COSÌ UCCIDEMMO IL GIUDICE FALCONE, MA DIETRO LE STRAGI NON C’È SOLO MAFIA” Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l’esplosione: “Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi” “Sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un’enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri…”. Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L’ex uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. “Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar Johnnie Walker… Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari… Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera… amuninni a mangiari ‘na pizza”.
L’ORDINE PER CAPACI ARRIVA DIRETTAMENTE DAL CAPO DEI CAPI TOTÒ RIINAGiovanni Brusca riceve l’incarico direttamente da Salvatore Riina e racconta: «Ci trovavamo a casa di Girolamo Guddo. Era fine febbraio, marzo… Io ero andato là per altri fatti, in quella occasione mi disse che loro già stavano progettando, lavorando per l’attentato al giudice Giovanni Falcone…» Il ruolo rivestito dall’imputato all’interno di Cosa Nostra fa si che lo stesso sia stato coinvolto sia nella fase esecutiva che in quella “ideativa” della strage, per cui l’analisi che qui si compie prescinderà naturalmente da quest’ultimo momento tranne che per l’input iniziale, che si era concretizzato nell’incarico ricevuto dall’imputato da parte di Salvatore Riina, che lo aveva interpellato per il reperimento dell’esplosivo e di quant’altro potesse servire per la realizzazione dell’attentato: «Ci trovavamo a casa di GUDDO GIROLAMO dietro la casa del sole, VILLA SERENA, (la casa di via Margi Faraci 40 in Palermo di cui si è trattato nel corso della deposizione del teste DI Caprio)…A mia conoscenza in quell’occasione c’era GANCI RAFFAELE, CANCEMI SALVATORE, RIINA SALVATORE, BIONDINO SALVATORE e io, per la prima occasione. Era Marzo, fine febbraio, marzo. Io ero andato là per altri fatti, in quella occasione mi disse che loro già stavano progettando, lavorando per l’attentato al giudice FALCONE GIOVANNI, infatti mi hanno dato la velocità che, il giudice FALCONE me lo hanno dato loro RIINA SALVATORE mi chiese se c’era la possibilità di potere trovare tritolo e se c’era la possibilità di potere trovare il telecomando e se ero disposto a dargli una mano d’aiuto. A questa richiesta io sono subito, mi sono messo a disposizione e ho cominciato a partecipare attivamente all’attentato…Cioè che mi hanno spiegato cosa loro avevano già fatto. Cioè quel gruppo, GANCI RAFFAELE, CANCEMI SALVATORE, BIONDINO e RIINA già avevano stabilito il luogo, avevano individuato la velocità del dottor FALCONE che faceva, io lo apprendo da loro… Ma non so se fu GANCI RAFFAELE o BIONDINO SALVATORE, non è che l’ho controllata io, già l’ho trovata controllata, cioè stabilita…il luogo che avevano individuato per commettere l’attentato era quello dove è avvenuto da PUNTA RAISI venendo verso PALERMO, 400, 500, 600 metri prima e precisamente sotto sottopassaggio pedonale che poi dall’autostrada era ricoperto da una rete di, rete metallica, cioè rete di protezione…».
GIOVANNI BRUSCA IN AZIONE Successivamente l’imputato ha fatto riferimento ad un altro luogo ancora ove si sarebbe dovuta collocare la carica esplosiva, di cui egli aveva appreso notizia sempre nel corso di queste riunioni preliminari svoltesi in presenza di Salvatore Riina, ma questo primo luogo non era stato preso in considerazione neanche per un eventuale sopralluogo di verifica della sua conformità rispetto al piano da realizzare: «Quando c’è stata la riunione dove io sono stato convocato nel mese di marzo, così vagamente si parlava, per dire, in base a quello che mi aveva detto BIONDINO, GANCI o CANCEMI o RIINA, credo fu nell’occasione credo che c’era pure RAMPULLA però non sono sicuro, si parlava di tante ipotesi e si era pensato pure di metterlo pure all’entrata, cioè, all’uscita dell’aeroporto, cioè nella curva quando lui si immetteva per l’autostrada e troviamo un cassonetto, ma era solo così discorsi, ipotesi, non cento per cento. Quelli concreti sono quelli che ha individuato il BIONDINO e poi quello dove è stato utilizzato».
A livello operativo, la prima cosa che Brusca aveva fatto era stato è di proporre al Riina la figura di Pietro Rampulla, che già conosceva per i suoi contatti con le “famiglie” mafiose catanesi e che infatti era riuscito a rintracciare tramite Aiello e Galea, (“GALEA EUGENIO e AIELLO ENZO venivano settimanalmente, ogni quindici giorni, settimanalmente, ogni otto giorni a Palermo per portare messaggi da Catania per problemi di “cosa nostra” e poi perché anche noi avevamo un’amicizia vecchia e tramite costui ho mandato a chiamare RAMPULLA PIETRO..»), avendo appreso da costoro che si trattava di persona esperta nel campo degli esplosivi e dei telecomandi: «…RAMPULLA PIETRO è persona esperta in materia e vediamo se lui ci può dare una mano” dissi a Riina, anche se io già qualcosa la sapevo per l’esperienza avuta della strage del dottor CHINNICI però per essere più sicuro mi prendo la collaborazione di RAMPULLA PIETRO, uomo d’onore della famiglia delle MADONIE, non mi ricordo il suo paese di origine. Al che Riina mi disse: “Va bene”, siccome lui credo che lo conosceva mi dà l’okay. Cerco RAMPULLA PIETRO, gli chiedo la cortesia dei telecomandi, RAMPULLA PIETRO è quello che trova i telecomandi, li porta ad ALTOFONTE e ad ALTOFONTE poi là cominciamo tutta una serie di attività per portare a termine il fatto». Ricevuto quindi il benestare da Salvatore Riina in ordine all’impiego del Rampulla, che Brusca aveva condotto dal capo («…l’ho portato da RIINA SALVATORE,.. ci siamo incontrati a casa di GUDDO GIROLAMO dietro VILLA SERENA …saranno passati otto, quindici, venti giorni dal primo incontro non è che, comunque nei primi di aprile, fine marzo, a questo periodo…nel corso di questo ulteriore incontro, diciamo avvenne di metterci in atto per cominciare a lavorare per portare a termine il lavoro dell’attentato al giudice FALCONE…E c’era BIONDINO, GANCI RAFFAELE, CANCEMI, io e credo che non c’era più nessuno oltre RIINA e RAMPULLA…»), ecco che Rampulla era comparso ad Altofonte portando con sè dei telecomandi, che secondo l’imputato, avrebbe trasportato nascosti sotto la paglia riposta in un camioncino, usato per il trasporto di un cavallo di cui gli aveva fatto grazioso dono. A tale consegna avrebbe assistito anche Di Matteo. Ha confermato quindi Brusca il verificarsi degli incontri nella casa di campagna di quest’ultimo, in contrada Rebottone, nei quali si era discusso della progettazione dell’attentato, incontri ai quali aveva partecipato con assiduità. Brusca ha ammesso di aver dato incarico a Giuseppe Agrigento di portare l’esplosivo a casa di Di Matteo, e che ciò si era verificato nel mese di marzo, dopo l’incontro di presentazione fra Rampulla e Riina, precisando che lo aveva mandato a prelevarlo da un suo parente, tale Piedescalzi che lavorava in una cava, la “Inco”, da cui la sua “famiglia” mafiosa si era in passato rifornita per approvvigionarsi di esplosivo per altri attentati. […] Quanto al congegno, Brusca ha confermato che la trasmittente era già pronta e che la sola cosa che fecero fu bloccare del tutto una leva e assicurarsi che l’altra potesse andare solo verso destra; quanto alla ricevente ha ammesso che fu costruita da loro, descrivendola come una scatoletta di legno larga 10 cm, alta 7,8, 10 cm, da cui fuoriusciva un filo di plastica che fungeva da antenna, in cui avevano montato le batterie con un chiodo che aveva determinato il contatto fra polo positivo e negativo: «La ricevente l’abbiamo completata dai pezzi per completare, cioè per, quelli che vanno usati per l’aereo modellismo… era una scatoletta di legno larga quindici, venti centimetri, lunga quindici venti centimetri, larga 10 centimetri, comunque non mi ricordo… alta 7, 8, 10 centimetri e dentro questa scatoletta abbiamo montato il motorino, le batterie, il servo e poi l’abbiamo modificata con, mettendo un chiodo il contatto che avveniva tra negativo e positivo. Nella ricevente c’era un’antenna di plastica, cioè un filo, un piccolo filo».
PROVE PER L’ESPLOSIONE Per quanto riguarda i detonatori, Brusca li ha descritti come oggetti lunghi 7 o 8 cm, con due fili che fuoriuscivano da un’estremità e che poi andavano collegati alla ricevente: ha raccontato che avevano provato a lanciarne uno fuori dalla casa nel giardino e avevano accertato che esplodeva: […] Prima di spostarsi da C.da Rebottone avevano fatto diverse altre prove: innanzitutto tramite Gioè o La Barbera, si era fatto dare da Salvatore Biondino 5 kg di esplosivo, che La Barbera avrebbe collocato in un tubo che era stato sotterrato nel giardino della casa, e che era stato collegato al telecomando. In effetti l’esplosione si era verificata all’invio del segnale, costringendo i presenti (La Barbera, Bagarella, Gioè e Rampulla che azionò il telecomando) a ripararsi a circa un centinaio di metri di distanza: […]. Inoltre l’imputato ha collocato anche in questa fase prove di velocità che gli altri collaboratori invece hanno inserito esclusivamente durante il soggiorno a Capaci: quelle di cui ha parlato Brusca si sarebbero svolte lungo la strada che collega la casa di C.da Rebottone alla strada provinciale, utilizzando la Lancia Delta bianca di Di Matteo. L’espediente usato per saggiare l’efficacia del congegno era stato anche in questo caso costituito dal ricorso all’uso delle lampadine flash, che erano state collegate al filo della ricevente e che si bruciavano ogni qualvolta veniva inviato il segnale con la trasmittente. La dislocazione dei soggetti interessati da queste prove, che si erano ripetute per 3-4-5 volte, prevedeva Rampulla al telecomando, Gioè addetto al controllo della lampadina, La Barbera posizionato sulla sommità del monte, lui e Di Matteo si alternavano alla guida della macchina: “…Al posto dell’esplosivo noi adoperavamo del flash, quelli veri, cioè la prima serie, quelli che si infilavano di sopra alla vecchia macchina fotografica, che si poteva sfilare dove uscivano due filini per poterli ricollocare al detonatore elettrico, quindi in maniera quando noi facevamo il contatto con il telecomando alla ricevente, cioè non esplodesse ma bensì bruciasse la lampadina. Quindi, RAMPULLA, io messo, RAMPULLA al telecomando quando passava la macchina per vedere quando esplodeva, GIOE’ nella lampadina, LA BARBERA messo a monte, non mi ricordo per quale motivo, e ci alternavamo io e DI MATTEO nel guidare la macchina perchè abbiamo fatto tre, quattro, cinque prove”. L’imputato ha collocato altresì nella fase Rebottone altro tipo di prova, quella relativa alla verifica dei luoghi ove la carica andava posizionata: […] L’abbandono del primo luogo trova spiegazione nel fatto che secondo BIONDINO SALVATORE …”c’era la possibilità di non una buona riuscita se si doveva fare dove era stato prestabilito perché ci voleva molto materiale…” quindi – ha aggiunto Brusca – la ricerca si era indirizzata verso altri luoghi. Dopo alcuni giorni Biondino gli aveva fatto sapere di aver trovato un altro posto perfetto e gli aveva descritto le caratteristiche di un cunicolo che evidentemente era stato localizzato lungo l’autostrada nel tragitto che il giudice avrebbe percorso dall’aeroporto alla città. Per verificare la rispondenza del luogo prescelto alle esigenze del progetto deliberato dagli agenti Brusca aveva deciso, durante la permanenza in C. da Rebottone, di chiedere consiglio ad un suo parente, che, per l’attività svolta, poteva fornirgli un parere qualificato in ordine alle modalità con cui procedere e alla efficacia della soluzione trovata, che nella sostanza si incentrava nell’imbottimento di esplosivo di un condotto autostradale: […]. Nel corso di tale opere di verifica della funzionalità del congegno era andata perduto un telecomando: […]. Esauriti tutti questi adempimenti si era passati, secondo Brusca, al trasporto dell’esplosivo a Capaci, dove erano stati portati anche la trasmittente, la ricevente e i detonatori: l’esplosivo, come già detto, si trovava a casa di Pietro Romeo, e lì erano andati a prenderlo La Barbera e Di Matteo, per riportarlo ad Altofonte da dove nel primo pomeriggio erano partiti alla volta di Isola delle Femmine: «L’esplosivo si trovava a casa di ROMEO PIERO, da ROMEO PIERO ci è andato LA BARBERA GIOACCHINO e DI MATTEO SANTINO, prendendo per una strada secondaria dal paese sono andati a finire nella casa del DI MATTEO, arrivando a casa del DI MATTEO, c’ero io, c’era GIOE’, c’era LA BARBERA, c’era DI MATTEO, c’era BAGARELLA e Rampulla eravamo ad ALTOFONTE a CONTRADA PIANO MAGLIO». […] Oltre alle persone menzionate erano presenti Antonino Gioè e Leoluca Bagarella: i fustini erano stari collocati sulla Patrol Jeep di La Barbera, sulla quale aveva preso posto anche lui; Di Matteo era con la sua Lancia Delta con Rampulla o Bagarella, Gioè era invece a bordo della sua auto. Allo svincolo di Isola delle Femmine erano ad aspettarli Biondino e Biondo, che li avevano portati in un villino nella disponibilità di Troia, ( «…Era un abitazione, un casa estiva, cioè casa di campagna non glielo so dire, comunque una casa villino nella disponibilità di TROIA MARIO, cioè del TROIA»…) dove avevano trovato Salvatore Cancemi, Ganci Raffaele e suo figlio Domenico, Battaglia, Ferrante. […] Brusca aveva avuto modo di notare che nella casa c’era già dell’altro esplosivo: «…Là abbiamo trovato altro esplosivo, 130, 140, 150 chili, sarebbe un materiale polveroso tipo farina di colore giallino…l’esplosivo, il famoso SENTEX che era sul posto era se non ricordo male in sacchetti di stoffa che poi abbiamo travasato…quello che abbiamo portato noi è materiale da cava, non so se è esplosivo, come si chiama o come non si chiama, è materiale proveniente da cava, quello che è non lo so, il colore è bianco». Ha rilevato infine, sia ad Altofonte che a Capaci, che durante il maneggio dell’esplosivo da loro procurato si sollevava polvere e che aveva avvertito, in tale frangente, un odore particolare: «… Semplicemente faceva un po’ di polvere, ma a me non mi ha creato nessun particolare, però un odore un po’ particolare e un po’ di polvere c’era…». Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
