Il più grande complotto di Stato mai avvenuto nella storia d’Italia e che si è svolto nell’arco di trent’anni porta il nome glorioso di Paolo Borsellino, e insieme quello del “pentito” costruito in vitro di Enzo Scarantino.
Quanti magistrati, pubblici ministeri, giudici togati e popolari, membri del Csm e procuratori generali, e poi questori, prefetti e poliziotti sono i colpevoli per aver preso parte al complotto? E quanti di loro –a parte tre agenti che rischiano di finire allo spiedo come unici capri espiatori- risponderanno, oltre che per la violazione della memoria di un grande magistrato, per aver truccato le carte, nascosto carte, nastri registrati e testimonianze, mandato in galera gli innocenti?
Dobbiamo ancora una volta dire grazie a Luca Palamara, ben sollecitato da Sandro Sallusti nella seconda puntata sulla vera e unica Casta, quella delle toghe, per averci dato sul fattaccio qualche illuminazione in più, pure a noi che su questo scandalo di Stato credevamo di sapere tutto. Ci fa anche sentire un po’ come quelli che hanno continuato a guardare il dito senza vedere la luna, questa parte del libro, diciamo la verità. Perché, partendo dai primi passi con cui il picciotto Enzino fu preso per mano e accompagnato a suon di botte, sputi, vermi e vetro nella minestra, ricatti, suggerimenti e promesse a dire il falso per depistare dalle ragioni vere per cui Borsellino fu assassinato, si arriva fino al coinvolgimento del Csm e del procuratore generale Fuzio, invano coinvolto dalle figlie del magistrato ucciso. Dal 1994 al 2018, e poi 2019, l’anno del pensionamento del vertice della magistratura. Ecco il trentennio del complotto, se prendiamo come punto di riferimento il 1992 come anno della strage di via D’Amelio e il 2022 con le ultime rivelazioni del magistrato Luca Palamara, che non è innocente in questa storia, come lui stesso racconta.
Sono numerosi i passaggi attraverso i quali il bluff Scarantino avrebbe potuto essere disvelato. Si sarebbe potuto fare giustizia. Non solo individuando gli autori del delitto, ma anche il movente. Si è voluto perdere tempo e sviare l’attenzione. Il che significa depistare. Facciamo finta per un attimo di essere noi i pubblici ministeri e mettiamo insieme i capi d’accusa. Primo: le torture nel carcere di Pianosa (e Asinara), che non hanno riguardato solo Scarantino, ma una serie di detenuti trasferiti d’improvviso di notte da tutte le prigioni del sud. Segnale forte di governi deboli nella lotta alla mafia, con i boss che ordinavano le stragi dalla latitanza.
Le denunce di quel che avveniva in quelle prigioni speciali riaperte per l’occasione erano state oggetto di interrogazioni parlamentari, di proteste degli avvocati e dei parenti dei detenuti, diventati il bersaglio di una vendetta dello Stato che non riusciva a trovare e punire i colpevoli. La moglie di Scarantino aveva reso pubblica una lettera con accuse precise nei confronti del questore di Palermo Arnaldo La Barbera, denunciando la costruzione del “pentitificio” attraverso le torture. E il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli si era presentato in conferenza stampa, con al fianco il procuratore generale e il questore, per scagionare La Barbera e confermare l’attendibilità di Scarantino.
Punto secondo: fin dal 1994 era agli atti una relazione dei pubblici ministeri Ilda Boccassini e Roberto Saieva al procuratore capo di Caltanissetta Tinebra in cui documentavano l’inattendibilità del collaboratore di giustizia. Lo avevano messo alle strette sulle sue deposizioni e avevano capito che, nel riferire di fatti e persone, straparlava di soggetti che neanche conosceva. Boccassini, che era stata applicata da Milano nella città nissena nel 1992 in seguito all’uccisione di Giovanni Falcone e nel 1994 era in partenza per tornare nella sua città, ma si era detta disponibile a rinunciare alle ferie per poter continuare a interrogare Scarantino.
Niente da fare. Così, con il collega, aveva lasciato la sua relazione. Che però è sparita. E ovviamente non è stata mai messa a disposizione dei giudici degli undici processi che si sono occupati della morte di Paolo Borsellino. La sua testimonianza verrà utilizzata solo una quindicina di anni dopo, al Borsellino-quater, quando l’imbroglio verrà svelato.
Ma l’anno scorso quando è stata chiamata anche al processo contro i tre agenti accusati del depistaggio, non solo ha raccontato che il procuratore Tinebra si chiudeva per ore in una stanza con Scarantino prima di ogni sua deposizione, ma si è riscontrata violentemente con il pm di udienza che non voleva fosse lasciata parlare.
