degli imprenditori mafiosi, prestanomi di Totò Riina che volevano impossessarsi delle imprese nazionali.

Totò Riina lo dice chiaramente nelle famose intercettazioni del 2013 di quando era al 41 bis. Ne parla con il suo compagno d’ora d’aria Lorusso. Si riferisce a Falcone e del perché aveva ordinato l’attentato. È un passaggio della trascrizione “colloquio area passeggio” del 28 settembre 2013. «Fu un colpo veramente che … Minchia Salvatore te l’ha combinata …. Salvatore …», e poi aggiunge: «Salvatore … il piccolo cosi…si è messo a fare… ride … Minchia si è messo a fare … se sapevo fare il costruttore (imprenditore, ndr). Ti chiudo là dentro … anche per questo è successo, è successo … è successo». Totò Riina, per dire che è accaduto perché Falcone lo ha definito un imprenditore, l’ha ripetuto per ben tre volte. Per quello è successo, è successo, è successo.


Borsellino, 5 giorni prima della strage, ai colleghi: «Approfondite mafia-appalti!». Cinque giorni prima di finire stritolato a Via D’Amelio, in riunione Paolo Borsellino ha chiesto davanti a tutti i magistrati della Procura di Palermo che si approfondisse l’indagine sul dossier mafia appalti. Non solo. Oltre a fare degli appunti ben circoscritti, ha anche chiesto il rinvio della riunione per approfondire ulteriormente il tema. Purtroppo non fece in tempo. In esclusiva Il Dubbio mette in luce nuovi particolari che potrebbero essere utili per i magistrati nisseni. Sì, perché la procura di Caltanissetta è l’unica titolata per competenza territoriale a fare luce sul movente della strage di Via D’Amelio. Lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale di parte civile della famiglia di Borsellino, durante il processo contro Matteo Messina Denaro – accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio – ha ribadito che bisogna cercare le risposte nei 57 giorni tra le due stragi. «Dobbiamo capire quali informazioni possano essere finite a Borsellino, potremmo iniziare a vedere la finalità preventiva di bloccarlo sul fronte del dossier mafia e appalti», ha osservato Trizzino.A questo punto vale la pena aggiungere l’ennesimo tassello. Siamo nel 14 luglio 1992. Data dell’ultima riunione in Procura a cui ha partecipato Paolo Borsellino. Il vertice a Palermo voluto dall’allora capo procuratore Pietro Giammanco è attestato nelle testimonianze rese al Csm, a fine luglio ’92, da altri magistrati all’epoca in servizio nel capoluogo. Tra di loro c’è Domenico Gozzo, all’epoca sostituto procuratore presso la procura di Palermo da un mese e mezzo. Tra i vari magistrati, Gozzo è stato uno dei pochi a spiegare con dovizia di particolari tutto ciò che è accaduto nell’ultima riunione alla quale partecipò Borsellino.