IL PRIMO LAVORO ERA QUELLO DI RIUSCIRE A ENTRARE NEL CUNICOLO E VEDERE COM’ERA FATTO. Io ero un po stanco per tutto ciò che avevo fatto poco prima. Nel momento in cui provai a infilarmi nel cunicolo sentii un po d’affanno, mi mancò l’aria. E pensai: <>. La stessa cosa accadde a La Barbera. Nel frattempo arrivò Gioè, più riposato, più fresco. E disse: <>. Entrò al buio, tranquillo. Si infilò nel cunicolo e gridò: <>. Ci eravamo procurati uno skateboard, quello che usano i ragazzini per giocare. Pensavamo di metterci i fustini sopra e di trasportarli in posizione orizzontale. All’inizio, abbiamo fatto una vita da cani. Prima entravamo con le mani davanti e i piedi che restavano fuori, spingendo i fustini uno a uno. Dentro il cunicolo c’era un tubo da un pollice che usavamo come guida e che ci consentì di individuare il punto esatto dove collocare l’ultimo fustino a metà dell’autostrada. Entravamo a turno, io, Gioè, La Barbera. Bagarella e Battaglia, in quella fase, ci coprivano le spalle. Mentre noi lavoravamo, loro, armati, si guardavano intorno. Tant’è vero che arrivò una pattuglia dei carabinieri, ma erano due poveretti che forse erano andati a fare pipì. Scesero, si fermarono, fecero quello che dovevano fare e se ne andarono senza vederci perché in quella zona ci sono alberi e cespugli e noi ci eravamo nascosti in tempo. Hanno rischiato di essere uccisi, e l’attentato sarebbe saltato. Continuammo il nostro lavoro. Avevamo piazzato solo tre fustini e con difficoltà enormi. Con le mani in avanti e la faccia a terra. Per non lasciare impronte, calzavamo guanti da muratore, quelli di cuoio. Fu a questo punto che mi venne un’idea. Dissi a Gioè:<<Perché non ci mettiamo con la pancia sopra lo skateboard? Mettiamoci al contrario: con i piedi all’interno e spingiamo i fustini con i piedi, con la testa verso l’uscita. Tanto il primo fustino che ci fa da segnale c’è già. Ci leghiamo una corda al torace. Basta strattonarla e tu capisci che è il momento di tirarmi fuori>>. E così abbiamo fatto. Appena arrivavamo in fondo, ci fermavamo e quello che era fuori tirava senza fare fatica e ci faceva uscire. Con i primi tre fustini avevamo impiegato un tempo infinito e con sforzi non indifferenti. Con gli altri, in un’oretta e mezzo, ci eravamo sbrigati. Infatti avevamo già posizionato il fustino più grosso con il detonatore dentro. Per evitare di rompere il filo del detonatore lo passammo sotto il tubo, in modo che non venisse danneggiato. Il filo attraversava i fusti, dal detonatore all’uscita. Infine sistemammo altri fusti. Il cunicolo non lo chiudemmo. Mettemmo solo un po di erbacce. Non l’abbiamo murato perché avremmo suscitato sospetti. Poi c’era Troia che, abitando a Capaci, poteva controllarlo giornalmente. Fra l’altro, l’ultimo tratto del cunicolo era libero e quindi dall’esterno non si vedeva niente. Lì vicino c’erano dei materassi che servivano da punto di riferimento. (Dal libro di Saverio Lodato -HO UCCISO GIOVANNI FALCONE- La confessione di Giovanni Brusca)
L’attentato è imminente, i mafiosi si riuniscono e caricano l’esplosivo Giovanni Brusca racconta: «… là ho trovato, non so se 130, 140, 150 chili di quello famoso..il famoso Sentex, che era sul posto, se non ricordo male in sacchetti di stoffa… Chi li ha portati a Capaci non lo so dire…». Deve porsi come punto di partenza il tassello ormai svelato, (l’unico finora noto, non essendosi ancora trattato dell’attività posta in essere dal gruppo degli operatori concentratasi in città), avente ad oggetto l’arrivo nella casa di Troia, a Capaci, dell’esplosivo portato da Altofonte da Brusca, Gioè, Bagarella, La Barbera, Rampulla e Di Matteo. Comincia quindi così la fase Capaci, in relazione alla quale si era concretizzato l’interscambio di cui si è fatto cenno poc’anzi, poiché, come si vedrà, vi erano confluiti, sia pure con ruoli meno preponderanti, anche imputati già occupati a Palermo nella realizzazione di altri preparativi dell’attentato. Il primo impegno che aveva occupato nella sostanza tutti gli operatori, durante il soggiorno a Capaci, era stato quello relativo al travaso degli esplosivi negli alloggiamenti che avrebbero poi costituito e composto la carica. Premesso che per quanto riguarda l’apporto di Di Matteo se ne deve segnalare l’irrilevanza, posto che egli aveva abbandonato il gruppo appena terminato il trasbordo dell’esplosivo dalla Nissan Patrol alla casa, per tornarsene indietro ad Altofonte, si esaminano ora le dichiarazioni di Brusca, La Barbera, Ferrante e Cancemi.
IL RACCONTO DI BRUSCA L’attività di travaso secondo l’imputato si era snodata attraverso varie fasi, che erano andate dal primo tentativo di miscelare i due diversi tipi di esplosivo di cui gli operatori avevano la disponibilità, all’abbandono dell’originario disegno per proseguire poi con il riempimento dei bidoncini, ciascuno con un tipo di esplosivo diverso: «..Quando abbiamo fatto quella mini prova lo abbiamo riversato un pochettino sul telo, cioè per fare quella prova di miscuglio e poi abbiamo continuato sempre sul telo, cioè messo a terra che poi è stato bruciato ….». Quanto poi alle caratteristiche dell’altro tipo di esplosivo, quello cioè trovato da Brusca nella casa di Troia, oltre alle indicazioni già riferite in precedenza, l’imputato ha descritto anche il tipo di involucro nel quale era stata riposta l’altra polvere, che lui qualifica “sintiax”, riferendosi al sentex probabilmente, attribuendone la paternità a Salvatore Biondino: «E allora arrivando là, quelle persone che c’eravamo, che ho elencato poco fa’, là ho trovato, non so se 130, 140, 150 chili in quello famoso, non so se si chiama, non vorrei sbagliare per quello che poi vengono fuori dalle perizie, il famoso SINTIAX che sarebbe un materiale polveroso tipo farina di colore giallino, …l’esplosivo, il famoso SENTEX che era sul posto era se non ricordo male in sacchetti di stoffa, non sacchi grandi, sacchetti, piccoli sacchetti e di colore nocciola… non mi ricordo se erano chiusi, cioè con il solito laccio, credo sempre con il solito laccio normale, cioè per chiudere un sacco, un laccio attaccato al collo e attaccato, cioè alla punta per sigillarlo… Chi li ha portati a CAPACI non glielo so dire, li ho trovati lì, so che la disponibilità era di BIONDO, però chi gliel’ha dati, chi non gliel’ha dato non glielo so dire anzi BIONDINO, cioè mi riferisco quello che è stato arrestato assieme a RIINA SALVATORE». […] Quanto ai componenti del suo gruppo di lavoro, Brusca ha indicato con certezza La Barbera, Cancemi e Gioè, mentre ha mostrato dubbi sulla presenza di Biondino. Per gli altri presenti, oltre quelli già riferiti in precedenza, ha precisato che «… Non potevo controllare tutti, GANCI MIMMO, GANCI RAFFAELE e forse o FERRANTE o BIONDINO uno dei due non ha partecipato perché già eravamo in tanti quindi credo questi qua non abbiano partecipato al travaso ma erano lì presenti, cioè ci guardavano, tutti gli altri lavoravamo per fare il travaso». Con riferimento al tipo di materiale da lui travasato l’imputato ha mostrato una relativa sicurezza, identificandolo in quello che proveniva da Altofonte, riuscendo probabilmente ad esprimere tale valutazione tramite il ricordo della operazione meccanica effettuata per riempire i bidoncini, svolta attraverso l’ausilio di una brocca con la quale prelevava il materiale dal “fusto grosso” per metterlo in quello piccolo; tale ricostruzione sembra però essere in contraddizione con quanto riferito immediatamente prima dall’imputato, quando ha affermato che lui riempiva e gli altri tenevano i fustini, perchè ciò farebbe presupporre, salvo imprecisioni espressive, che i fustini che tenevano gli altri erano quelli di stoffa e non i bidoni che, in quanto costituiti da materiale rigido, non necessitavano di essere sostenuti. In totale, secondo l’imputato erano stati riempiti 13 bidoncini da circa 25 chili ciascuno, uno dei quali era più capiente rispetto agli altri, che sarebbe stato collocato a metà della carica; anche per il recupero di tali recipienti Brusca fa riferimento al gruppo facente capo a Salvatore Biondino: «…L’esplosivo l’abbiamo travasato in dodici bidoncini da venticinque litri ciascuno, e uno credo che fosse o da trenta o da ventotto, comunque un pochettino più, di caratteristiche un pochettino più grande o perché era più stretto e più lungo, comunque uno un po’ diverso, stesso colore, tutti bianchi, tutti con i manici e tutti con i tappi a vite…Chi è andato a comprarli, è andato a comprare bidoncini di venticinque litri per essere manovrabili, cioè poterli manovrare con molta facilità anche nel trasporto… sono stati procurati sempre dalla parte della famiglia di SAN LORENZO, cioè dal BIONDINO, poi se l’ha comprato BIONDO, se l’ha comprato FERRANTE, noi allora gli abbiamo chiesto questo tipo di bidoncini e l’impegno di portare questi bidoncini se lo sono preso loro». Gli operatori avevamo, a suo dire, dei guanti da chirurgo, delle brocche o palette per potere prendere materiale dal fustino e riversarlo a un altro o versavano i sacchetti direttamente nel fustino: «Poi c’è chi adoperava una cosa e c’è chi ne adoperava un’altra ma in particolar modo i guanti quasi li abbiamo adoperati tutti, i guanti da chirurgo». Il lavoro svolto impegnò gli operatori per circa un’ora o un’ora e mezza. Tutto quanto era stato adoperato per il travaso, la tenda, la scopa, e tutto il resto fu bruciato da Battaglia Giovanni. I tredici bidoncini, il telecomando e la ricevente erano rimasti in possesso delle persone del luogo, e Brusca era tornato quindi indietro ad Altofonte solo con le armi. Come collocazione temporale dell’episodio descritto, l’imputato indica approssimativamente il mese di aprile, anzi la metà aprile, identificando poi anche con quale tipo di successione temporale si susseguiranno i restanti accadimenti, e cioè, prima il travaso, poi le prove e in ultimo il collocamento della carica nel cunicolo. Tale caricamento era stato effettuato per ultimo secondo Brusca: «…per non avvicinare più al cunicolo, infatti lo abbiamo fatto appositamente di notte per non essere osservati da nessuno». Il cunicolo aveva costituito oggetto di ispezione degli operatori appena ultimata l’operazione di travaso: trattavasi del condotto di cui Brusca aveva chiesto notizie al cugino Piediscalzi in ordine agli effetti di un’eventuale esplosione a seguito dell’imbottimento con sostanze esplosive: «… Avendo fatto tutta l’operazione di travaso, ci siamo dati appuntamento per l’indomani mattina. Arrivando all’indomani mattina per cominciare a fare le prove e cosa fare, la prima cosa che abbiamo fatto io, BIONDINO, TROIA e RAMPULLA e non so se GIOE’ o LA BARBERA o tutti e due o uno solo, siamo andati a verificare il cunicolo e appena lo abbiamo visto abbiamo detto perfetto, troppo bello, cioè dalla descrizione poi avendolo visto sul sopralluogo abbiamo detto che era perfetto».