A proposito di atti spariti, arriviamo al punto terzo, sulla base del quale il castello delle dichiarazioni di Enzino sarebbe crollato, se qualcuno avesse voluto indagare secondo le regole. Il 13 gennaio del 1995 c’era stato il confronto tra il finto pentito e tre collaboratori doc, Gioacchino La Barbera, Totò Cancemi e Santino Di Matteo.
Le deposizioni erano state registrate in 19 bobine. Un confronto importante, nella fase precedente al primo processo Borsellino, la cui sentenza è datata a un anno dopo, nel gennaio del 1996. Da quei verbali, come già dalla relazione dei pm Boccassini e Saieva, emergeva il fatto che, messo davanti a tre boss di un certo rilievo, Scarantino era in seria difficoltà, perché neppure lo conoscevano. Era caduto continuamente in contraddizione, non sapeva neppure dove fosse quella via D’Amelio in cui diceva di aver portato l’auto imbottita di tritolo. Bene, anche quei verbali erano spariti, e all’avvocato Rosalba Di Gregorio, che difendeva alcuni imputati accusati ingiustamente, che ne chiedeva copia, i procuratori di Palermo e Caltanissetta rispondevano con un assurdo ping-pong rimbalzandone la custodia e la responsabilità l’un l’altro. Solo al Borsellino-ter le carte sono ricomparse, quando forse era tardi.
Quindi: le torture che hanno creato il “pentito”, la relazione sparita dei pm come Boccassini e Saieva che avevano denunciato l’imbroglio, il confronto con tre boss che l’avevano smascherato. Tutto questo dimostra che fin dal 1994-95 le indagini avrebbero potuto prendere un’altra strada. E avremmo potuto mettere insieme già un bel numero di nomi di magistrati, Tinebra, Lo Forte, Petralia, Palma, Di Matteo, Caselli, quelli che hanno voluto credere al fatto che per uccidere Borsellino fosse sufficiente assoldare un piccolo spacciatore del quartiere della Guadagna di Palermo. E che questa testimonianza, ottenuta con le torture, bastasse a costruire processi, a mostrare all’opinione pubblica la verità sulla strage di via D’Amelio. Del resto hanno avuto ragione. E ai loro nomi occorre aggiungere tutti quelli di pm e pg e giudici togati e popolari che hanno seguito lo stesso percorso. Fino al Borsellino-quater e la deposizione di Gaspare Spatuzza.
Possiamo tralasciare il fatto che lo stesso Scarantino, da un certo momento in avanti, cominciò a ritrattare e a raccontare chi gli dava i suggerimenti alla vigilia di ogni interrogatorio. Perché nel frattempo dei pm che gestirono le deposizioni di Scarantino e che sono stati indagati per i depistaggi, Petralia e Palma hanno avuto la soddisfazione di veder archiviata la propria posizione, mentre Di Matteo è rimasto sempre solo testimone.
Era giovane, si sa. Ma l’assassinio di mio padre era così poco importante da esser affidato a un pm ragazzino, si è domandata Fiammetta, l’indomita figlia del magistrato assassinato.
È grazie alle iniziative sue e di sua sorella Lucia, che apprendiamo l’ultimo passaggio del Complotto di Stato, che coinvolge quello che fu un vertice della magistratura, il procuratore generale Riccardo Fuzio, poi costretto alle dimissioni in seguito alla vicenda Palamara e la riunione all’hotel Champagne.
Nel 2018 le due sorelle avevano inviato all’alto magistrato tutta la documentazione (quel che abbiamo finora raccontato e magari molto altro), nella speranza che esercitasse il suo potere di iniziativa disciplinare.
Che cosa ha fatto l’impavido magistrato? Prima il nulla, per un intero anno, e poi il peggio, con una lettera ipocrita, mentre aveva già un piede fuori dal palazzo. Avrei voluto (ma ahimé ora non posso più) parlarne all’inaugurazione dell’anno giudiziario, scrive. E loro gli rispondono no grazie, non di celebrazioni ha bisogno la memoria di nostro padre, ma di assunzioni di responsabilità.
E del resto, che cosa ha fatto il Csm nel 2017, quando lo imponeva la vergogna di quel che era emerso nel processo Borsellino-quater con la sua verità? Ammuina, racconta con un po’ di vergogna Luca Palamara nel libro. Perché? Perché aleggiava il nome di Di Matteo. Che era ed è molto potente. Ecco come vanno le cose, da trent’anni a questa parte.
Ecco perché, tutto sommato, temiamo che non cambierà mai niente anche se, oltre al dito, ora noi, ma anche l’attuale Csm o il Pg in carica, abbiamo guardato anche la luna. Cioè il Complotto di Stato.
Tiziana Maiolo IL RIFORMISTA 10 febbraio 2021