Tensione durante la riunione del 14 luglio

Dal verbale del Csm datato 29 luglio 1992 si apprende che alla domanda sulla situazione generale dell’ufficio di Palermo, il dottor Gozzo specifica che era arrivato il 2 giugno del ’92 trovando una atmosfera abbastanza tesa e ha assistito a delle assemblee perché «alla Procura di Palermo c’è questa consuetudine di fare delle assemblee in cui si discutono di vari temi». A quel punto un membro del Csm gli pone una domanda più specifica, ovvero se questa atmosfera di tensione l’avesse colta anche prima della strage di Via D’Amelio. Risponde affermativamente e dopo aver spiegato i problemi che si sono verificati nelle riunioni precedenti e dei problemi organizzativi nella procura, Gozzo va al dunque e parla della riunione del 14 luglio. «È stata l’ultima a cui ha partecipato Paolo Borsellino, era seduto due sedie dopo di me – spiega l’allora sostituto procuratore -, era una riunione che era stata convocata per i saluti prefestivi e per parlare anche di tutta una serie di problemi che dopo la morte di Falcone erano apparsi sui giornali (in questo momento non mi ricordo la scaletta, mi ricordo, tra gli altri, i processi mafia e appalti), cioè i vari colleghi erano chiamati a riferire sui processi che avevano gestito». Gozzo sottolinea che «su mafia e appalti, quindi, c’era il collega Pignatone (se non ricordo male) e doveva esserci anche il collega Scarpinato che però non poté venire per problemi di famiglia». Il magistrato Gozzo prosegue: «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata – perché al momento aveva dei problemi -, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate…». Gozzo specifica che il processo è quello relativo a mafia-appalti e, alla domanda di che carte si trattassero, risponde: «Si trattava di carte che erano state inviate (quello che ho sentito là, chiaramente, posso riferire) alla procura di Marsala – e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla Procura di Palermo – che era lo stesso processo però a Marsala. C’erano degli sviluppi e, quindi, erano stati mandati a Palermo e lui (Borsellino, ndr.) si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea». Gozzo prosegue nel racconto indicando un particolare non da poco: «E, poi, diceva che c’erano dei nuovi sviluppi (in particolare un pentito di questi che ultimamente aveva parlato), e sono rimasto sorpreso perché dall’altra parte si rispose: “ma vedremo”». Gozzo sottolinea questo passaggio del racconto mostrando le sue perplessità in merito alla risposta data a Borsellino: «Cioè, di fronte ad una offerta così importante (io riferisco i fatti): “Ma vedremo se è possibile, ma è il caso di acquisirlo”».

Aveva studiato il dossier dei Ros

Dopo il racconto sulle altre problematiche relative alla procura di Palermo, più avanti un membro del Csm ritorna sulla questione mafia-appalti e chiede a Gozzo di dire qualcosa di più specifico sulla richiesta di chiarimenti da parte di Borsellino. «Probabilmente potete chiedere anche qualcosa di più interessante su questo famoso rapporto dei Ros su mafia- appalti anche a mia moglie Antonella Consiglio – risponde Gozzo – , perché mia moglie ha avuto modo di consultare queste carte proprio per il processo che ha fatto a Termini Imerese che si riferiva a Angelo Siino (l’ex ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra, ndr) che orbita in quell’area di Termini Imerese e della Madone». E aggiunge: «Lei mi riferiva che probabilmente in un primo momento questo rapporto poteva non sembrare significativo, ma che in effetti offriva notevoli spunti di attività investigativa». Quello che sappiamo è che dopo la strage di Capaci, Borsellino (all’epoca procuratore capo a Marsala e dal marzo 1992 di nuovo alla procura di Palermo come procuratore aggiunto) decise – pur non essendo titolare dell’indagine – di approfondire l’inchiesta riguardante gli appalti, ovvero il coinvolgimento della politica e delle imprese nazionali con la mafia, perché – come disse al giornalista Mario Rossi – la ritenne la causa della morte del suo amico Giovanni Falcone. Ciò è confermato sia da un incontro che Borsellino volle tenere il 25 giugno 1992, presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo, con gli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ai quali chiese di sviluppare le indagini riferendo esclusivamente a lui, sia dalle conversazioni avute dallo stesso Borsellino con Antonio Di Pietro, che all’epoca stava conducendo le indagini sugli appalti al centro di Mani pulite. A questo si aggiunge il fatto che Borsellino sentii anche il pentito Leonardo Messina, il quale gli riferì che la Calcestruzzi Spa (all’epoca del gruppo Ferruzzi – Gardini) sarebbe stata in mano a Totò Riina. Ora, grazie alle audizioni rese al Csm tra il 28 e il 31 luglio 1992, sappiamo che Borsellino aveva una conoscenza approfondita del dossier mafia-appalti tanto da avanzare rilievi importanti e ottenere una nuova riunione in Procura per approfondire il tema. Non fece in tempo. Dopo pochi giorni il tritolo esplose sotto la casa della mamma e che massacrò, oltre a lui, i ragazzi della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.Il 14 agosto del 1992, in pieno periodo ferragostano, il gip Sergio La Commare archivia il dossier mafia-appalti. La richiesta di archiviazione viene stilata il 13 luglio e depositata il 22 luglio, solamente tre giorni dopo l’assassinio di Borsellino.

Fonte: IL DUBBIO