I RICORDI DI LA BARBERA Anche per quest’imputato il resoconto delle dichiarazioni in ordine alla fase del travaso dell’esplosivo comincia con i momenti immediatamente successivi all’arrivo del suo gruppo nella casa di Troia a Capaci. Le operazioni avevano avuto inizio subito dopo il trasbordo ed era, secondo La Barbera, di mattina, avendo essi impiegato tutta la mattinata per completare l’operazione. Di tale circostanza egli ha riconosciuto però di non avere un ricordo preciso. […] E’ proprio sulla veranda che l’imputato aveva incontrato per la prima volta dall’inizio dei preparativi per la strage il gruppo dei palermitani, presenti nell’occasione quasi a sottolineare l’importanza del momento che doveva quindi necessariamente veder presenti tutte le persone più importanti coinvolte nell’esecuzione. «Ci siamo recati dentro l’abitazione e sulla veranda ho trovato per la prima volta ho visto a CANCEMI SALVATORE, e c’era BATTAGLIA GIOVANNI, c’era BIONDINO SALVATORE, c’era GANCI RAFFAELE il padre, e uno dei figli che non so se è MIMMO o è l’altro. E poi della nostra squadra c’ero io, GIOE’, BRUSCA, DI MATTEO MARIO SANTO, e RAMPULLA PIETRO, e BAGARELLA che non l’ho detto. …SALVATORE BIONDINO c’era pure…. Non avevo mai visto BATTAGLIA GIOVANNI e BIONDINO SALVATORE prima di allora. BIONDO SALVATORE era pure presente quella mattina, si, che io conoscevo come SALVATORE, l’ho conosciuto proprio quella mattina, non lo avevo visto mai, e anche FERRANTE GIOVANNI…. L’ho conosciuto lì la prima volta». Al trasbordo dell’esplosivo, portato dalla Nissan Patrol sulla veranda, parteciparono un po’ tutti i presenti; subito dopo si differenziano i movimenti degli operatori che si dividono in due gruppi e cominciano a travasare l’esplosivo di cui disponevano usando dei guanti di plastica, tipo quelli da chirurgo, color panna. L’imputato si è collocato insieme ai compagni di Altofonte sulla veranda e ha provveduto, insieme a loro, al travaso dell’esplosivo da loro trasportato che era stato adagiato su un telo prima di essere riposto nei bidoncini trovati sempre sul luogo. E’ questo il momento che ha consentito all’imputato di vedere i due diversi tipi di esplosivo dei quali in quell’occasione si trovava a disporre, e di poter procedere quindi alla comparazione fra gli stessi sia per quanto riguardava le caratteristiche morfologiche che per la quantità: «L’esplosivo che abbiamo portato noi da ALTOFONTE lo abbiamo situato su un telo sulla veranda, mentre l’altro che già si trovava nel posto era all’interno della casa dove c’era una specie di cucina-salotto, e l’ho visto che anche là hanno fatto il travaso a terra. Sulla veranda abbiamo travasato quello che noi abbiamo trasportato da ALTOFONTE, il tipo di esplosivo era un pochettino granuloso, tipo concime, tipo sale quello che si usa per l’agricoltura. Mentre quell’altro che ho trovato all’interno dell’abitazione era diverso dal nostro; l’esplosivo che ho notato all’interno della casa era molto più farinoso rispetto a quello che abbiamo portato noi da ALTOFONTE…. perché mi ricordo che un momento che sono entrato dentro mentre stavamo mettendolo nel bidoncino, ho visto che rimaneva la forma della mano pressando sui bidoncini, era poi più scuro del nostro, era quasi color, che posso dire, era quasi bianco che da sul bianco sporco». […] Quanto alla questione della composizione dei due gruppi, vero è che l’imputato ha riferito la formazione di entrambi, ma a tale indicazione ha aggiunto anche una precisazione, che inerisce il fatto che vi erano appartenenti all’uno o all’altro gruppo, che durante le operazioni trasmigravano da un capannello all’altro, lasciando presupporre quindi una composizione non rigida ma fluida degli stessi. «… Io sono rimasto accanto alle persone che siamo rimasti sulla veranda… Sulla veranda eravamo io, GIOE’, BRUSCA, BAGARELLA, e DI MATTEO MARIO SANTO. E dentro, invece, si interessavano il resto delle persone, qualcuno si alternava dentro e fuori…Cancemi faceva parte di quella squadra dentro che era, era in piena attività, nel senso che ho visto proprio lui che indossava anche lui i guanti da chirurgo e si premurava a fare il travaso… Comunque, quelli di Altofonte ci siamo dedicati al travaso all’esterno della casa sulla veranda, e le persone che già erano sul posto si sono dedicati al travaso all’interno della casa…». I bidoncini usati avevano, a giudizio dell’imputato, la capacità di circa 25 chili ed erano in numero di tredici, fra i quali uno solo aveva dimensioni superiori rispetto agli altri. Li descrive come bidoni della stessa tipologia di quelli usati ad Altofonte, stesso tipo di plastica e tappo, che era anch’esso molto grande con chiusura ermetica, perchè all’interno c’era una guarnizione in gomma che chiudeva i bidoncini con chiusura a vite. Rispetto ai primi si differenziavano soltanto per la diversa capacità, essendo quelli utilizzati per il trasporto molto più grandi, intorno ai 50 litri, (o 50 chilogrammi) circa, mentre gli altri da mettere giù dentro il cunicolo erano sui 20-25 litri: […]. Quanto al numero di contenitori riempiti dal suo gruppo ha riferito che erano stati sei, mentre invece gli altri, nella stanza interna, ne avrebbero riempiti sette. […].
IL DETONATORE NEL BIDONE PIÙ GRANDE Uno degli aspetti più interessanti del racconto dell’imputato, in relazione alla descrizione dei contenitori, si incentra su quello che fra di essi era più grande, quello nella sostanza che doveva aver come capacità circa 30 litri, perchè fu proprio su tale bidone che verrà inserito il detonatore da collegare al filo che usciva dalla ricevente: per compiere tale operazione Pietro Rampulla durante la fase del travaso aveva bucato il bidone per far in modo che il filo del detonatore potesse uscire ed essere ricollegato a quello della ricevente. Per assicurare un maggior effetto esplosivo, il Rampulla aveva provveduto a riporre nel contenitore due detonatori, di cui però solo uno era collegato, residuando pertanto sull’altro il compito di aumentare il potere deflagratorio della carica. «Mi ricordo che è stato fatto un buco nel bidoncino quello che era rimasto l’unico, che era un pochettino più grande degli altri, è stato fatto un buco per fuoriuscire i due fili che erano attaccati al detonatore. Il detonatore era stato conficcato all’interno del bidoncino circa a metà del bidoncino, ed in più accanto al detonatore che fuoriuscivano i fili è stato messo un altro detonatore con i fili tagliati per avere una maggiore, non lo so, era, questo era un discorso che faceva RAMPULLA PIETRO, che così dava “una maggiore cosa” all’esplosivo. E da questo bidoncino più grande una maggiore sicurezza, insomma, che al posto di esploderne uno, ne esplodevano due, così era più sicuro l’effetto del detonatore. Il funzionamento del detonatore non collegato era che scoppiando il detonatore che era attaccato alla ricevente, essendo quell’altro che era vicinissimo, doveva dare un maggiore scoppio. Questo era quello che sentivo là: al momento in cui scoppiava il primo, faceva scoppiare il secondo, dopodiché scoppiava tutto l’esplosivo. Per cui due, almeno se risulta a verità, io non lo so, comunque ne sono stati messi due per dare una maggiore deflagrazione all’esplosivo. Il foro serviva per fuoriuscire i fili del detonatore che poi andavano collegati alla ricevente. I fili che fuoriuscivano che erano attaccati al detonatore dell’interno del bidoncino tramite un filo molto più lungo andava collegato alla ricevente… alla fine c’erano questi due fili che andavano collegati in maniera così manuale, fatti a mano per collegare il detonatore alla scatola ricevente. Il filo che dico io, che abbiamo allungato era un filo a piattina. RAMPULLA PIETRO fece il foro sul bidone più grande, se non ricordo male. Era lui che doveva vedere il modo come doveva essere posizionato il detonatore». Completata l’attività relativa al travaso, gli operatori avevano lasciato la casa dandosi appuntamento per gli ulteriori adempimenti. Il compito di provvedere alla conservazione delle singole frazioni che poi comporranno la carica e del congegno costruito per attivarla era stato affidato da Salvatore Biondino ai residenti, cioè Giovanni Battaglia e Troia, che per la loro padronanza delle zone, potevano meglio assicurare al gruppo la sicurezza sulla integrità e la disponibilità dell’esplosivo che veniva pertanto a loro affidato. Più in particolare i bidoncini furono stipati in sacchetti di plastica neri, simili a quelli usati per la raccolta dell’immondizia e alle stesse persone, sempre secondo La Barbera, venne affidato il compito di distruggere tutto quanto era avanzato dalle operazioni di travaso: «[…] ci siamo quindi dati appuntamento l’indomani mattina allo stesso posto, ci aveva accennato che ci dovevamo vedere in un altro casolare, non più in quella zona, è così è avvenuto». Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
PARLA IL PENTITO LA BARBERA: «FUI IO A DARE IL SEGNALE per far esplodere il ponte al passaggio delle auto su cui viaggiavano Giovanni Falcone e la sua scorta,” racconta come andarono le cose nel pomeriggio del 23 maggio 1992. «Sentii un boato, fortissimo – dice La Barbera – poi vidi alzarsi un’enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri… »
LA BARBERA: «AVEVO MESSO IO L’ESPLOSIVO»– È Raffaella Fanelli a riportare su Repubblica le parole del boss, ex uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, condannato a 14 anni grazie allo sconto di pena dovuto al suo status di collaboratore di giustizia. Era stato lui, La Barbera, a posizionare il tritolo sotto lo svincolo autostradale di Capaci e fu lui a dare a Giovanni Brusca l’ordine di premere il telecomando. Racconta La Barbera, che oggi vive sotto altro nome in una località segreta: «Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar Johnnie Walker… Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari… Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera… amuninni a mangiari ‘na pizza»
QUELL’UOMO MISTERIOSO– Ma c’era anche un altro uomo, che fu notato da La Barbera in quanto estraneo a Cosa Nostra: […] «C’era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri… Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato» […] In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l’ho mai riconosciuto…
CAPACI BIS, LA BARBERA: “Giovanni Falcone si sarebbe potuto salvare” La confessione arriva dal pentito Gioacchino La Barbera, collaboratore di giustizia che partecipò all’attentato, alla corte d’Assise di Caltanissetta nel secondo processo sulla strage del 23 maggio del 1992 dove persero la vita il magistrato, la moglie e tre uomini della scorta Falcone si sarebbe potuto salvare “se nell’auto bianca che lo trasportava si fosse seduto dietro” ma Totò Riina e Leoluca Bagarella “intendevano comunque lanciare un segnale ben preciso con quell’attentato: la bomba era per Falcone, non era importante l’esito dell’operazione”. La confessione arriva dal pentito Gioacchino La Barbera, collaboratore di giustizia che partecipato all’attentato, alla corte d’assise di Caltanissetta nel secondo processo sulla strage del 23 maggio del 1992 dove persero la vita il magistrato, la moglie e tre uomini della scorta. “Nessuno di noi immaginava – ha detto La Barbera deponendo come testimone assistito nell’aula bunker di Rebibbia – che Falcone si mettesse alla guida di quella macchina bianca. Si fosse sistemato dietro, si sarebbe salvato come l’agente Giuseppe Costanza. E noi tutti avevamo messo in conto il rischio che il giudice non morisse”
CAPACI ERA UN SEGNALE ANCHE SENZA LA MORTE DI GIOVANNI FALCONEIl collaboratore di giustizia ha spiegato che sarebbe stato certamente più facile eliminare Falcone a Roma, ma Riina pretese che l’operazione venisse portata a termine a Capaci “per dimostrare che in Sicilia comandava lui” e che “chi aveva ancora una concezione ‘antica’ di Cosa Nostra era destinato a essere accantonato. Santapaola, ad esempio, era stato già messo da parte e Matteo Messina Denaro – ha affermato La Barbera – era visto da Riina come un ragazzino di Trapani che si chiudeva in casa quando sentiva il rumore di un mortaretto”.
“MAI PRIMA DI CAPACI USAMMO COSÌ TANTO ESPLOSIVO” Il pentito racconta ai giudici della Corte d’assise di Caltanissetta le varie fasi di preparazione dell’attento che portò alla morte Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: “Caricammo dodici, tredici bidoncini, da 20-25 kg ognuno. Ancora non sapevo per chi era tutto quell’esplosivo ma mai prima d’ora ne avevamo utilizzato così tanto”. “Utilizzammo due tipi di esplosivo. Uno era granuloso, l’altro era di tipo farinoso – ha detto l’ex boss di Altofonte – Le operazioni di travaso vennero eseguite in un villino a Capaci. Fu Rampulla a suggerire il da farsi. Ci spiegò che per avere una maggiore deflagrazione era importante mescolare i due tipi di esplosivo. E di fatti nel cunicolo dovevamo inserirli in maniera alternata”.
CAPACI BIS, LA BARBERA: “FALCONE SI SAREBBE POTUTO SALVARE” La confessione arriva dal pentito Gioacchino La Barbera, collaboratore di giustizia che partecipò all’attentato, alla corte d’Assise di Caltanissetta nel secondo processo sulla strage del 23 maggio del 1992 dove persero la vita il magistrato, la moglie e tre uomini della scorta Falcone si sarebbe potuto salvare “se nell’auto bianca che lo trasportava si fosse seduto dietro” ma Totò Riina e Leoluca Bagarella “intendevano comunque lanciare un segnale ben preciso con quell’attentato: la bomba era per Falcone, non era importante l’esito dell’operazione”. La confessione arriva dal pentito Gioacchino La Barbera, collaboratore di giustizia che partecipato all’attentato, alla corte d’assise di Caltanissetta nel secondo processo sulla strage del 23 maggio del 1992 dove persero la vita il magistrato, la moglie e tre uomini della scorta. “Nessuno di noi immaginava – ha detto La Barbera deponendo come testimone assistito nell’aula bunker di Rebibbia – che Falcone si mettesse alla guida di quella macchina bianca. Si fosse sistemato dietro, si sarebbe salvato come l’agente Giuseppe Costanza. E noi tutti avevamo messo in conto il rischio che il giudice non morisse”.
