Il procuratore De Luca parla delle accuse ai colleghi di Falcone e Borsellino

 

09 dic 2025

Il procuratore Salvatore De Luca e la pm  Claudia Pasciuti


di Giovanni Bianconi CORRIERE DELLA SERA 

Il magistrato ha raccontato il clima che si viveva nella procura di Palermo nel periodo delle stragi del ’92

 

Tre ore per riassumere tre anni d’indagini, e non sono bastate. Il primo capitolo dell’audizione del procuratore di Caltanissetta Salvatore De Lucadavanti alla commissione parlamentare Antimafia, a consuntivo dei diversi filoni d’inchiesta riavviati sulle stragi del 1992, s’è chiuso aprendo nuovi interrogativi e nuovi sospetti sull’isolamento subito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino alla Procura di Palermo nei mesi che precedettero le bombe di Capaci e via D’Amelio. E dunque sul palazzo dei «veleni» tante volte raccontati negli ultimi trent’anni, e che ora tornano a scorrere nella ricostruzione dei nuovi inquirenti.

In sintesi De Luca, che in quel palazzo lavorò da giovane pm proprio nel periodo a cavallo delle stragi, ha spiegato che il famoso «dossier mafia-appalti» (redatto dai carabinieri del Ros e archiviato dalla Procura, che solo in seguito riaprì le indagini sulla base di nuovi elementi) sarebbe una delle concause della morte di Borsellino

Anzi, è quella su cui sono stati raccolti «molteplici e più concreti indizi», anche per quanto riguarda l’uccisione di Falcone. Ma prima si sono verificate due «precondizioni» delle stragi, all’interno del Palazzo di giustizia di Palermo: l’isolamento dei due magistrati e la loro sovraesposizione. Ad opera di altri colleghi. In primo luogo il procuratore dell’epoca, Pietro Giammanco, morto nel 2018, e al suo fianco altri protagonisti dell’Antimafia di allora e dei decenni successivi.

Chiamati in causa a vario titolo da De Luca: Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natoli (entrambi indagati per il presunto insabbiamento di una costola di «mafia-appalti», dunque un ipotetico favoreggiamento commesso 33 anni fa), Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato (oggi senatore dei Cinque Stelle e componente della commissione) che indagati non sono ma ebbero un ruolo nella gestione di quel fascicolo.

Tutto (o quasi) ciò che la maggioranza di centrodestra voleva sentirsi dire è stato detto, e non è un caso che a fine seduta i commissari di Fratelli d’Italia e Forza Italia esultino per la versione di De Luca, il quale ha pure annunciato che la «pista nera» con cui s’immaginava il coinvolgimento nelle stragi dell’ex leader di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaiesul piano giudiziario «vale zero spaccato». Ne resta un’altra, sempre in ambito neofascista, ma non se ne può parlare perché i pm la stanno ancora battendo.

Per il resto, è tutto un atto d’accusa contro la Procura guidata da Giammanco, che aveva persino parentele mafiose ed era amico dell’ex presidente della Regione democristiano Mario D’Acquisto, a sua volta vicinissimo a Salvo Lima; quasi logico che con quei legami (in verità già noti quando il Csm lo nominò nel 1990, col voto dei laici e dei togati di destra e della corrente di Falcone, sostenuto da Fernanda Contri che di Falcone era grande amica) non volesse indagare su mafia-appalti. E il fatto che nel 1993 (dopo l’addio di Giammanco all’indomani di via D’Amelio, a seguito della rivolta dei pm capeggiati proprio da Scarpinato) l’indagine riprese vigore «è la dimostrazione che nel ’92 non si fece quello che andava fatto».

A quel fascicolo, accusa De Luca, Pignatone «non si sarebbe dovuto nemmeno avvicinare», dal momento che alcuni imprenditori coinvolti(Bonura, Buscemi e Piazza) erano i titolari dell’immobiliare che aveva venduto quasi un intero palazzo alla famiglia del magistrato, a prezzi di favore.

Il procuratore cita le tesi difensive di Pignatone, ma sottolinea che le ombre restano. E denuncia che Natoli «mentì al Csm» nel ’92, quando disse di non avere conoscenza «diretta né indiretta» delle frizioni tra Giammanco e Falcone. Inoltre, con i loro comportamenti «inopportuni» Giammanco e Pignatone avrebbero contribuito alla sovraesposizione dei due magistrati uccisi da Cosa Nostra. Come? Il «chiacchiericcio» interno a Cosa Nostra che fossero «malleabili» o avvicinabili sul piano giudiziario era irrilevante, ma li contrapponeva a Falcone e Borsellino che invece erano «inflessibili e incorruttibili». 

Dunque — sostiene De Luca — i mafiosi possono avere pensato «eliminiamo questi e con gli altri non avremo problemi».
Dopodiché, il principale indizio che Borsellino non si fidava di Natoli e Lo Forte sta nel fatto che quando il pentito Gaspare Mutolo gli parlò, fuori verbale, delle collusioni con la mafia dell’allora pm Domenico Signorino e del super poliziotto Bruno Contrada, lui non lo riferì a loro che erano co-titolari dell’indagine, bensì ad altri due magistrati. «Questo è il massimo atto di sfiducia che Borsellino potesse fare verso Natoli e la dirigenza della Procura», scandisce il procuratore. Il resto alla prossima puntata.

9 dicembre 2025 

STRAGE VIA D’AMELIO – Il procuratore De Luca in Antimafia: “Mafia e appalti concausa stragi ‘92. Pista nera non esiste”