Capaci era un segnale anche senza la morte di Falcone Il collaboratore di giustizia ha spiegato che sarebbe stato certamente più facile eliminare Falcone a Roma, ma Riina pretese che l’operazione venisse portata a termine a Capaci “per dimostrare che in Sicilia comandava lui” e che “chi aveva ancora una concezione ‘antica’ di Cosa Nostra era destinato a essere accantonato. Santapaola, ad esempio, era stato già messo da parte e Matteo Messina Denaro – ha affermato La Barbera – era visto da Riina come un ragazzino di Trapani che si chiudeva in casa quando sentiva il rumore di un mortaretto”
LA BARBERA: “FUI IO A COLLEGARE IL DETONATORE IL GIORNO DELLA STRAGE” “L’esplosivo fu collocato nel cunicolo tempo prima ma il giorno dell’attentato fui io a collegare i fili per il detonatore”. La Barbera racconta alcuni particolari inediti durante la sua testimonianza. “La ricevente era spenta e quando ricevemmo la telefonata io avevo il compito di accenderla. Non posso escludere di aver collegato anche i fili del detonatore perché ricordo che c’era un certo pericolo nel lasciare tutto là”. Del compito dell’ex boss di Altofonte aveva parlato anche ieri il pentito Brusca ed oggi si ha una conferma. “Io mi ricordo che lasciare lì la ricevente era un bel rischio. Io mi limitai ad inserire il circuito. Se era tutto apposto? Assolutamente sì. Il materasso che avevamo lasciato a copertura del cunicolo era al suo posto. Non so se qualcuno può essere intervenuto per inserire altro esplosivo. Mi sento di escluderlo però”.
“MAI PRIMA DI CAPACI USAMMO COSÌ TANTO ESPLOSIVO” Il pentito racconta ai giudici della Corte d’assise di Caltanissetta le varie fasi di preparazione dell’attento che portò alla morte Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: “Caricammo dodici, tredici bidoncini, da 20-25 kg ognuno. Ancora non sapevo per chi era tutto quell’esplosivo ma mai prima d’ora ne avevamo utilizzato così tanto”. “Utilizzammo due tipi di esplosivo. Uno era granuloso, l’altro era di tipo farinoso – ha detto l’ex boss di Altofonte – Le operazioni di travaso vennero eseguite in un villino a Capaci. Fu Rampulla a suggerire il da farsi. Ci spiegò che per avere una maggiore deflagrazione era importante mescolare i due tipi di esplosivo. E di fatti nel cunicolo dovevamo inserirli in maniera alternata”
E AL TELEFONO I MAFIOSI DELLA STRAGE PARLANO DELL’”ATTENTATUNI” Lo spunto investigativo era stato dato da Giuseppe Marchese, il quale, come primo segnale teso a dimostrare la serietà della sua intenzione a collaborare con la giustizia, aveva indicato agli inquirenti un gruppo di persone che, sulla base della sua esperienza acquisita all’interno di Cosa Nostra, era altamente probabile avesse avuto a che fare con la realizzazione dell’attentato […] Deve concludersi che tutto ciò che sinora si è assunto come bagaglio storico-processuale poteva ben legittimare l’indirizzo investigativo che gli inquirenti avevano scelto di privilegiare: la paternità dell’attentato, quanto meno per quanto riguarda l’aspetto dell’organizzazione della fase esecutiva non poteva pertanto, in considerazione della rilevanza del bersaglio da colpire e della difficoltà di raggiungere l’obiettivo, prescindere dal coinvolgimento di una struttura militare, qual’era ed è Cosa Nostra, secondo quanto descritto dalle narrazioni di numerosi collaboratori di giustizia, acquisite sia in questo che in altri processi. Ebbene, per esporre quelle che in pratica si erano rilevate come le due grandi direttive investigative sulle quali si erano mossi gli inquirenti, opportuno appare il riferimento alle deposizioni rese in dibattimento da coloro che si erano incaricati di sviluppare in concreto l’ipotesi illustrata, e cioè il capitano Di Caprio, del Ros dei CC (udienza del 23 -11-95), e il dott. Gratteri della Dia di Roma, (sentito all’udienza del 6 dicembre 95), che per l’occasione aveva agito in collaborazione con il centro operativo palermitano. Lo spunto investigativo da cui avevano preso le mosse le indagini svolte da tale ultimo organo avevano origine dalla segnalazione, collocabile sommariamente intorno al settembre 92, da parte di un soggetto che poi sarebbe divenuto collaboratore di giustizia, il Marchese Giuseppe, il quale, come primo segnale teso a dimostrare la serietà della sua intenzione di abbandonare Cosa Nostra, aveva indicato agli inquirenti un gruppo di persone ben determinato, che, sulla base della sua esperienza acquisita all’interno dell’organizzazione, era altamente probabile avesse avuto a che fare con la realizzazione dell’attentato.
LE DICHIARAZIONI DI GIUSEPPE MARCHESE esaminato all’udienza del 28 novembre 96: «Ho contribuito all’arresto degli uomini che hanno partecipato alla strage di Capaci. Io al momento in cui ho iniziato a collaborare ero in carcere, ma avevo sempre informazioni da altri uomini di onore e anche dalle persone in cui stavano vicino a Bagarella, a Riina Totò e alla mia famiglia, diciamo. Nel momento in cui iniziai a collaborare gli ho detto che per sapere qualche cosa riguardo la strage di Capaci, dovevano andare appresso a Gioè Nino, La Barbera Gioacchino e un certo Mezzanasca Santino. E tramite di queste persone che la DIA all’epoca si mise, diciamo, a pedinarli, a darci, a starci appresso perché i contatti che noi avevamo all’epoca con Riina Totò e anche con Bagarella, erano, diciamo, queste persone Gioè Nino che noi ci tenevamo in contatto. E ci ho detto: andate appresso a loro che tramite loro si scopre, diciamo, chi sono gli anelli che, i contatti con queste persone, con anche con Brusca e compagnia bella. E infatti, dalle indagini che sono, diciamo, andati alla ricerca di queste persone, perché infatti ce n’erano anche chi era incensurato e non potevano mai minimamente pensare che loro potevano fare parte di questa cosa. Al che, hanno pedinato queste persone e hanno arrivato a un covo dov’è che gli hanno, dov’è che loro si nascondevano e hanno messo le microspie. Io diedi queste informazioni alla DIA, all’inizio ne parlai con Di Gennaro perché Di Gennaro era interessato a sapere chi era, se io sapessi qualche cosa riguardo la strage di Capaci». Questo era quanto affermava Giuseppe Marchese nel corso dell’udienza dibattimentale del 28 novembre 1996. Sulla base delle indicazioni fornite si erano mossi pertanto gli investigatori della Dia, che avevano concentrato la loro attenzione sul paese di Altofonte e le persone indicate che da quel luogo provenivano, delle quali presero a seguire costantemente gli spostamenti.
I PEDINAMENTI DI ANTONINO GIOÈ Dott. Gratteri: «Il contenuto dell’informazione riguardava esattamente le persone di Gioe’ Antonino e di tale Santino “mezza nasca”, all’epoca non ancora compiutamente identificato, che poi verrà identificato per Di Matteo Mario Santo, che si accertò mantenevano contatti con alcuni tra i piu’ grossi latitanti dell’organizzazione Cosa Nostra e, soprattutto con Salvatore Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella ed altri. Già dalle prime fasi dell’attivita’ si ebbe occasione di acclarare che il Gioe’ manteneva strettissimi contatti con una persona di Altofonte, inizialmente conosciuta a noi soltanto con il nome di Gino, e che nei giorni successivi viene identificato come La Barbera Gioacchino, col quale il Gioe’ s’incontrava quasi quotidianamente. Dalle attivita’ dinamiche sul territorio si ebbe quasi subito occasione di capire ed anche di documentare che entrambi svolgevano una vita molto particolare, molto strana: spesse volte non rientravano in Altofonte presso i propri domicili la sera a dormire, mantenevano sostanzialmente un comportamento molto accorto e molto circoscritto. […] I contatti di osservazione venivano effettuati sempre sul territorio palermitano, della città di Palermo, nella quale essi si movevano con molta cautela, atteso il timore che nel frattempo era maturato, fino a quando non vengono pedinati e notati entrare in uno stabile sito in via Ughetti di Palermo». A proposito dell’identificazione di tale luogo come uno di quelli scelti dai soggetti indicati per nascondersi, la dott. ssa Pellizzari ha fatto rilevare che la riferibilità dell’immobile alle predette persone era stata riscontrata nel corso dell’attività di pedinamento: «..Fu fatto un servizio sotto l’appartamento di via Ughetti, e si vide Gioe’ che s’affaccio’ alla finestra, quindi fu notato proprio in quelle finestre che poi ci consentirono di localizzare perfettamente la mansarda a loro in uso». Ritornando al dott. Gratteri: «..Viene dunque eseguito un accesso sull’appartamento, era un miniappartamento sito all’ultimo piano di un civico di via Gioe’, all’ultimo piano se non ricordo male, e viene predisposta naturalmente un’intercettazione ambientale. Risaltò una conversazione che riguardava un attentato, un progetto di attentato da eseguire nei confronti di alcuni agenti di custodia, se non vado errato di Pianosa, uno dei quali di origine palermitana. Questi ed altri elementi furono acquisiti nel corso di diretta attivita’ d’intercettazione ambientale. Vi erano riferimenti a Giovanni Brusca, vi erano riferimenti ad altri personaggi di Cosa Nostra». Il riferimento al La Barbera Gioacchino era entrato nell’ottica d’investigazione successivamente a Gioe’ Antonino, allorquando gli investigatori si erano resi conto che tra le frequentazione del Gioe’ vi era questo Gioacchino La Barbera; a tal proposito il sovr. Scarpato, escusso all’udienza del 6-12-95 ha dichiarato : «… Si giunse alla sua identificazione perché in Altofonte fu registrato un contatto stranamente diciamo abbastanza prolungato, perche’ i contatti di Gioe’ Antonino erano brevi, brevissimi in sostanza e in quella circostanza mi ricordo che, in pratica, si fermarono a parlare il Gioe’ Antonino e La Barbera, per un tempo alquanto lungo rispetto ai tempi che lui manifestava precedentemente».
LE INTERCETTAZIONI TELEFONICHE Tornando alla deposizione del dott. Gratteri si apprende quanto segue: «Dalla successiva attivita’ di riascolto, come penso sia noto, poi venne acclarato anche un riferimento al cosiddetto “attentatuni” che si riferiva alla strage di Capaci. A seguito del fermo di Gioe’ e di La Barbera fu naturalmente effettuata una perquisizione all’interno di questo piccolo appartamento di via Ughetti, ove furono rinvenute, tra le altre cose, delle carte d’identita’, alcune in bianco, con delle fotografie che ritraevano Gioacchino La Barbera, che ritraevano Antonino Gioe’, che ritraevano Leolouca Bagarella, che ritraevano Santino Di Matteo. Nella comunicazione di notizia di reato del 26 maggio 1993 si parte dalle intercettazioni ambientali, e quindi dall’attivita’ di ascolto fatta all’interno dell’appartamento di via Ughetti nr. 17, di Palermo, dove erano state registrate nel mese di marzo alcune conversazioni intercorse tra La Barbera Gioacchino e Gioe’ Antonino che erano due uomini d’onore, che li’ si nascondevano, pur non essendo all’epoca colpiti da nessun provvedimento restrittivo». […] La conversazione fra La Barbera e Gioè che rivestiva maggiore interesse per gli investigatori ha costituito oggetto della deposizione della dott. ssa PELLIZZARI, della DIA di ROMA, (udienza del 6-12-95): «In particolare nel corso di una conversazione che era avvenuta nella notte tra l’8 e il 9 marzo, tra moltissime altre cose, i due fanno riferimento all’attentato di Capaci. Mi spiego meglio: in particolare il La Barbera Gioacchino nel rivolgersi al Gioe’ Antonino e nel tentativo di spiegargli ove si trovasse un luogo che, appunto, era situato a Capaci, fa un riferimento ad una officina che si trovava vicino al luogo dove lui aveva atteso quando si era fatto “l’attentatone”. E ancora più in particolare il teste Rampini Luca, in servizio presso la D.I.A. Centro Operativo di Roma, escusso all’udienza del 6-12-95: «Sul nastro numero 5 si evidenzio’ questo brano dove La Barbera Gioacchino riferendosi ad Antonino Gioe’, per fargli capire un po’ sul luogo, una persona Santino gli dice: «Ma ti ricordi, dducu a Capaci?», e lui non riesce a capire, non riesce ancora… «In sostanza, dducu a Capaci, unni ci ficimu l’attentatuni», e questo che dice: «Santino, avia l’officina…». E quindi ci bloccammo li’ su quel punto, perche’ facevano un preciso, specifico riferimento alla strage di Capaci». L’indicazione del Marchese era dunque stata più che fruttuosa, perchè era servita a porre all’attenzione degli investigatori un gruppo ben determinato di persone, appartenenti ad un unico contesto spaziale, connotato da un particolare tipo di condotta, prossima a defiirsi come quella di soggetti che, per la pressione degli eventi esterni, e cioè il diffondersi delle notizie sul pentimento di Di Maggio e Marchese, erano sul punto di darsi alla latitanza. Per il Gioè, ad esempio, è illuminante il contributo di coloro che avevano preso parte all’attività di appostamento e ascolto delle conversazioni telefoniche, ad esempio il teste Caputo (ud. 6 dicembre 1995): «Accertamenti successivi sul Gioè permisero di stabilire che egli era sentimentalmente legato ad una donna, Camarda Giovanna, che era impiegata presso le Poste con incarico semestrale e che in quei periodi si era impiegata presso uffici postali di Cerami, provincia di Enna. Quindi, atteso che era interessante sapere cosa dicessero nelle conversazioni, visto che, (al limite), quello dell’ufficio postale sia quello dell’abitazione dove aveva preso una stanza in affitto per poter li’ risiedere, furono posti tutti e due sotto controllo, proprio per stabilire la natura delle loro conversazioni. E durante queste conversazioni si ebbe modo di capire e di avere la certezza diciamo della natura clandestina che il Gioe’ in quel momento assumeva. […]». Sempre con riguardo a Gioè utile appare riportare altro passo della deposizione del teste Scarpato, ispettore capo aggregato presso la Dia di Roma: «Gioè era difficile a controllare perche’ non aveva un comportamento regolare, in quanto discontinuo nel senso che anche quando guidava, e mi riferisco alle fasi di pedinamento, la sua guida era intervallata da una corsa veloce e da una corsa lenta. E come pure, io mi ricordo perfettamente questi particolari, spesso, ancor prima di entrare in macchina, insomma, si guardava con fare circospetto il territorio dove lui (stava) e in piu’… come pure il guardarsi in continuazione e, in alcune occasioni abbiamo avuto modo di constatare, in continuazione di guardare lo specchietto retrovisore, uno dei comportamenti caratteristici del Gioe’ all’epoca». Ed ancora, del vice Sov. Luca Rampini: «Prima individuammo un luogo in via Ignazio Gioe’, in contrada Inserra, dove loro si recavano la notte, per trascorrere la notte in pratica la frequentavano, di li’ successivamente poi loro si spostarono, sempre per problemi loro di sicurezza, diciamo cosi’. Noi all’epoca avevamo i telefoni sotto controllo, sia del distributore, che era in uso a Gioe’ Antonino, che di casa, nonché i telefoni di La Barbera, e quindi conoscevamo queste abitudini, questi movimenti e non solo, ci rendevamo conto del discorso che era di via Gioe’, dove loro trascorrevano la notte e poi il giorno andavano in movimento. Ad un certo punto si registro’ questo, c’era anche un discorso legato alla collaborazione di Leonardo Messina, che aveva scatenato una serie di mandati di cattura, per cui c’era movimento, c’era fermento delle forze dell’ordine, e quindi lasciarono questo covo, e noi nel frattempo continuammo dei servizi su di loro, finche’ non ci portarono in questa via Ughetti al civico 17, e da li’ quindi scoprimmo che, abbandonando quello, si erano recati in questo appartamento, di questi tre palazzi che c’erano, esistevano al civico 17». […] Quel che rilevava ancora di più era l’emersione di una traccia inequivocabile, cioè il riferimento all’“attintatuni“ verificatosi a Capaci, che pertanto non poteva che interpretarsi come fatto ascrivibile a quel gruppo di persone. Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA16 maggio 2021
BAGARELLA CONOBBE ESTREMISTI IN CELLA Leoluca Bagarella aveva conosciuto in carcere alcuni estremisti destinati ad essere “coinvolti in cose che la mafia non aveva mai fatto prima”. E’ quanto ha rivelato La Barbera alla Corte d’Assise di Caltanissetta. Il pentito ha riferito che Bagarella gli disse di “aver conosciuto in galera delle persone serie. Non so se di destra o di sinistra, ma diceva che erano in grado di spiegargli come trattare con lo Stato e suggerirgli cosa fare per dare fastidio allo Stato” – 25 novembre 2014 RAI NEWS
A CASA DI SANTINO DI MATTEO COMINCIANO A PREPARARE LA BOMBA PER FALCONE Dieci giorni prima della strage, Santino Di Matteo riceve l’incarico da Giovanni Brusca di recarsi nella casa di contrada Rebottone perché lì doveva arrivare Giovanni Agrigento, “capo famiglia” di San Cipirello, per portargli delle cose. «…L’indomani mi reco in campagna e viene Agrigento con la Tipo bianca, e dentro la macchina sia dentro il cofano che dietro il sedile, c’aveva quattro sacchi di esplosivo…»
Nel 1992 Di Matteo era proprietario di due appartamenti, uno nel paese di Altofonte, in Via del Fante, l’altro un po’ fuori dall’abitato, in contrada Rebottone.Proprio in quest’ultima abitazione, luogo di incontro e riunione degli appartenenti alla sua “famiglia”, i quali tutti sapevano dove era nascosta la chiave di ingresso (sotto un mattone), Di Matteo aveva appreso, verso la fine di aprile o gli inizi di maggio, che doveva essere fatto un attentato. Le riunioni nella casa in in quel periodo si tenevano giornalmente, ma egli non sapeva ancora a quell’epoca che sarebbe stato personalmente coinvolto nell’esecuzione del progetto criminoso. Le persone che frequentavano l’abitazione erano per lo più Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Gioacchino La Barbera e Leoluca Bagarella (soldato della “famiglia” di Corleone). In quel periodo aveva visto che Brusca aveva fatto venire una persona non appartenente alle famiglie palermitane, Pietro Rampulla da Catania, e che era è Gioè ad accompagnarlo dato che non era della zona (successivamente lo aveva visto usare un’Alfetta scura 1800 o 2000) e quel giorno c’erano anche Salvatore Biondo e Biondino, che erano venuti insieme su una Fiat Uno verde, ma egli non aveva assistito alla conversazione che Brusca e Bagarella avevano avuto con il personaggio catanese, aveva notato però che quest’ultimo era tornato due giorni dopo con due telecomandi in una scatola di polistirolo: «Per me erano due macchine… due cose di questi che fanno partire le macchine… di modellismo,.. un telecomando lungo che so un trenta centimetri metallizzato, con due levette una a sinistra e una a destra, tanto è vero che mi pare che quella di destra l’aveva… c’era messo il… nastro- isolante come si chiama quello… comunque uno la fermata… uno l’ho neutralizzato, e una ci funzionava, e ho visto che so… c’è un’antenna un venticinque trenta centimetri».
L’ORDINE DI BRUSCA Dopo quest’episodio, in una data che l’imputato ha collocato più o meno a circa dieci giorni prima della strage (quindi intorno al 10-13 maggio), mentre si trovava nella sua abitazione in paese, in via Del Fante, aveva ricevuto incarico da Giovanni Brusca di recarsi nella casa di contrada Rebottone perché lì doveva arrivare Giovanni Agrigento, uomo che lui sapeva essere molto vicino a Brusca nonché “capo famiglia” di San Cipirello, per portargli delle cose. Nella sostanza l’Agrigento in quell’occasione – era di mattina intorno alle 10.30 11 e lui si era allontanato di nascosto dal suo posto di lavoro, il mattatoio di Altofonte – aveva portato con la sua Fiat Tipo bianca quattro sacchi da 50 kg di un materiale che a prima vista il Di Matteo aveva creduto fosse fertilizzante: «La sera mi pare GIOVANNI BRUSCA o la mattina, abbia detto dice: “domani mattina alle dieci devi andare in campagna che deve venire GIUSEPPE AGRIGENTO che ti deve portare delle cose”, “va bene”, l’indomani mi reco in campagna e viene AGRIGENTO con la TIPO BIANCA, e dentro la macchina sia dentro il cofano che dietro il sedile, c’aveva quattro sacchi di esplosivo, diciamo che erano quattro sacchi che per me era sale… dei sacchi verdi dove vendono il sale, questi sacchi da cinquanta chili… e allora li abbiamo presi e li abbiamo travasati in due bidoni di plastica, tanto è vero che quando lo abbiamo travasato mi faceva… mi bruciava il naso, dico: “ma che cosa è questa…” ci siamo messi fuori la casa, davanti dice…Siamo al magazzino…i sacchi erano legati con i lacci». Il travaso era stato fatto dai sacchi a due bidoni da cento kg, senza usare guanti di gomma. A giudizio dell’imputato quel travaso aveva un senso perché inizialmente si era pensato di collocare quei bidoni in una galleria, perché altrimenti , per il trasporto fino a Capaci, non ci sarebbe stato alcun bisogno di trasbordare l’esplosivo dai sacchi ai bidoni, anzi, nei sacchi del fertilizzante, in caso di fermo delle forze dell’ordine durante il tragitto, si sarebbero potuti meglio giustificare. In effetti successivamente Di Matteo ha confermato il valore di tale intuizione, perché ha rilevato di aver appreso che l’attentato doveva avere luogo in una galleria subito dopo Capaci, ma che tale progetto era sfumato perché non era possibile vedere la posizione delle macchine per premere il telecomando. Di Matteo aveva notato che l’operazione di travaso, in esito alla quale si erano riempiti a pieno i due bidoni, faceva alzare della polvere: […]. I bidoni erano stati procurati entrambe da Gino La Barbera, che, sempre su incarico di Giovanni Brusca, li aveva portati in contrada Rebottone due giorni prima della venuta di Agrigento: trattavasi di bidoni di plastica appena comprati, di colore bianco con tappo a vite nero e manici bianchi. Dopo il travaso i bidoni erano rimasti per uno o due giorni nel magazzino della casa di campagna, dopodichè erano stati caricati sul fuoristrada di La Barbera da lui, La Barbera e Gioè, che li avevano portati in via Del Fante, dove si trovavano ad aspettare Bagarella, Brusca e Rampulla. Era seguito quindi un nuovo spostamento, nel pomeriggio, verso le 16-17, a Capaci, dove i presenti erano arrivati dopo 3/4 d’ora, a bordo di tre macchine: in particolare Bagarella e Gioè si erano mossi con la Renault Clio della sorella di Gioè; Di Matteo e La Barbera con la Jeep di quest’ultimo; Brusca e Rampulla sulla Y10. E’ in quest’occasione che l’imputato aveva appreso che l’esplosivo doveva essere trasportato a Capaci. Il percorso effettuato si snodava da via del Fante e, attraverso lo scorrimento veloce fino a Sciacca, il gruppo si era diretto verso Palermo, ove aveva percorso il viale delle Scienze in direzione Punta Raisi fino allo svincolo di Capaci. Lì era già arrivato Brusca, che era partito un po’ prima per fare da battistrada, che aveva guidato il corteo ad un casolare dove l’imputato non era mai stato e che aveva appreso essere di Troia: si trattava di un casolare tipo capanna, circondato sia a destra che a sinistra da ville, sia pur non limitrofe, e c’era, secondo il ricordo del Di Matteo, una giumenta rinchiusa in un recinto, distante circa 300 metri dal luogo della strage. Avevano parcheggiato le auto non vicino alla casa, ma dal lato del recinto, per evitare che potessero essere notate, solo la Jeep Patrol era entrata nel cortile per agevolare l’operazione di scarico. In occasione dello scaricamento dei bidoni Di Matteo aveva avuto modo di conoscere Troia, che ha descritto con una persona alta, di carnagione scura, con il viso grosso; aveva notato altresì un altro uomo che non conosceva, “bassino magro e bruttino“, che però era in confidenza con Troia, e a loro volta con Brusca e Bagarella. Durante le operazioni di scarico, aveva notato che Gioè e Bagarella portavano dentro casa dei detonatori, che avevano in macchina, avvolti in un foglio di giornale: «Io questi detonatori li ho visti quando siamo arrivati là sul casolare… che li avevano nella macchina GIOE’ e BAGARELLA, avvolti in un foglio di giornale. e poi li hanno appoggiati sul tavolo. i fili sono… ce n’è gialli, rossi, verdi. sono met… specie di metallo. placati in argento, così. Per… come un bossolo, che le posso dire… di un Kalshinikov, così, però metallizzato, di un bossolo parliamo lungo venti, venticinque centimetri, non lo so. , i fili partivano da una sola parte ..ed erano collegati al detonatore. ..li abbiamo appoggiati sopra il tavolo. GIOE’ l’aveva appoggiati. Tanto è vero che gli ha detto che c’erano due signori là che io ho conosciuto, questa era la prima volta che li vedevo, ha detto: “state attenti perché se qualcuno ne casca salta tutto per aria”. .. sono di metallo, sono come bossoletti, come quelli su per giù del Kalashinicov, più grandetti, non lo so. E ogni bossoletto di questi ci ha messo un filo». Finito di scaricare i bidoni Di Matteo era tornato ad Altofonte. A questo punto, per quanto riguarda Di Matteo, può dirsi esaurita quella parte della narrazione relativa a quanto era accaduto in Altofonte. Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
Manca poco, si aspetta solo l’aereo che viene da Roma I mafiosi si dividono in due gruppi operativi. Ognuno ha un suo compito ben preciso. La Barbera ricorda: «Un gruppo doveva azionare il telecomando e un altro gruppo doveva operare la ricevente» Successivamente al caricamento del condotto era iniziata la fase dell’attesa dell’arrivo del dott. Falcone. Tale momento era stato preceduto dalla riunione di concerto fra il gruppo palermitano e quello che operava invece a Capaci: l’incontro si era verificato al casolare, che poi era abbandonato per non dare adito ai vicini di sospettare sull’insolito movimento, a favore di un altro immobile, sempre nei paraggi, di cui Troia aveva la disponibilità . Si era convenuto in quella riunione che Domenico Ganci, non appena avesse avuto la consapevolezza che la Croma si dirigeva verso l’aeroporto, avrebbe dovuto chiamare sia Brusca che Ferrante, e che quest’ultimo avrebbe stazionato nei pressi dell’aeroporto. Un ruolo particolare aveva assunto nel piano la posizione di La Barbera, che aveva il compito di seguire il corteo dalla strada provinciale prima che si avvicinasse al condotto caricato: «E allora oltre alla casa dove c’era la cavalla, cioè il recinto con la cavalla, nelle vicinanze a distanza sempre di cento metri circa, centocinquanta metri il TROJA aveva la disponibilità di un villino che noi, siccome avevamo fatto del movimento, in quella casa c’era stato un po’ di traffico, c’erano delle persone di un palazzo vicino che potevano notare questo movimento, per non attirare più l’attenzione di questo movimento a secondo, in base a quello che doveva succedere, ci siamo spostati in quel villino. Però, prima di spostarci in quel villino, le persone responsabili che dovevano portare a termine l’operazione abbiamo fatto una riunione per dividerci i compiti. La riunione l’abbiamo fatta nel casolare. C’eravamo Io, BIONDINO, GANCI RAFFAELE, CANCEMI, DOMENICO, credo che c’era pure DOMENICO, FERRANTE; ripeto, può darsi che qualcuno magari non c’era e io lo sto mettendo o qualcuno c’era, eravamo tutti, cioè tutti presenti, però può darsi in quel momento dico che c’era e poi magari quello non c’era, però o c’era qualcuno o che mancava qualcuno, però i responsabili eravamo tutti presenti e le spiego subito il perché: perché c’era GANCI DOMENICO, GANCI RAFFAELE e CANCEMI che dovevano darci, che controllavano PALERMO, per controllare l’uscita, cioè l’uscita del corteo quando si incamminavano per andare a PUNTA RAISI, il compito era di questi tre e in particolar modo di GANCI DOMENICO che doveva chiamare sia FERRANTE che a noi. Cioè, per dire, una macchina è partita per andare a PUNTA RAISI, cioè con un segnale convenzionato… e poi infine LA BARBERA doveva controllare per eccesso di zelo la velocità, con una strada parallela, del Giudice FALCONE, cioè il corteo delle macchine….l’autostrada ad un dato punto, credo, uscendo dal CARINI, non so, JONNHY WALKER o nelle vicinanze di CARINI c’è un tratto di strada che costeggia all’autostrada che si può camminare alla stessa velocità in quanto rettilineo e si può controllare ad occhio nudo, cioè le macchine che camminano sull’autostrada e poterci camminare parallelamente. Ad un dato punto questa di qua, questa strada finisce, credo che finisce al JONNHY WALKER e inizia molto prima, credo che inizia a VILLA GRAZIA DI CARINI, se non ricordo male,…che era l’ultimo punto che il LA BARBERA doveva chiamare a noi per darci il via definitivo».
DUE GRUPPI IN AZIONE Il coordinamento fra i due gruppi era possibile grazie anche all’opera di Salvatore Biondino, che doveva fare da spola fra Palermo e Capaci e che era il “trait d’union” fra i due poli, incaricato quindi di portare notizie nuove a chi a Capaci attendeva notizie sull’arrivo del convoglio: «In questi termini, che loro dovevano provvedere, cioè a controllare questa posizione, il BIONDINO doveva fare da spola tra noi e PALERMO, per dire montiamo, smontiamo, per oggi leviamo mano, cioè domani continuiamo, cioè per avere sempre il punto di collegamento. E noi rimanevamo a CAPACI per poi azionare, un gruppo doveva azionare il telecomando e un altro gruppo doveva operare la ricevente». Precisati in questi termini i compiti di ogni singolo operatore, la riunione aveva avuto termine e, il gruppo incaricato di eseguire gli appostamenti si era trasferito nella villetta, dove aveva inizio l’ultima fase che aveva preceduto la realizzazione dell’attentato: con riferimento a tale periodo l’attenzione degli operatori era in particolare rivolta agli ultimi giorni della settimana, giovedì, venerdì e sabato, con esclusione della domenica: «…Dopo avere fatto questa riunione, dopo avere messo a punto ognuno i suoi compiti, da quel momento in poi, cioè per gli appostamenti, cioè per aspettare quando arrivavano, ricevevamo le chiamate ci siamo spostati in questo villino nel casolare, credo, tutto complessivo due, tre giorni, quattro giorni, non mi ricordo, cioè il tempo, cioè tutto quel lavoro che abbiamo fatto prove, caricamento, tutto quello che si è svolto lo abbiamo fatto nel casolare. L’appostamento si faceva nei fini settimana, partendo da, credo, giovedì, venerdì e sabato, la domenica no. loro credo che controllavano sempre la macchina, però il punto fisso da parte nostra era giovedì, venerdì e sabato…chi aveva controllato, cioè il gruppo di PALERMO che aveva controllato le abitudini del Dottor FALCONE la domenica credo che non, il Dottor FALCONE non viaggiasse o non camminasse per le notizie che loro avevano. Addirittura qualche volta nel primo pomeriggio di sabato levavamo pure mano. Quando non effettuavamo l’appostamento, cioè l’appostamento e aspettavamo la chiamata, nel villino nella disponibilità del TROJA…. in attesa delle chiamata, cioè nella attesa della chiamata ci aspettavamo nel villino. Ognuno ce ne andavamo a casa propria, cioè noi ce ne andavamo ad ALTOFONTE, perché io in quel periodo fino al 23 maggio sono stato ad ALTOFONTE. RAMPULLA se ne andava, però quelli di PALERMO credo che continuavano sempre la attività anche perché GANCI DOMENICO, l’abitazione di GANCI DOMENICO e dove aveva macelleria l’aveva sempre sott’occhio poteva controllare benissimo i movimenti…». Il collegamento fra la città e Capaci aveva operato non solo in occasione della strage, ma anche prima, all’incirca un paio di giorni dopo il caricamento del condotto: gli operatori infatti avevano sperimentato, in occasione di alcuni falsi allarmi, l’operatività del meccanismo che avevano creato: «Sì, è arrivato un falso allarme in quanto da PALERMO avevano visto che la macchina stava prendendo il corteo per PALERMO, ma poi è finito, cioè è arrivata la conferma, dice: “No, è tutto falso, non c’è niente da fare”…c’è arrivata la chiamata di prepararci, di tenerci pronti in quanto dovevamo andare, perché noi avevamo bisogno di un po’ tempo, cinque, dieci minuti di tempo per andare ad azionare, cioè andare a mettere la ricevente sul luogo, perché la ricevente la mettevamo cinque minuti, dieci minuti prima di azionare il telecomando, perché prima non la dovevamo mettere per non rischiare qualche problema…in quell’occasione che avevamo il telefonino di LA BARBERA…Ma credo in questo falso allarme fu il primo, se non ricordo male, fu il primo tentativo e credo che eravamo nel casolare, cioè nel recinto…il primo giorno, perché poi subito ci siamo spostati, però non, mi ricordo che mentre eravamo lì dentro o mentre che stavamo preparando, ci trovavamo per caso, perché poi ci passavamo quasi sempre dal casolare, quindi mentre ci trovavamo lì dentro è arrivata la telefonata per poi spostarci nel villino, dico, però che eravamo dentro il casolare, eravamo dentro il casolare…fu uno uno dei primi giorni dopo il caricamento».
L’INCIDENTE DELL’ARTIFICIERE Era stato durante il secondo appostamento che Brusca era entrato in possesso del cellulare comprato per lui da Santino Di Matteo, che poi era stato utilizzato principalmente il giorno della strage: l’accorgimento ideato da Brusca era quello di far risultare la telefonata fra La Barbera e il commando operativo di cui lui era a capo, come una conversazione fra due soggetti che già si conoscevano e pertanto non potevano dare adito a nessun sospetto: «Viene utilizzato da noi, da LA BARBERA, io e GIOE’ e per il motivo che ho spiegato poco fa’, per avere la telefonata tra il DI MATTEO e LA BARBERA in maniera che, se domani è sotto inchiesta, potevano spiegare le loro amicizie, le loro conoscenze paesane, per motivi di lavoro, potevano dare una giustificazione plausibile. Infatti appositamente, chiedo scusa, appositamente la telefonata è stata fatta durare credo parecchio, tre, quattro, cinque minuti, cioè è stato predisposto prima, per dire: non staccare subito, sì, pronto? Apposto, parla della qualunque cosa, nel frattempo dici la velocità in maniera che la telefonata durasse del tempo. Credo che questo apparecchio lo abbia utilizzato o LA BARBERA o GIOE’ per telefonate sue, per i fatti suoi, io non l’ho utilizzato, ma loro lo hanno utilizzato […]». Ci fu un episodio che aveva caratterizzato in particolare la fase degli appostamenti, verificatosi o nel corso dell’ultima settimana o in quella precedente, e cioè l’incidente stradale occorso a Pietro Rampulla, che aveva comportato gli sforzi di tutta l’organizzazione, ed in particolare di Salvatore Biondino, che si era impegnato per fare in modo che non rimanesse alcuna traccia formale dell’evento, perchè era ben chiaro agli operatori il peso di un futuro probabile ritrovamento di una traccia della pemanenza nelle zone palermitane del Rampulla: «Io direttamente non ho visto niente, però ho saputo che RAMPULLA PIETRO ha subito un incidente credo allo svincolo di ISOLA DELLE FEMMINE…ho saputo che poi mi hanno raccontato che aveva subìto questo incidente e che la macchina si era un po’ distrutta e che si cercava in qualche modo il titolare, cioè con cui ha avuto il contatto, cioè il contatto, ecco, lo scontro di non fargli fare assicurazioni in maniera da non fargli, cioè per non fargli, oggi o domani si potesse scoprire essere un alibi a discapito del RAMPULLA. Poi se non gli hanno fatto l’assicurazione o gliel’hanno fatta, come sono andati a finire i fatti questo non me lo ricordo. Tutti lo abbiamo saputo che GIOE’, LA BARBERA, poi BIONDINO, che poi BIONDINO si sono presi l’incarico di fargli sistemare la macchina da un meccanico di loro fiducia, cioè da un lattoniere di loro fiducia, non me lo ricordo chi per primo me lo disse, però lo sapevamo tutti che aveva avuto questo incidente…se non ricordo male, aveva un PEUGEOT 205. Ma credo o nella seconda o il giorno prima dell’ultima postazione, perché poi all’ultimo giorno lui non poté venire, perché aveva degli impegni, perché se c’era lui non, cioè il telecomando lo doveva azionare lui, quindi o prima o l’ultima». Un altro episodio particolare, sulla cui effettiva realizzazione Brusca ha dato la sua versione, è quello relativo alla presenza a Palermo del dott. Falcone insieme al dott. Borsellino il 18 maggio, cioè il lunedì della stessa settimana in cui si era verificata la strage. Era stato sempre Salvatore Biondino che aveva informato Giovanni Brusca dell’occasione mancata: […]. Da Biondino, Brusca aveva anche appreso, ma solo dopo la realizzazione della strage, che in un’altra occasione la Croma era stata seguita oltre la circonvallazione, fino a Villabate: «Già noi lo sapevamo prima, che c’è stata una uscita e che l’autista si è recato CIACULLI VILLABATE infatti si pensava di vedere dove è andata a finire questa macchina per controllare con chi avesse contatto questo poliziotto o questo, cioè l’autista del Dottore FALCONE, ci poteva essere una base, qualche contatto con queste persone. Sempre BIONDINO, CANCEMI o GANCI, quando poi ci siamo rivisti si è parlato di questo fatto…credo me lo disse nuovamente nella casa di GUDDO GIROLAMO, che poi ci siamo rivisti tutti commentando un pochettino io ho visto questo, io ho visto quest’altro, si è fatto un po’ il riassunto di quello che era avvenuto…dopo giorni, non nel giorno stesso della strage, il giorno stesso quanto gli ho raccontato poi me ne sono andato, cioè questo fatto poi commenti dei movimenti in particolari poi man mano che ci andavamo venendo ci raccontavamo i particolari che era avvenuto». A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
E i killer si rammaricano per non averli uccisi insieme Gli imputati al processo hanno ammesso di sapere che il giudice Falcone era stato a Palermo prima del 23 maggio e che si era trovato in compagnia di Paolo Borsellino. Questo episodio era stato riferito da Salvatore Biondino al commando stragista che aveva perso la possibilità di uccidere, in un sol colpo, i due magistrati più pericolosi per la sopravvivenza di Cosa Nostra Ancora una volta è dato registrare che l’evento, a cui avevano partecipato Raffaele, Domenico, Calogero Ganci, Salvatore Cancemi e Antonino Galliano, è stato descritto per conoscenza diretta da ben tre imputati, per cui, la ricostruzione che ne deriva può definirsi, sotto l’aspetto descrittivo, completa ed esauriente. Nella sostanza, […] si rileva accordo generale sul fatto che erano i tre giovani del gruppo ad occuparsi materialmente del pedinamento della Fiat Croma, e analoga convergenza si riscontra anche sui mezzi usati per lo scopo, cioè il “vespone 150” guidato da Calogero Ganci, il ciclomotore Peugeot in uso a Domenico Ganci e lo Sfera Piaggio guidato da Galliano, a nulla rilevando la discordanza sui colori dei singoli ciclomotori, costituendo questa circostanza di secondo rilievo, in ordine alla quale ben può giustificarsi il ricordo impreciso dei narratori. […] Anche la suddivisione del percorso fra i singoli pedinatori relativamente al tragitto che la Fiat Croma di solito percorreva, costituisce dato su cui si è registrata concordanza fra le dichiarazioni di Ganci e Galliano: […]. E’ altresì condivisa dai due anche la circostanza che le operazioni di pedinamento fossero concentrate nella mattinata, e che nel pomeriggio gli eventuali spostamenti della Croma erano comunque controllati dalla macelleria dei Ganci. Tale ultima affermazione non trova alcuna smentita dal tenore della deposizione del teste Aristide Galliano, che lavorava in quel negozio come inserviente, perché risulta chiaramente sia dall’esame di Ganci che da quello di Galliano, che il controllo dell’autovettura nel pomeriggio era, per così dire, “dinamico”, nel senso che gli operatori non rimanevano fermi alla macelleria, ma usavano spesso recarsi al bar Ciro’s per assicurarsi con maggiore sicurezza di quella che poteva scaturire dalla visione che si aveva dal negozio, che la macchina fosse ferma nel parcheggio. Continuando nella rassegna degli accadimenti sui quali vi è convergenza secondo il racconto degli imputati, va rilevato che essi concordano sul fatto che spesso accadeva che Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi nel corso degli appostamenti mattutini seguissero i pedinamenti in macchina, e che erano soliti raggiungerli sotto i portici che si trovavano di fronte al Palazzo di Giustizia, da dove insieme controllovano la posizione della macchina e i successivi spostamenti. A tal proposito è opportuno segnalare che i predetti si spostavano a bordo della Fiat Uno grigia nella disponibilità di Salvatore Cancemi. […] Sia Ganci che Galliano hanno concordato poi sul fatto che per ognuno di loro il conferimento dell’incarico era avvenuto ad opera di Raffaele Ganci nella macelleria, e che nell’occasione era presente Salvatore Cancemi.
LA FAMIGLIA GANCI A DISPOSIZIONE Quanto all’inizio delle operazioni di pedinamento, Galliano lo ha collocato verso la metà di aprile, mentre invece Calogero Ganci ha ancorato il suo primo intervento a due o tre giorni prima rispetto alla mancata partenza per Bologna (fissata per il 14 maggio), che è facilmente individuabile grazie al fatto che è presente in atti il biglietto che l’imputato aveva acquistato per l’occasione. […] Quel che importa sottolineare è che sia Ganci che Galliano hanno concordato sul fatto che l’attività svolta da aprile fino a metà maggio circa aveva già consentito al gruppo di conoscere non solo gli orari dei movimenti nel corso della mattinata della Croma, che si muoveva dal parcheggio intorno alle nove per farvi poi ritorno per le 13.30, ma anche un ulteriore informazione, di rilievo eccezionale, costituita dall’accertamento della frequenza dei rientri del giudice in città, che si concentravano nei giorni ricompresi dal venerdì al sabato. L’acquisizione di tale dato avrebbe consentito poi di fissare i termini dell’attività di appostamento del commando esecutivo che, come si sarebbe appreso successivamente, aveva costituito informazione che il gruppo operativo a Capaci aveva ben chiara ormai da tempo, posto che subito dopo il caricamento del condotto si era tecnicamente già in grado di procedere se il dott. Falcone fosse arrivato a Palermo. Se tutto quanto precede costituisce ricostruzione altamente verosimile dei fatti accaduti, deve allora dirsi che la decisione presa da Raffaele Ganci in ordine al coinvolgimento del figlio Calogero nell’attività di pedinamento era stata presa in quel frangente temporale, perché egli aveva realizzato che, una volta effettuato il caricamento del condotto, l’attentato avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi momento, per cui era essenziale non perdere i movimenti della macchina. Si spiega così, il motivo, a cose ormai fatte, dell’intervento di Calogero Ganci, che assume un senso pregnante proprio se posto in questi termini. Ma c’è anche un’altra considerazione che spinge a concludere nel senso appena indicato. Raffaele Ganci, a detta del figlio, gli aveva già comunicato di non passare da quel tratto di autostrada verso i primi di maggio, senza però dare ulteriori spiegazioni del divieto al figlio, che aveva comunque recepito che in quel posto si stava preparando qualcosa di importante, che avrebbe potuto mettere in pericolo la sua incolumità se avesse attraversato la zona. Orbene, se l’esigenza di coinvolgere il figlio fosse stata diversa da quella indicata in precedenza, Raffaele Ganci avrebbe richiesto l’intervento del figlio già in quel frangente, e cioè agli inizi di maggio: poiché così non era stato, deve ritenersi che la richiesta era giunta tardivamente solo perché il Ganci voleva essere sicuro che, una volta che si entrava nella fase in cui poteva realizzarsi l’attentato, venisse completamente azzerato il rischio di perdere le traccie della Croma all’atto in cui si sarebbe diretta verso Punta Raisi a prelevare il giudice. Va altresì sottolineato che Raffaele Ganci avvertì la necessità di coinvolgere anche il figlio Calogero oltre Domenico, anche in virtù del fatto che il nipote Galliano non poteva assicurargli una presenza costante, poiché aveva il problema delle assenze dal lavoro, che se possibili per i fine settimana, dato il tipo di impiego svolto (bancario), non consentivano grossi margini di movimento al di fuori dei permessi o dei recuperi, che loro stessa natura non potevano che essere saltuari.
IL FALSO ALLARME […] Occorre a questo punto soffermarsi sul significato di due episodi, sulla cui esistenza hanno concordato sia Ganci Calogero che Galliano: il primo attiene alla volta in cui i pedinatori avevano perso di vista l’auto, il secondo al giorno in cui invece solo Calogero Ganci era riuscito a starle dietro, fino a seguirla in un capannone sito nei pressi dell’autostrada. Galliano, che è a conoscenza di entrambi gli episodi, ha collocato questo secondo fatto nella settimana precedente la strage, ed il il primo due settimane prima della stessa. Ganci invece non è così preciso e si è limitato solo a porre come intervallo fra i due eventi un paio di giorni circa. E’ possibile, allora, che quando che gli operatori avevano perso di vista la Fiat Croma e che solo Calogero Ganci era riuscito a starle dietro, si fosse verificato quel famoso “falso allarme” di cui hanno riferito poi anche Brusca e La Barbera per averlo appreso da Salvatore Biondino. E’ verosimile cioè che Ganci, unico a non aver perso le traccie della macchina grazie alla maggiore potenza del mezzo di cui disponeva (di cilindrata 150), avendo visto che la macchina andava verso la circonvallazione e poi in direzione dell’autostrada, aveva pensato giustamente che l’auto stesse per recarsi all’aeroporto, e dunque aveva messo in moto il meccanismo che doveva condurre ad allertare gli operatori che stanziavano a Capaci. Deve altresì ipotizzarsi che una volta accortosi che invece la macchina si fermava al capannone industriale, sito in una strada che lambiva a carreggiata dell’autostrada, nei pressi di Villabate, l’imputato avesse fatto in modo di fermare l’ingranaggio. A conforto di tale ricostruzione è emerso dall’esame del traffico cellulare acquisito in atti, che nella giornata del 14 maggio vi erano stati dei contatti telefonici particolari fra il cellulare in uso a Domenico Ganci (quello intestato cioè a Ruisi, lo 0336/890387) che aveva chiamato quello di Ferrante alle 7.32, alle 7.58, alle 9.06 e alle 9.09, e successivamente fra Ferrante e La Barbera alle 9.11. Potrebbe dunque essersi verificato quella mattina che gli operatori avessero visto la Fiat Croma allontanarsi dal parcheggio, l’avessero seguita, poi l’avessero persa di vista ad eccezione di Calogero Ganci, che avendo visto che imboccava la circonvallazione avvertì il fratello, che a sua volta chiamò Ferrante, probabilmente in più riprese, per confermargli che la direzione imboccata era quella giusta. Le successive chiamate, quelle delle 9.06 e delle 9.09, potrebbero essere quelle con cui Domenico Ganci aveva avvisato del falso allarme Ferrante, che a sua volta, aveva chiamato La Barbera per disattivare i preparativi. Altro dato che va segnalato è che sempre nella stessa giornata risulta, da attestazione della Corte d’Appello, che la Fiat Croma era stata sottoposta a lavori di manutenzione presso la ditta “Centrogomme s. n. c.” , per cui è ben possibile che la direzione segnalata da Ganci preludesse all’imbocco della strada che doveva condurre all’officina autorizzata. L’uso di tale espressione è imposto da una dovuta prudenza, frutto della circostanza che Costanza Giuseppe, l’autista della Croma, non ha ricordato di essersi recato nella zona di Villabate con la macchina di servizio nei giorni precedenti l’attentato: vero che emerge dall’attività di riscontro svolta dal personale della Dia che esistono diversi capannoni che costeggiano l’autostrada prima dello svincolo per Villabate, ma nessuno di essi ha a che fare con un officina di riparazione, trattandosi in un caso di un deposito di prodotti chimici, e nell’altro di una fabbrica di ghiaccio. E’ possibile allora che il teste vi si sia recato per motivi personali prima di andare all’officina, e che obiettivamente non sia stato in grado, in dibattimento, di ricordare il motivo della sosta a causa delle amnesie che lo hanno afflitto in esito allo shock derivato dall’attentato. D’altro canto, va anche sottolineato che Ganci Calogero, una volta accertato che la macchina si fermava presso uno dei capannoni, era andato via, per cui è ben possibile che l’autista, dopo tale sosta, si fosse diretto verso l’officina di riparazione. Del resto non è possibile ritenere che il falso allarme di cui hanno parlato concordemente anche Brusca e La Barbera, sia identificabile con l’altro episodio, quello relativo alla perdita delle tracce della macchina da parte di tutti i pedinatori. In tale caso infatti non avrebbe avuto senso, se si era persa la Fiat Croma, allertare il gruppo di Capaci perché a quel punto non c’era più nessuna sicurezza sulla direzione che avrebbe preso la macchina: non era ragionevole cioè che, a fronte della meticolosità, precisione e puntualità con cui era stata elaborata la strategia esecutiva, che un particolare così vitale, quale il lancio del segnale, potesse essere rimesso al mero caso. Se la ricostruzione indicata è verosimile, può farsi allora un ulteriore passo avanti per ricollegare quest’ultimo episodio al rientro in Palermo del dott. Falcone il 18 maggio: come si è già visto in precedenza, in occasione dell’esame delle deposizioni dell’addetta alla segreteria della Direzione Affari Penali del Ministero dell’impiegata dell’agenzia di viaggi di Palermo ove il magistrato era solito servirsi quando si spostava con i voli di linea e dello stesso autista, Costanza Giuseppe, il dott. Falcone era tornato in Sicilia in quella data, che cadeva di lunedì della stessa settimana nella quale è ricompreso il giorno della strage, cioè sabato 23 maggio. Tale ipotesi troverebbe conforto nell’indicazione della consequenzialità temporale che secondo Ganci Calogero lega questo episodio al primo già descritto, essendo i due fatti intervallati secondo i suoi ricordi da un paio di giorni, perché come si è già visto, quest’ultimo risulta fissato per il 14 maggio, che dunque dista quattro giorni dall’altro, ben compatibile quindi con la ricostruzione dell’imputato. Altro dato che coincide è quello relativo al momento in cui la macchina era rientrata al posteggio, che Ganci ha indicato nel pomeriggio, dato che risulta anch’esso compatibile sia con la previsione dell’andata all’aeroporto per consentire al giudice il rientro nella capitale nella stessa giornata, che con le dichiarazioni del Costanza.
UCCIDERE IL GIUDICE UNA SETTIMANA PRIMA […] Gli imputati […] ammettono di essere venuti a conoscenza del fatto che il dott. Falcone era stato a Palermo prima del 23 maggio, e addirittura in compagnia del dott. Borsellino: tale circostanza, riferita concordemente, secondo gli imputati, al gruppo operativo da Salvatore Biondino, aveva costituito fonte di rammarico per gli operatori, perché era andata persa la possibilità di eliminare in un sol colpo due dei magistrati più pericolosi per la sopravvivenza di Cosa Nostra. Se è possibile quindi rilevare dalle dichiarazioni dei collaboratori il disappunto per l’occasione persa, può anche sostenersi che chi aveva riferito loro l’episodio aveva ben contezza del fatto che in quel frangente doveva essere già tutto pronto per far saltare l’autostrada, quindi orientativamente l’accadimento è collocabile dopo l’8 maggio. I dati acquisiti in virtù delle dichiarazioni degli imputati consentono di calibrare meglio la collocazione temporale dell’evento: se infatti l’intervento di Calogero Ganci nel gruppo dei pedinatori è stato fissato in precedenza due o tre giorni prima il 14 maggio, poiché l’imputato ha riferito dell’episodio per averlo vissuto in prima persona, allora è possibile restringere ulteriormente l’arco temporale per affermare che il fatto si realizzato fra il 12 e il 23 maggio. […] Come ben si comprenderà allora, se è dato incontestabile che il 18 maggio il dott. Falcone fosse in Palermo, e se l’episodio del mancato avvistamento della Fiat Croma tende, secondo le dichiarazioni degli imputati, ad avvicinarsi a tale data, la tesi secondo cui il giorno in cui essi avevano perso di vista la Croma era proprio il 18 maggio non appare destituita di fondamento. Vero che Giovanni Brusca ha ricostruito il fatto in modo diverso, sostenendo che l’occasione era andata persa perché trattandosi di un lunedì, e quindi di un giorno al di fuori di quelli ricompresi nel fine settimana, gli operatori non erano pronti nelle loro postazioni, non facendo pertanto alcun collegamento fra l’episodio e il fatto che i pedinatori avevano perso di vista la macchina. Le considerazioni espresse dall’imputato non devono però fuorviare, perché quella riportata è l’opinione di Brusca, cioè di un imputato che ha avuto la responsabilità della direzione delle operazioni per quanto atteneva al settore relativo al gruppo che doveva operare in Capaci e nei pressi dell’aeroporto. […]. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA
I Ganci pedinano il giudice per le strade di Palermo Per una tragica fatalità il posto dove era solitamente parcheggiata l’auto del giudice era vicinissimo ad una delle macellerie dii Raffaele Ganci e dai suoi familiari. L’abitazione di Giovanni Falcone era a pochi metri dalla loro bottega Si è già accennato in precedenza che l’organizzazione del progetto criminoso non poteva prescindere da un elemento, cioè l’accertamento, con un sufficiente anticipo, dell’arrivo del giudice, perché era necessario, come si può immaginare sin da ora, attivare tutta la serie di meccanismi necessari per poter arrivare all’esplosione, e cioè, principalmente, collegare i fili del detonatore alla ricevente e far appostare il commando esecutivo sulla collinetta. La incertezza su tale incognita poteva essere superata attraverso due soluzioni, di cui la prima, e anche la più semplice dal punto di vista astratto, si incentrava sull’input proveniente da Roma che segnalava la partenza del dott. Falcone. La meritevolezza di tale soluzione si apprezza nella misura in cui sarebbe stato sufficiente seguire gli spostamenti del giudice nella capitale, per poi avvisare la Sicilia nel momento in cui egli si dirigeva all’aeroporto: lo stanziamento di uomini da destinare a tale operazione avrebbe però sicuramente comportato un sacrificio per l’organizzazione, perchè si trattava di collocare e far muovere un gruppo nel continente, in un area sulla quale Cosa Nostra non godeva di tutto il supporto su cui poteva contare in Sicilia. Ma anche a dare per buona tale soluzione, era comunque necessario per maggiore sicurezza che si prevedesse, come minimo, un osservatore a Punta Raisi per avere la certezza che il giudice atterrasse a Palermo. Vero è che tale incertezza poteva essere mitigata dalla predisposizione di un servizio di monitoraggio delle abitudini di vita della vittima, in modo tale da poter verificare statisticamente con quale frequenza egli ritornava a Palermo e se vi fosse un periodo della settimana in cui tali rientri erano più usuali: tale attività però nulla aggiungeva al bisogno di verificare l’effettivo arrivo del giudice all’aeroporto, perché solo tale elemento avrebbe dato al gruppo la certezza che il bersaglio da colpire sarebbe passato dal luogo ove era stata predisposta la carica. In definitiva, la soluzione indicata finiva con il richiedere comunque, sia che l’imput partisse da Roma sia che fossero i palermitani a provvedervi, la presenza di un uomo a Punta Raisi, che confermasse agli altri l’atterraggio. D’altro canto è chiaro che se dal territorio locale non era possibile ricavare alcun segnale che deponesse inequivocamente per l’arrivo del giudice, quella della base nella capitale sarebbe stata l’unica soluzione per risolvere il problema. E’ emerso invece dall’istruttoria dibattimentale che esisteva il modo per dare agli operatori la certezza ricercata, ed era costituito dalla presenza dell’auto di servizio sotto l’abitazione del giudice. Tale presenza era di immediato rilievo, posto che, per una tragica fatalità, il posto dove era solitamente parcheggiata l’autovettura era vicinissimo ad una delle macellerie controllate da Raffaele Ganci e dai suoi familiari, i quali non potevano non essere a conoscenza del fatto che l’abitazione del giudice che intendevano eliminare era lì a 50 metri da un loro negozio, non fosse altro per l’agitazione che investiva la zona ogniqualvolta arrivava il dott. Falcone (trattasi di circostanza questa espressamente riferita da Calogero Ganci). E’ quindi ragionevole, oltre che verosimile, sostenere la tesi secondo cui, anche se in una prima fase vi era stata l’intenzione degli operatori di ottenere l’informazione relativa all’arrivo del dott. Falcone dalla capitale, tale progetto aveva ceduto, dopo, il passo ad altro, che si imponeva rispetto al primo per la estrema facilità della soluzione su cui si fondava: se infatti attraverso il monitaraggio dei percorsi della Croma si fosse riusciti ad ottenere uno schema, sia pur approssimativo degli spostamenti del giudice in Sicilia, una volta accertato che la macchina si muoveva solo per lui, sarebbe stato sufficiente controllare tutte le volte che si spostava e la direzione in cui si muoveva, perchè a quel punto bastava accertare che si stesse dirigendo verso la circonvallazione, quindi a Punta Raisi, per capire che il giudice stava arrivando. Questa soluzione non comportava alcun spostamento di uomini nel continente e consentiva con ragionevole certezza di conoscere, con un buon margine di anticipo, il momento di arrivo del giudice a Palermo. Bisogna riconoscere che sotto questo profilo la prima alternativa avrebbe consentito agli operatori di lucrare un maggiore spazio di movimento, perchè si poteva far affidamento anche sul periodo del tempo di durata del volo, circa cinquanta minuti, per metterere in atto gli ultimi preparativi. Ma il rapporto costi/benefici non valeva comunque a spostare la scelta su tale soluzione: la dilatazione dei tempi che precedevano l’ultima fase della preparazione dell’attentato, dettata dal fatto che la sicurezza sull’arrivo del giudice si sarebbe avuta con la partenza del volo, trovava bilanciamento nel fatto che, nel caso opposto, l’allertamento degli esecutori avrebbe potuto comunque cominciare ben prima della constatazione dell’atterraggio, e per la precisione a partire dall’istante in cui si realizzava che la Croma aveva preso la direzione dell’aeroporto: quindi, a ben vedere, tenuto conto del fatto che l’autista doveva avere il tempo di raggiungere dalla città l’aeroporto, il margine di maggior disponibilità che nasceva dalla prima soluzione si assottigliava di molto, e finiva con il vanificanre il vantaggio, residuando pertanto a carico della stessa solo quei profili di negatività di cui si è fatto cenno in precedenza.
IL RACCONTO DI CALOGERO GANCI Aveva appreso della realizzazione dei preparativi della strage solo nel maggio 92, ed era subentrato solo in un secondo momento nel gruppo che si stava occupando nei pedinamenti dell’autovettura. Il fatto che non sia stato richiesto subito il suo aiuto, cioè sin dalla prima volta che aveva appreso, più o meno sommariamente, di quello che si stava progettando, lascia pensare che probabilmente i tempi stringevano e quel gruppo non era ancora pronto a fornire agli altri le informazioni necessarie o che l’attività di pedinamento necessitava di una persona in più. Al riguardo Ganci ha dichiarato: «…Guardi, io nel maggio 1992,… sarà stato un quindici giorni prima che avvenisse il fatto della strage di FALCONE. …ci trovavamo in VIA LANCIA DI BROLO… una macelleria che ci abbiamo noi in VIA LANCIA DI BROLO…io stavo ristrutturando un rustico e… sul lungomare di CARINI,… , io avevo degli operai lì, quindi andavo a sovraintendere questi lavori… ci andavo ogni giorno dopo… dopo mezzogiorno, l’una, qua…. mio padre siccome sapeva che io e… stavo… stavo prendendo dei lavori in quella zona, andavo a CARINI ogni giorno. Ora in quel periodo mio padre mi disse, dice: “Cerca di evitare in questi giorni di andare a CARINI” perché fra poco tempo doveva avvenire un fatto… . E quindi mi ha… mi ha avvisato di… di non recarmi in quel posto… CARINI è subito dopo CAPACI. …io capii… capii che stava avvenendo qualcosa di brutto, tipo un fatto… diciamo, stragista, ecco… perché per… per… io… avere dei problemi ad andare a CARINI, significava che c’era in rischio la vita di… mia e di persone che magari passavano in quel posto, mi spiego?» Successivamente Ganci ha riferito il passaggio dalla fase conoscitiva a quella della partecipazione attiva alla realizzazione dell’attentato, che, secondo l’imputato, erano intervallate dal passaggio di due o tre giorni: «Io… ho svolto l’incarico di pedinamento della macchina del Dottor FALCONE. io in quel mese di maggio… non ricordo di preciso se fu intorno al dodici, il quattordici, mi dovevo mettere in viaggio per… per PALERMO-BOLOGNA, per… per questioni di… di lavoro. E avevo acquistato due biglietti aereo a nome di… uno di GANCI CALOGERO a nome di ANTONINO MORTILLARO, ora per regola, in famiglia nostra, nel momento che io dovevo partire, dovevo dire a mio padre che stavo partendo. Nel momento in cui io andai da mio padre per dire che stavo partendo, per ragioni di lavoro, lui mi disse… dice: “no – dice – non puoi partire perché abbiamo bisogno di te”. In quella circostanza c’era anche SALVATORE CANCEMI… fu dopo che mio padre mi disse di non passare da Carini. questione di giorni fu… qualche giorno, qualcosa del genere, uno, due, tre giorni… …che succede? Io vado a dire a mio padre che dovevo partire e lui mi disse… mi disse: “no, non puoi partire, perché abbiamo bisogno di te” mi disse “abbiamo” perché c’era il CANCEMI, anche lì… anche in quella… in quella circostanza. E mi disse che… ero incaricato che… dovevo seguire la macchina del Dottor FALCONE, e questo fu il giorno che io… che io… che io poi collego il fatto che mio padre qualche giorno prima mi aveva detto di non andare a CARINI, perché diciamo… doveva succedere un fatto… …e collego il fatto che allora era… era collegato alla… a compiere l’attentato al Dottor FALCONE. …la conversazione avvenne nella macelleria in VIA LANCIA DI BROLO. perché io di solito il pomeriggio sempre passavo lì». Era iniziato così, secondo l’imputato, la fase dei pedinamenti della Fiat Croma, ai quali secondo Ganci avevano partecipato, oltre al fratello Domenico e al cugino Antonino Galliano, anche Salvatore Cancemi e suo padre. L’imputato ha confermato che, al momento del suo intervento, il gruppo aveva già cominciato a seguire l’auto di servizio, e che già era a conoscenza dei giorni nei quali era più frequente il rientro del magistrato in città. I mezzi usati erano dei motoveicoli, di varia cilindrata, che meglio potevano consentire al gruppo di districarsi nel traffico e non perdere di vista l’auto di servizio, privilegiata negli spostamenti perchè poteva usufruire delle corsie preferenziali. Anche per questa fase, vitale si proponeva il ricorso ai telefonini cellulari di cui tutti e tre i componenti del gruppo erano dotati: […].
QUELLA VOLTA CHE LA FIAT CROMA CAMBIÒ STRADA L’imputato ha ricordato anche di un percorso diverso, cioè di una volta in cui la Fiat Croma aveva imboccato la strada per la circonvallazione, ma non aveva preso la direzione Punta Raisi:[…]. Seguendo sempre il racconto relativo agli eventi verificatisi nel corso dell’attività di pedinamento, Ganci ha citato un episodio importante: «Ci fu una volta che noi abbiamo perso di vista la macchina, perché prese… prese delle corsie preferenziali. Quindi, noi con i ciclomotori non potevamo entrare nelle corsie preferenziali, quindi dovevamo intuire dove suppergiù lui andrebbe… andava ad uscire, ma ci sfuggì, e infatti per quel giorno, fino al pomeriggio, la macchina non entrò più al posteggio. … fu nella zona di via… VIA DANTE. …Perché… che succede? Quando lui usciva dalla… dal Tribunale, diciamo, attraversava PIAZZA VITTORIO ORLANDO e girava per… diciamo, una strada che conduce a PIAZZA SAN FRANCESCO DI PAOLA. Quindi, VIA SAN MARTINO e… da VIA SAN MARTINO si può accedere sia in VIA DANTE… a salire e sia a scendere, a salire corsie preferenziali non ce n’è…. fu qualche giorno prima che lui si recasse a quel capannone. , qualche giorno prima che l’autista si recasse a quel capannone…. io come riferimento le posso dare una cosa, che io il… quest’attività di pedinamento l’ho fatto per circa otto o dieci giorni, questo è stato. …il periodo è stato non oltre otto/dieci giorni». Scopo del pedinamento era dunque quello di verificare la direzione che la Fiat Croma prendeva, perchè, una volta che si era realizzato che la direzione era Punta Raisi, il gruppo doveva darne notizia tramite i cellulari a chi attendeva il passaggio del giudice dal luogo ove era stato caricato il condotto: «…Appena capivamo, oppure c’era quella intuizione che la macchina si poteva recare al Tribunale, perché imboccava una strada che portasse in quella direzione, noi avvisavamo, noi dovevamo seguire la macchina per intuire… che stava andando verso l’autostrada e poi telefonare…col cellulare. … guardi, il numero di telefono che dovevano chiamare… che questo compito diciamo ce l’aveva mio fratello DOMENICO e mio cugino GALLIANO, era una persona che aspettava la telefonata, diciamo, e… sulla zona di CAPACI. non lo so chi era la persona che doveva ricevere.. Io, guardi, lo dico per chiarire, non ho mai visto altre persone sull’attentato di CAPACI oltre mio fratello MIMMO, ANTONINO GALLIANO, mio padre e il CANCEMI, sapevo che c’erano altre persone lì, e chi erano, ma non li ho mai visti. … mio fratello DOMENICO e GALLIANO l’avevano scritto, appuntato in un bigliettino che tenevano in tasca…io mi ricordo pure, io ho appreso che c’era una persona all’areoporto, quindi io non so se era la persona dell’areoporto che riceveva la telefonata, oppure la persona che era dislocata in qualche altro posto… io mi ricordo che ci fu qualche po’ di volte, mio fratello telefonava a qualcuno, e… DOMENICO. …però mica io… diciamo, posso dire a chi e a non chi, non lo so». L’attività di pedinamento si era svolta esclusivamente di mattina; le ore pomeridiane erano dedicate alla sorveglianza dell’autovettura dalla macelleria o dai luoghi ad essa limitrofi, avendo accertato che di pomeriggio la Fiat Croma non si era mai mossa. […] L’imputato ha riferito inoltre di incontri verificatisi nel corso dell’attività preparatoria nel suo magazzino, dove erano soliti incontrarsi Salvatore Cancemi, Salvatore Biondino e suo padre: […]. Le dichiarazioni esposte in precedenza sono incentrate principalmente sulla ricostruzione dei momenti relativi al pedinamento. L’apporto di Ganci alla ricostruzione dell’intero fatto per cui vi è processo è però più ampio. […] Raffaele Ganci aveva approfittato della vicinanza del figlio per rivelargli le sue riserve sul comportamento di Brusca in ordine alla scelta dei membri del suo commando: «[…] Gli errori sono stati sia usare dei telefonini, sia ehm… altri errori che mio padre mi evidenziò, nel senso che dice un giorno quando arrivò a CAPACI, vidi lì il BAGARELLA, il DI MATTEO, LA BARBERA cioè queste persone che mio padre era… era restio a dargli questa confidenza, capisce? …vorrei continuare, ehm… e mio padre mi disse che anche… anche su questo, dice aveva avuto tipo uno screzio con il BIONDINO, perché gli disse a questi qua, dice: “chi è che li ha portati?”. E il BIONDINO si giustificò, dice: “ZU’ RAFFAE’ fu BRUSCA, cioè GIOVANNI BRUSCA a portarli – dice – io lo capisco che lei… purtroppo – dice – oramai sono qua – dice – che dobbiamo fare?” prima perché erano persone che mio padre, diciamo, non conosceva bene, e… poi perché, diciamo per commettere un ce… un omicidio di questo stampo, dicevo così eclatante, diciamo doveva essere un gruppo, diciamo stretto, ristretto come è sempre stato, Dottor Tescaroli, io… io perché le dico questo, perché nell’omicidio CHINNICI, ehm… omicidio del DALLA CHIESA, e CASSARA’ e… ci sono stati sempre questo gruppo ristretto che si conosceva bene, ci si capi… fra di loro c’era una certa armonia da… da tanto tempo, quindi era anche un fatto che queste persone che non si conoscevano che era in quel posto, era anche un… uno sbaglio capisce? quando noi abbiamo commesso questo omicidio, le parlo io di CHINNICI, DALLA CHIESA, e altri erano sempre i GANCI, i MADONIA, i GAMBINO, e i BRUSCA, questi eravamo, capisce? Non c’erano altre persone oltre… oltre questo gruppo. […]». A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA