STRAGE DI CAPACI – Articoli 4° Parte

INTERVISTA AD UOMO DELLE SCORTE  NELLA QUALE PARLA DELLA PAURA.. POCO TEMPO PRIMA DELLA STRAGE DI CAPACI: “Chiunque fa questa attività ha la capacità di scegliere tra la paura e la vigliaccheria. La paura è qualche cosa che tutti abbiamo: chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange, è un sentimento umano, è la vigliaccheria che non si capisce e non deve rientrare nell’ottica umana. Io come tutti gli uomini ho paura indubbiamente, non sono vigliacco, me ne sarei già andato. Beh nella mia posizione la paura è magari lasciare i bambini soli. Per uno scapolo è diverso. Per uno sposato si gestisce in virtù della propria famiglia: si ha paura di lasciarli soli, si ha paura di non avere la capacità di morire per una ragione valida. Io scorto un uomo ad altissimo rischio, un uomo che ha dato la possibilità a molti di credere. Non lo scorterei sicuramente se non avessi la massima fiducia nei suoi confronti; ho messo la mia vita a rischio per lui. Perché probabilmente è uno dei pochi di cui io forse ho tracciato una tale identità antimafia che mi permette di stare bene con me stesso, lo scorto perché credo che sia onesto, sennò non lo scorterei. Se un personaggio decide di combattere un fenomeno come la mafia e non ha l’aiuto della società, è normale che bisogna scortarlo. Se qualcuno decide di ammazzare un personaggio lo fa a prescindere da quanti uomini ci siano di scorta. Però io pecco di presunzione: io dico che attualmente siamo nelle condizioni, noi di questo apparato di sicurezza, se vengono nel contesto di autobomba va bene e li si è persi, li siamo sconfitti, la bomba fa il danno e tutto… Ma se dovessero venire nel contesto dell’attentato fatto ad un uomo cioè con l’uso di armi leggere o mitragliatrici, beh lì abbiamo la presunzione di lanciarne qualcuno a terra anche noi. La faccia della mafia è la faccia della gente che vede uccidere un uomo e non testimonia, ecco ci sono mille facce, mille momenti che vengono fuori quando la gente ha paura. La mafia è forte proprio perché la gente ha paura, e la paura nasce dalla volontà di non credere in chi potrebbe rappresentare, cioè la gente crede di non poter avere fiducia nello stato. Si sconfigge la mafia con un solo modo secondo me: facendo capire ai cittadini che i tempi del rivolgersi ad un “Peppino” o ad un “Zu Cicio” sono terminati, esiste uno stato, esistono dei rappresentanti e sono loro che devono risolvere i problemi, il vicino di casa non li può risolvere, può risolvere l’ascensore quando si è rotto…” 


                                                

Fra sottopassaggi e cunicoli, la ricerca del luogo dove fare la strage Nei primi giorni di maggio Salvatore Biondino incarica Giovanbattista Ferrante di trovare il luogo esatto dove fare l’attentato. Ferrante aveva individuato tre sottopassaggi ed un cunicolo ma queste opzioni non furono prese in considerazione. Sarebbe stato poi, Nino Troia, a trovare il luogo adatto per l’agguato  Il contributo dell’imputato [Giovanbattista Ferrante, ndr.] alla realizzazione della strage si è sostanziato in diverse attività delle quali il travaso dell’esplosivo nella casa di Troia ha costituito un momento che è però preceduto da altro, di uguale rilevanza, relativo al contributo svolto dall’imputato nell’individuazione del luogo ove si doveva collocare la carica esplosiva, che per comodità espositiva, secondo quanto già fatto per Giovanni Brusca, si tratterà a seguire per passare poi alla fase del travaso. Orbene, secondo Ferrante, fu Salvatore Biondino a commissionargli l’incarico di trovare dei posti dove fare l’attentato, e ciò avvenne nei primi giorni di maggio. La scelta ricadde su lui perché, a suo dire, era persona di fiducia del Biondino e perché, occupandosi di autotrasporti, anche in prima persona, era pratico delle strade, sia quelle principali che secondarie, che si incrociavano in quei luoghi, che fra l’altro lui ben conosceva anche perché lì aveva sempre vissuto: tanta esperienza gli aveva consentito di individuare tre sottopassaggi ed un cunicolo. Al momento del conferimento dell’incarico, pur intuendo che l’attività richiestagli era preposta all’organizzazione di un attentato, non sapeva ancora chi fosse la vittima designata, ma aveva capito comunque che si doveva trattare di un bersaglio rilevante perché si inseriva sulla scia della strategia segnata dall’omicidio Lima, avvenuto pochi mesi prima (marzo 92). […] Le indicazioni fornite dall’imputato non vennero però accolte perché, come già traspare da tutto quanto sostenuto in precedenza, l’esigenza che gli operatori avevano chiaramente avvertito e dovevano soddisfare, era quella di trovare un posto più piccolo, tecnicamente si potrebbe dire confinato, ove riporre l’esplosivo. […] L’imputato è stato in grado di riferire anche chi era stato a trovare il posto dove fu poi effettuato l’attentato, attribuendo tale merito a Troia, che si era mosso in tal senso sempre su incarico di Salvatore Biondino: «…TROIA è il sottocapo della famiglia di CAPACI, ed è la persona di fiducia di SALVATORE BIONDINO per quanto riguardava la famiglia di CAPACI, ci si riferiva e si parlava sempre con lui per qualsiasi problema della famiglia di CAPACI…BIONDINO e TROIA sono andati a vedere quest’altro posto. Io non ero presente lì con loro. Io aspettavo nel casolare, per intenderci, quello, dove c’era la giumenta, ma non ero lì con loro».

IL RUOLO DI SALVATORE BIONDINO  Superato questo momento preliminare, può passarsi alla fase che qui interessa e cioè quella relativa alla composizione della carica esplosiva. […] Inoltre va sottolineato che le stesse dichiarazioni, per il ruolo rivestito dall’imputato, esponente di un mandamento “di città”, portano alla conoscenza di chi elabora i dati l’apporto del gruppo palermitano, che, come ormai è emerso, vede in Salvatore Biondino uno dei maggiori rappresentanti, gruppo che viene coinvolto in questo momento perché è da lì che giunge parte dell’esplosivo, cioè quello che, sulla base di quanto si è appreso finora, secondo Brusca e La Barbera, era nella casa di Troia a Capaci. Ferrante infatti ha descritto con quali modalità e da parte di chi arrivò a Capaci questo secondo tipo di esplosivo. L’operazione ebbe inizio in un luogo nuovo, non ancora emerso dalle descrizioni degli altri imputati, cioè si trattava di un casolare, di cui disponeva sempre Troia, nel quale Salvatore Biondino ordinò al Ferrante e a Salvatore Biondo di portarsi perchè lì doveva arrivare il materiale: ciò avvenne grazie all’apporto Giuseppe Graviano ( «GIUSEPPE GRAVIANO lo avevo conosciuto da credo, da qualche, da un anno, un anno e mezzo prima almeno, praticamente dopo l’arresto di PEPPUCCIO LUCCHESE. Dopo l’arresto di PEPPUCCIO LUCCHESE cominciò a venire PEPPUCCIO GIULIANO per qualche appuntamento con RIINA SALVATORE, e dopo i veniva GIUSEPPE GRAVIANO agli appuntamenti. Quindi lo avevo conosciuto già da un anno e mezzo, da uno o due anni, sicuramente») che era giunto sul luogo a bordo di una Polo dalla quale Ferrante, Biondino, Biondo, Battaglia e Biondino scaricarono quattro sacchi di tela: «…Dopo avere effettuato le prove, SALVATORE BIONDINO mi diceva di farmi trovare assieme a SALVATORE BIONDO nel casolare di NINO TROIA dove teneva il cavallo e le galline, perché c’è un piccolo pollaio proprio, lì, perché doveva, dovevano portare dell’esplosivo. Io e SALVATORE BIONDO eravamo con la mia macchina e aspettavamo nel casolare, e nel primo pomeriggio è arrivato GIUSEPPE GRAVIANO con la sua macchina, aveva una POLO VOLKSWAGEN. E’ arrivato, si è fermato, ha fatto marcia indietro per avvicinarsi, diciamo, all’ingresso del casolare, ha aperto lo sportello posteriore e, abbiamo scaricato io e SALVATORE BIONDO, eravamo, noi e GIOVANNI BATTAGLIA, credo che c’era pure GIOVANNI BATTAGLIA a scaricare, diciamo, i sacchi di esplosivo…Erano dei sacchi tipo di tela, però era una tela di plastica, abbastanza grossi e molto pesanti, difatti eravamo in due e credo che si chiama tela iuta, questa usata per i sacchi…. i colori erano chiari: erano bianchi, credo proprio che erano bianchi. …era una chiusura non artigianale, cioè non era chiusa con lo spago, era chiuso, cucito credo proprio a macchina, quindi era una chiusura, diciamo, industriale, non era con il laccio come si chiude generalmente un sacco. ….i sacchi li abbiamo praticamente scaricati vicino alla prima stanza, perché lì ci sono, diciamo, questo casolare è formato da due stanze, una dove c’è un tavolo, delle sedi, mi pare che c’è pure un frigorifero, una branda, un frigorifero che però viene tenuto come ripostiglio, non funzionante. Poi c’è un’altra stanza dove avevano dei mobili e cianfrusaglie varie, accanto c’è un pollaio, nella parte posteriore c’è una piccola stalla dove tenevano, mi pare, due vitelli proprio all’epoca della strage mi pare che avevano due vitelli…. Li abbiamo scaricati in questa, nella prima stanza… i sacchi erano quattro, però sicuramente più di cinquanta chili, cioè dai cinquanta chili in su, sicuramente, meno di: cinquanta chili no… L’esplosivo prima è stato messo nella prima stanza, successivamente è stato, dopo che è andato via GRAVIANO, dopo è stato caricato nella macchina di NINO TROIA, aveva una FIAT UNO, è stato caricato, e lo abbiamo portato vicino al passaggio a livello, nella villetta che aveva vicino al passaggio a livello». Arrivato il Graviano al casolare di Troia, si pose agli avventori il problema di trasportare l’esplosivo nella villa vicino al passaggio a livello: ciò era avvenuto, secondo Ferrante, nel primo pomeriggio grazie all’aiuto di Salvatore Biondo e Nino Troia, che aveva seguito primi due a bordo della sua Fiat Uno, sulla quale era stata caricato l’esplosivo, mentre Ferrante e Biondo lo precedevano a bordo della Mercedes del primo: «Il trasporto dell’esplosivo è stato fatto nel pomeriggio si, nel primo pomeriggio è stato fatto… Il problema mi pare che era se potevamo andare a mangiare oppure no, quindi è stato proprio fatto nel primo pomeriggio, ed è stato fatto con due macchine, io e SALVATORE BIONDO eravamo con la mia, con la MERCEDES e abbiamo battuto la strada alla FIAT UNO di TROIA, li abbiamo caricati nella FIAT UNO perché chiaramente veniva molto più comodo caricarli nella FIAT UNO che ha il portabagagli più basso rispetto alla MERCEDES… per quanto riguarda il percorso fatto… strade ce ne sono tre per arrivare al casolare, diciamo, alla casetta vicino al passaggio al livello. Però, credo, che abbiamo fatto la strada quella, diciamo, al centro del paese…. abbiamo scaricato subito i sacchi, li abbiamo scaricati vicino al cancelletto, e poi praticamente abbiamo spostato la mia autovettura, li abbiamo caricati con una carriola, diciamo, li abbiamo spostati da dove li avevamo messi davanti al cancelletto, e li abbiamo messi dietro la casa di NINO TROIA, vicino dei rovi, ci sono dei rovi che costeggiano, proprio dietro la casa, e li abbiamo messi lì questi sacchi…li abbiamo sistemati praticamente sotto, nascosti, diciamo, nella vegetazione e mi pare, che li abbiamo coperti con un telo di cellofan».

I BIDONI NASCOSTI SOTTOTERRA Ecco dunque che si chiarisce, stando alle dichiarazioni di Ferrante, l’origine di quella parte di esplosivo con il quale, secondo Brusca e La Barbera, erano stati riempiti parte dei bidoncini costituenti la carica esplosiva. Secondo l’imputato, successivamente all’arrivo dell’esplosivo portato da Graviano nel casolare e al trasporto di questo alla villetta di Capaci, era arrivato proprio in quest’ultimo luogo, quello proveniente da Altofonte, ed era già sera rispetto al pomeriggio quando ci fu il trasbordo fatto da lui.  […] Quanto all’indicazione materiale delle persone che avevano partecipato all’operazione, l’imputato ha indicato come persone che con certezza erano lì con lui, riferendo di SALVATORE BIONDINO, SALVATORE BIONDO, NINO TROIA, GIOVANNI BATTAGLIA, tale PIETRO, (che successivamente poi ha appreso essere RAMPULLA), GIOE’, GINO LABARBERA, e durante l’operazione di travaso erano arrivati GANCI RAFFAELE e CANGEMI SALVATORE, che però erano andati via dopo poco perché erano già in tanti e non c’era perciò bisogno del loro contributo.  […] Quanto alle caratteristiche morfologiche dell’esplosivo utilizzato nel travaso, giova sottolineare che l’imputato ha riconosciuto di non essere esperto in materia e di non aver mai visto comunque un esplosivo di quel tipo: «L’esplosivo che io ho travasato, era praticamente palline, forse non tutte regolari, però erano delle palline, mi pare che erano proprio di colore giallo, di colore bianco, non ricordo se davano sul giallino, però, ripeto, era un esplosivo che io non avevo mai visto…mentre si caricava, si schiacciava l’esplosivo, notavo che era un esplosivo forte nel senso che dava fastidio agli occhi e alla gola, respirando vicino al bidoncino».  Quanto al ruolo di Pietro Rampulla, l’imputato ne ha sottolineato l’attitudine a dirigere i lavori per le esperienze maturate, ricordando ad esempio che spesso lo aveva sentito raccomandare ai partecipanti alle operazioni di travaso di non fumare vicino all’esplosivo, sottolineando che Salvatore Biondino era, fra coloro che fumavano, quello che si segnalava più frequentemente per i richiami all’ordine: «…PIETRO RAMPULLA era la persona… era il tecnico degli esplosivi, era lui che ci dava indicazioni di come maneggiarli».  Ultimate le operazioni di riempimento dei contenitori, Ferrante ha raccontato che furono riposti dietro la casa, riparati dalla vegetazione: ciò accadde in sua presenza, e, considerato che il giorno successivo aveva constatato che i bidoni erano stati nascosti sottoterra in una buca sotto del letame, è logico derivare che quest’ulteriore operazione di occultamento era stata effettuata dopo che lui andò via. […]. Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


ECCO COME SI SCOPRONO TUTTI I BOSS DEL COMMANDO L’analisi del traffico sui telefoni di Gioacchino La Barbera e di Santino Di Matteo portano gli investigatori a Giovanbattista Ferrante, un uomo d’onore al tempo ancora sconosciuto agli inquirenti Le acquisizioni di cui si è dato sinora conto consentivano di approfondire ancora di più l’originario spunto investigativo, perché l’avvenuta individuazione di parte di coloro che, fondatamente, poteva presupporsi avessero avuto qualcosa a che fare con l’evento-strage, spingeva gli investigatori al passo successivo, cioè quello di verificare se, attraverso il controllo del traffico cellulare fra gli apparecchi intestati ai soggetti individuati, potesse risalirsi all’individuazione di conversazioni telefoniche fra gli stessi nei momenti prossimi alla realizzazione dell’attentato. Ciò sulla base di una logica molto elementare, che è ben illustrata dal teste Pansa Alessandro dirigente della Polizia di Stato, (escusso all’udienza del 9-1-96). «Poiché il giudice Falcone era partito da Roma con un volo non di linea e quindi con un orario che non poteva essere conosciuto all’esterno, prestabilito, poiché vi era stato poi un trasferimento, vi doveva essere un trasferimento arrivato a Palermo, l’aeroporto di Punta Raisi al centro urbano di Palermo lungo un tratto autostradale, si pensò che il commando, coloro che avessero organizzato l’attentato avevano bisogno di comunicare tra di loro trovandosi in gruppi sparpagliati, divisi teoricamente tra Roma e Palermo, e a Palermo in diversi luoghi. Poiché le comunicazioni tra di loro potevano avvenire quasi esclusivamente per telefono e poiché, soprattutto nel luogo della strage diversamente che dagli altri luoghi, non risultava che ci fossero apparecchi telefonici fissi se non quelli nelle case, nelle abitazioni circostanti, si pensò che fosse logico ipotizzare che il commando avesse fatto uso di apparecchi telefonici cellulari. Quindi, in linea di principio, non avendo all’epoca alcun elemento dell’immediatezza del fatto sulle modalità più specifiche di esecuzione dell’attentato, si pensò che vi potesse essere stata una comunicazione da Roma per l’orario di partenza dell’aeromobile, una comunicazione di arrivo dell’aeromobile ed una comunicazione dall’aeroporto al luogo dell’attentato per dare i tempi dell’arrivo della macchina sulla quale viaggiava il giudice Falcone. Il primo dato che isolammo furono tutte le chiamate avvenute in Sicilia tra, ripeto, se non ricordo male, tra le 17.40, momento dell’atterraggio, e le 17.58, 57, non mi ricordo, il momento dell’esplosione, che era una fascia oraria di alcuni minuti e vi erano stati effettuati in quella fascia oraria, se non ricordo male, 320 conversazioni telefoniche che interessavano poco più di 500 utenze radiomobili. In quella fascia, tra tutte queste utenze ve n’erano sicuramente alcune che potevano essere coinvolte nella vicenda; in particolare ve ne fu una che era quella che aveva effettuato una telefonata lunga, credo 320, 325 secondi, che era poi quella che fu dichiarata essere stata usata da La Barbera e Gioè nel momento del pedinamento, se così si può dire, da Punta Raisi fino all’uscita di Torretta, per seguire la macchina del giudice Falcone».

MICROFONI DAPPERTUTTO Ed ancora la Dott.ssa Pellizzari, sentita all’udienza del 6-12-95: «Noi siamo partiti dall’apparato cellulare 0337-463777 che era intestato ed in uso a Gioacchino La Barbera. Analizzando le telefonate in entrata ed in uscita su quel telefono, in particolare il giorno della strage, cioè il 23 maggio del ’92, si verificò che a partire dalle ore 17.00 in poi vi era un intenso traffico sia in entrata che in uscita con altri apparati cellulari. In particolare il traffico più intenso era con il cellulare di Di Matteo Mario Santo, che qui leggo essere il numero 0336-890173, ma esisteva traffico anche con gli apparati cellulari intestati a Ferrante Giovanbattista, che è il numero 0337-957725 e con un altro apparato cellulare intestato a Ruisi Utro Mariano che è lo 0336-8903. All’epoca dell’attentato Gioè Antonino non aveva ancora in uso un apparato cellulare e quindi il suo apparato fu immediatamente escluso, in quanto, pur avendo lui poi acquisito un apparato cellulare che era intestato a Gioè Anna, le prime telefonate riferibili a quel telefono erano del 2 giugno, e quindi in epoca successiva alla data dell’attentato. Alle 17.02, quindi in orari abbastanza prossimi rispetto a quelli in cui avvenne poi l’attentato, il La Barbera Gioacchino, quindi il cellulare di La Barbera Gioacchino riceve una telefonata dal cellulare di Ruisi Utro Mariano, della durata di 8 secondi. Alle 17.05, che è la telefonata successiva, il cellulare di Ferrante Giovanbattista effettua una telefonata al cellulare di La Barbera Gioacchino della durata di 11 secondi. Stessa situazione alle ore 17.48, sempre il cellulare di Ferrante Giovanbattista, comunque intestato a Ferrante Giovanbattista, effettua una telefonata a quello di La Barbera Gioacchino della durata di 10 secondi. Alle 17.49 c’è una telefonata, una conversazione tra il cellulare di La Barbera Gioacchino e quello di Di Matteo Mario Santo, che è particolarmente significativa sia per l’orario, 17.49, sia per la durata che è di 325 secondi, quindi praticamente 6 minuti di conversazione. Questo è significativo se si considera che l’orario in cui è avvenuto l’attentato sono le 17.57 circa. Quindi, questa è una telefonata proprio a ridosso dell’attentato. Più avanti abbiamo ancora una telefonata successiva all’attentato, quindi delle ore 18.39, La Barbera riceve una telefonata sempre dal cellulare di Di Matteo Mario Santo, della durata di 25 secondi. Più avanti ancora, alle 19.49, c’è una telefonata tra Gioacchino La Barbera e Di Matteo Mario Santo, comunque tra i due cellulari in uso, intestati agli stessi, della durata di 23 secondi. Di seguito ancora, alle 19.53, altra conversazione tra il cellulare di Di Matteo Mario Santo e quello di Gioacchino La Barbera, durata 10 secondi. 19.55, altra telefonata tra il cellulare di Di Matteo Mario Santo e quello di Gioacchino La Barbera, della durata di 37 secondi. 20.06, altra conversazione, questa volta tra il cellulare di Gioacchino La Barbera e quello di Di Matteo Mario Santo, quindi in uscita dal cellulare di Gioacchino La Barbera, della durata di 42 secondi. Più avanti ancora, 20.15, il cellulare di La Barbera Gioacchino chiama quello di Di Matteo Mario Santo, durata 5 secondi. Ed infine una telefonata delle 21.03, La Barbera Gioacchino riceve una telefonata dal cellulare di Di Matteo Mario Santo, durata 8 secondi. Quindi questa è la successione delle conversazioni intercorse tra il cellulare di Gioacchino La Barbera ed altri il giorno della strage dopo le 17.00». L’analisi del traffico telefonico registrato a carico del La Barbera e del Di Matteo consentiva di far emergere una frequentazione in orari prossimi alla strage tra il cellulare di Ferrante Giovanbattista e quello di La Barbera Gioacchino. Si era cominciato pertanto a prendere in considerazione la figura di Ferrante Giovanbattista, all’epoca sconosciuto agli inquirenti, e la prima cosa emersa era che questi era nipote di Ferrante Giovanbattista, suo omonimo, noto agli inquirenti come indiziato mafioso appartenente alla famiglia di San Lorenzo. Da successivi accertamenti effettuati anche a mezzo di acquisizioni di attività investigative svolte da altri uffici, emergeva che il Ferrante veniva indicato da un collaboratore di giustizia, Lo Cicero Alberto, quale persona molto vicina a Troia Tullio Mariano. I Carabinieri che tenevano d’occhio nel mese di gennaio del ’93 Sensale Giuseppe, sul quale stavano effettuando delle attività di indagine, rilevavano che il Ferrante era stato notato entrare ed uscire dalla cava di Sensale Giuseppe, a bordo della sua autovettura. Da accertamenti emergeva anche che Ferrante Giovanbattista era socio di una ditta di autotrasporti alimentari, assieme a Gioè Giuseppina, che si accertava essere la moglie di quel Biondino Salvatore tratto in arresto assieme a Riina Salvatore. Emergeva, altresì, che nell’ 88 il Ferrante Giovanbattista era stato identificato da una pattuglia della Squadra Mobile in viale Michelangelo, a Palermo, assieme a Biondo Salvatore, odierno imputato. Anche sul conto di quest’ultimo venivano quindi effettuate delle ricerche sugli atti in archivio, in base alle quali si accertava che era collegato con Biondino Salvatore, con il quale era stato identificato o, comunque, con il quale era stato in un albergo di Genova sempre nel mese di dicembre del ’92. Con tutto ciò si qualifica in qualche modo la personalità o comunque la persona di Ferrante Giovanbattista e, su autorizzazione dell’A.G. di Palermo e di Caltanissetta, si inizia un’attività investigativa nei confronti di Ferrante Giovanbattista, attraverso sia intercettazioni telefoniche che attività di controllo del territorio. Attività che viene iniziata verso la fine del mese di giugno e che si protrae fino al suo arresto, che è del novembre del 1993. Si procedeva, poi, ad identificare Santino Mezza Nasca in Di Matteo Mario Santo, come personaggio abitante ad Altofonte, ivi nato, soprannominato Santino “mezza nasca”, figlio di Giuseppe “mezza nasca”, indiziato mafioso, personaggio del quale già il collaboratore di giustizia Di Maggio aveva parlato, indicandolo come appartenente alla famiglia di Altofonte, e al mandamento di San Giuseppe Jato. Quanto precede era dunque ciò che si era acclarato in esito agli sforzi investigativi della Dia. Occorre a questo punto esaminare quali siano stati i risultati ottenuti dai Ros.

LE INDAGINI DEL ROS SUI GANCI  L’attività del nucleo si concentrava sull’osservazione degli spostamenti, attraverso riprese televisive e fotografiche, nonché sull’intercettazione delle conversazioni, di uno degli odierni imputati, Ganci Raffaele. E’ stato lo stesso Di Caprio ad indicare i motivi per cui le indagini presero le mosse proprio dal Ganci ( ud. 23-11-95). «…Siamo partiti da Ganci Raffaele, perchè era ritenuto l’elemento di vertice della famiglia mafiosa della Noce, perchè già in passato era stato tratto in arresto per favoreggiamento personale nei confronti di Gambino Giacomo Giuseppe, che è personaggio molto rilevante all’interno di “Cosa Nostra” in quanto ci veniva indicato come il capo della famiglia mafiosa di San Lorenzo, da sempre uno delle persone di maggior affidamento per Riina Salvatore. I legami storicamente evidenziati dalla serie di sentenze che legavano la Noce, territorio controllato dalla famiglia dei Ganci, a Riina Salvatore, trovano ulteriore riscontro in quanto documentato nella relazione di servizio del giorno 7 ottobre 1992. Praticamente in quella circostanza abbiamo seguito Ganci Domenico, il figlio di Ganci Raffaele, che era andato ad accompagnare la moglie all’interno di via Lo Monaco Ciaccio nr. 32, che è in fondo alla via Auditore. Ed allora, praticamente, dall’abitazione dove c’aveva la residenza la sorella della moglie di Ganci Domenico, via Lo Monaco Ciaccio nr. 32, lui esce con l’autovettura Mercedes, percorre la via Auditore, gira in via UR15 ed arriva nel controviale di via Regione Siciliana. In viale Regione Siciliana incrocia e supera la via Bernabei, anzi Bernini, e raggiunge il bar “La Licata”; scende dall’autovettura, conversa brevissimamente con un soggetto sconosciuto, risale nuovamente a bordo della Mercedes, percorre un 20 metri, gira a destra in via Giorgione. In via Giorgione, proprio dove c’è la scritta che indica la via Giorgione, la strada è chiusa, nel senso che c’è un cancello con il divieto di accesso, e sulla destra continua e sbuca esattamente in via Bernini: più sulla destra, lì la via Giorgione raggiunge la via Bernini, sulla sinistra è posizionato il nr. 131, che è quell’isolato lì sulla sinistra, e sbuca esattamente a circa 10 metri, non di più; 10 – 15 metri al massimo sulla sinistra c’è il civico nr. 54 di via Bernini dove il giorno 15 gennaio 1993 è uscito Riina Salvatore su un’autovettura Citroen ZX condotta da Biondino Salvatore». La circostanza che uno dei figli di Raffaele Ganci, Domenico, odierno imputato, fosse a conoscenza del luogo ove si nascondeva Salvatore Riina, capo storico di Cosa Nostra, da anni latitante, costituiva pertanto circostanza che denotava l’intensità di un rapporto che, data la condizione del Riina, non poteva che essere improntato ad una grossa fiducia reciproca, e perciò sintomo di un legame profondo fra le due famiglie. Quel che destava immediatamente la curiosità degli investigatori, in esito alle prime valutazioni dell’attività di indagine a carico del Ganci, era che lo stesso, sebbene formalmente risultasse avere sia in proprio che attraverso il figlio Domenico, e altri affini (Levantino Paolo per “Amici a Tavola”) interessi economici concentrati esclusivamente nella gestione di esercizi commerciali che si occupavano della commercializzazione al dettaglio di carni bovine, veniva visto con assiduità in un cantiere edile in piazza Principe di Camporeale. Ed ancora il teste Di Caprio ha riferito: «[…] Da un punto di vista formale non vi era nessuna ragione che potesse giustificare la presenza di Ganci Raffaele all’interno del cantiere, ma soprattutto quello che ci ha dato indicazioni sul perchè Ganci Raffaele stava all’interno del cantiere e, quindi, che tipo di inserimento lui avesse in quella società è il tipo di comportamento che lui teneva all’interno del cantiere, perchè erano frequentazioni diverse da quelle che avevano i normali clienti che andavano lì all’interno che cercavano di acquistare un’abitazione. Stava all’interno, frequentava il cantiere quasi, possiamo dire, in un orario di ufficio; all’interno si muoveva e controllava l’andamento, controllava gli operai, guardava gli operai, parlava e disponeva degli operai, e quindi per noi era una partecipazione occulta. E quindi il fatto era questo: un macellaio che aveva attività anche formalmente, quindi, legate all’ambiente della macelleria, di fatto frequentava un cantiere edile. Questa era sempre stata un’altra tematica di fondo per coloro che hanno trattato “Cosa Nostra”, cioè gli appalti, che da sempre noi avevamo sentito dire che erano elemento fondamentale dell’economia di “Cosa Nostra”, più di quello che poteva essere il traffico delle sostanze stupefacenti: quindi il cantiere di via Paolo Gili è stato ritenuto per noi un obiettivo rilevante nel contesto investigativo che sostenevamo, pertanto l’abbiamo sottoposto ad analisi sia sotto il profilo dell’osservazione con riprese televisive sia sotto il profilo, successivamente, anche delle intercettazioni ambientali. All’interno del cantiere di via Paolo Gili le attività di intercettazione delle conversazioni tra presenti ha evidenziato soprattutto tre conversazioni. Queste conversazioni sono quasi tutte quelle del giorno 20 novembre 1992: c’è stata una prima conversazione in cui Ganci Raffaele alla presenza di Corso Salvatore e di Ganci Domenico, il nipote di Ganci Raffaele, non il figlio, Ganci Raffaele diceva che aveva visto un programma televisivo nel corso del quale venivano intervistati dei detenuti, e questi detenuti alla fine finivano il programma che brindavano felici proprio nella circostanza dell’omicidio e della strage del giudice Borsellino. Quindi Ganci Raffaele parlava di questo programma che aveva visto, parlava di questi detenuti che brindavano felici perchè era stato ucciso il giudice Borsellino e tutti insieme, il Ganci Raffaele con Corso, ridevano. Quindi mostravano la loro partecipazione alla gioia dei detenuti. E questo per noi era stato un momento, perchè voleva dire: “Allora queste persone, ovviamente, si propongono in termini antagonisti allo Stato e non provano disprezzo per queste persone in una situazione così riprovevole, ma ne sono liete”, quindi evidentemente erano persone che si schieravano e si identificavano nel contesto antagonista dello Stato. […]». […] In definitiva l’attività di osservazione sulla persona indicata si era mostrata proficua, essendo emersi a carico del soggetto attenzionato indizi in ordine alla sua vicinanza e frequentazione di un personaggio dello spessore di Salvatore Riina; al suo interesse nella gestione di un cantiere edile a cui formalmente appariva estraneo; ad atteggiamenti di non dubbia ostilità nei confronti delle istituzioni, e di rimando, condivisione degli scopi di organizzazione ad esse contrapposta, ed infine, e soprattutto, in ordine alla frequentazione di Cancemi Salvatore. Tale ultimo elemento può porsi come punto di partenza della successiva esposizione, perché sono state proprio le dichiarazioni di Di Matteo Mario Santo, Cancemi Salvatore e La Barbera Gioacchino, a dare una svolta decisiva alle indagini, consentendo di acquisire elementi che portavano all’emissione nel novembre 93 di ordinanze di custodia cautelare nei confronti degli odierni imputati.  Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA16 maggio 2021


E la voce passa di boss in boss: «Il giudice Falcone deve morire» Il collaboratore di giustizia ha dichiarato al processo: «…Ho incontrato Giovanni Brusca a Palermo e mi ha detto che era stato proprio lui quello che aveva premuto il telecomando…» La partecipazione dell’imputato Salvatore Cancemi alla fase dei preparativi dell’attentato si è articolata in diversi momenti, il primo dei quali, come già era accaduto per Giovanni Brusca, era collegato al ruolo da lui svolto all’interno dell’associazione mafiosa: egli infatti, successivamente all’arresto di Giuseppe Calò, rappresentante del mandamento di Porta Nuova, ne aveva preso il posto ed era diventato pertanto responsabile della gestione di quel territorio, fra i più importanti in assoluto, perché ricomprendeva buona parte della città di Palermo. Pertanto, in virtù del ruolo rivestito, Cancemi, come Brusca, era venuto a conoscenza della strage non solo per avervi dato apporto dal punto di vista materiale, ma anche ancor prima per esserne stato informato a livello ideativo. E’ opportuno pertanto che la trattazione inizi con l’illustrazione di questo momento preliminare rispetto alla fase che si analizza, cioè quella del travaso dell’esplosivo nei bidoncini avvenuto nella villetta di Capaci. Giova segnalare che Cancemi ha fatto riferimento, per indicare il luogo ove era avvenuta la comunicazione in ordine alla strage, al cantiere di piazza Principe di Camporeale, che ha costituito oggetto dell’osservazione dei Carabinieri dei Ros, su cui ha riferito il capitano Di Caprio, e che, come si è illustrato in precedenza ha fornito preziosa chiave investigativa per l’avvio delle indagini sugli odierni imputati, confermandosi quindi, anche sulla base delle rivelazioni dell’imputato, punto di incontro di soggetti gravitanti nell’orbita di Cosa Nostra, parte dei quali aveva avuto a che fare con la strage. «…Io di solito, diciamo, andavo là, incontravo GANGI RAFFAELE, ma più volte ci andava anche il BIONDINO, io lo vedevo, per motivi che parlava con GANGI, magari motivi di interessi, di cose, diciamo sempre cose di “COSA NOSTRA”, una volta ho visto CARLO GRECO, pure qua in questa… in questa costruzione.. Anche i figli di GANGI, PAOLO ANSELMO che è il sottocapo della “famiglia” della NOCE, ci andava pure, sì».

BIONDINO, IL “PORTAVOCE” DI RIINA […] Deve inoltre farsi attenzione al soggetto che secondo l’imputato si era fatto portavoce della volontà di Salvatore Riina, cioè Salvatore Biondino, soldato della “famiglia” di San Lorenzo, molto vicino ai corleonesi e personaggio che, per quanto è emerso finora, divideva le sue presenze fra Capaci e la città, e che inoltre per la sua vicinanza al Riina, secondo quanto si ricava dalle dichiarazioni di Cancemi, sembra averne assunto il ruolo di portavoce diretto: «…Il Biondino quindici, venti giorni prima di questo attentato, (che successivamente, sulla base di ulteriori approfondimenti emersi nel corso della deposizione, diventeranno 30, 40 giorni) mi aveva comunicato… mi aveva accennato che “‘U ZU’ TOTUCCIO” aveva… già era pronto per metterci una bomba a FALCONE… io mi trovavo in una costruzione a PIAZZA PRINCIPE CAMPOREALE, dove c’era GANGI RAFFAELE e io ero… di solito c’andavo a trovarlo, e qui BIONDINO ha comunicato… BIONDINO SALVATORE è una delle persone più importanti per RIINA, BIONDINO SALVATORE era tutto… era quello unitamente a GANGI, che in tutti gli appuntamenti che RIINA faceva, tutte le… le cose più delicate, appunto vi dimostro che SALVATORE BIONDINO è stato arrestato con RIINA, SALVATORE BIONDINO era quello che… che sapeva dove dormiva RIINA, io non lo sapevo, e quindi… ecco perché SALVATORE BIONDINO, perché SALVATORE BIONDINO faceva parte della commissione, il vero capomandamento che faceva parte della commissione era PIPPO… è PIPPO GAMBINO, però il BIONDINO era quello che… come era una figura pulita, incensurato, era quello che girava di più e quello che spostava RIINA negli appuntamenti e negli incontri più delicati, ecco là è venuto con SALVATORE BIONDINO a venire a dire… faceva parte del mandamento di SAN LORENZO…io ero là assieme a GANGI RAFFAELE, eravamo là a GANGI RAFFAELE e lui… siccome anche io facevo parte della commissione, quindi perché se… per dire io non facevo parte della Commissione lui lo comunicava solo a GANGI, e quindi se io ero un soldato… uno diciamo… s’appartava e lo comunicava a GANGI, quindi lo ha detto in quell’occasione, ha trovato a me e lo ha detto a e a GANGI. …mi ricordo benissimo che BIONDINO disse che: “Si stava facendo il giro per incontrare altre persone».  Il messaggio che, quindi, Salvatore Biondino aveva portato al cantiere era rivolto a due capomandamenti, cioè a soggetti che in virtù del ruolo rivestito avevano, come si vedrà in seguito, poteri deliberativi, ed era indice del fatto che Salvatore Riina aveva realizzato che era ora di agire e che pertanto bisognava portare a conoscenza di coloro che, come Cancemi e Ganci erano legittimati a decidere sul da farsi, che il piano prestabilito doveva diventare operativo. Nell’occasione dell’incontro al cantiere Cancemi si era intrattenuto con Biondino e Raffaele Ganci per mezz’ora, quaranta minuti circa, e ciò era avvenuto intorno le dieci e mezzo, le undici del mattino. Nel corso della deposizione, in sede di riesame svolto dal Pm, si è appreso dall’imputato, per quanto riguarda i momenti successivi, della sua partecipazione alla riunione di presentazione di Pietro Rampulla a Salvatore Riina, di cui ha già riferito Giovanni Brusca, della quale viene pertanto confermata l’esistenza e lo scopo, che era quello di consentire al Riina di saggiare le competenze del catanese e programmare la dinamica dell’esplosione: […]. Preso dunque atto dell’ulteriore approfondimento raggiunto in ordine alla ricostruzione della fase che precedette i preparativi materiali della strage, può procedersi oltre con l’illustrazione del racconto dell’imputato in ordine al momento del travaso dell’esplosivo.

E PARLA ANCHE TOTÒ CANCEMI Cancemi ha raccontato di essersi recato alla villetta tre volte: esclusa la prima in cui non erano potuti entrare perchè non avevano trovato nessuno in casa, le altre due si erano incentrate in incontri fra gli avventori di quel luogo e Raffaele Ganci, che lui ha dichiarato di aver solo accompagnato.Ciò che ha caratterizzato finora il ruolo dell’imputato, nel corso di questi incontri, è una mera partecipazione passiva che si era estrinsecata nella semplice assistenza ai colloqui che Raffaele Ganci via via teneva con i presenti, per lo più Bagarella e Biondino, che, per quanto lui riusciva a percepire, si erano incentrati sulla tecnica da seguire per realizzare l’attentato, questioni sulle quali Cancemi non era mai intervenuto, limitandosi ad un ruolo di mero spettatore di tutti i discorsi fatti sulla sistemazione della carica. Per quanto riguarda l’altro incontro utile, il terzo nella successione cronologica, Cancemi ha narrato che era rimasto nella villetta ad aspettare il ritorno di Raffaele Ganci, che dopo il loro arrivo alla villetta si era allontanato con Biondino in un sopralluogo del luogo ove si doveva montare l’ordigno, senza peraltro riuscire ad indicare se si trattava del luogo definitivo o altri provvisori. Quanto alla fase del travaso vera e propria, l’imputato ha negato ogni sua partecipazione, limitandosi a riferire di avere casualmente notato i bidoncini già riempiti grazie ad un’espressa indicazione del Ganci, che gli aveva fatto presente che in essi era stata riposta la polvere per il giudice Falcone. Ha descritto poi i contenitori come bidoncini non grandi, di cinquanta centimetri per lo più, un po’ grossi, bianchi con i manici scuri, e ne indicato un numero determinato, otto o dieci. Quanto ai presenti, oltre a Salvatore Biondino già citato, ha riferito di Bagarella, Brusca, Ferrante, La Barbera, Rampulla, Troia e Battaglia. Per gli ultimi due ha parlato di una relazione molto stretta nella quale risultava coinvolto anche Biondino: «Ma io posso dire che per me Battaglia era il padrone di casa di là, di quello che io ho capito, perché era lui che si muoveva diciamo di più, e… per me era lui diciamo… l’ho visto quelle volte che ci sono andato, l’ho visto sempre presente là, e l’ho visto che parlava con BIONDINO, insomma che si muoveva là… conosceva i luoghi in cui si è eseguita la strage perché BATTAGLIA è di là, è della zona… i rapporti tra BATTAGLIA e TROIA ANTONINO di quello che ho visto là… buonissimi, perché l’ho visti intimi che parlavano, erano loro due, questo TROIA e lui che si muovevano di più dentro quella casa là, in quel spiazzaletto che c’era là… le posso dire che erano persone intime con BIONDINO…». Ricostruendo quindi le fasi dell’intervento di Cancemi all’interno della fase Capaci, si è delineato il seguente racconto che temporalmente l’imputato ha collocato a otto dieci giorni prima del realizzarsi della strage: «[…]Quindi siamo andati là e, non mi ricordo bene se è stata quella volta che abbiamo trovato il lucchetto, poi ci siamo ritornati di pomeriggio, e quindi è stata quella volta che là abbiamo trovato BIONDINO, questo BATTAGLIA GIOVANNI, ‘stu “ZU’ NINO”, ZU’ NINO TROIA mi sembra che si chiama, TROIA e dopo un venti minuti, un quarto d’ora è venuto BAGARELLA, GIOVANNI BRUSCA, LA BARBERA, RAMPULLA e qualche altro mi sembra che c’era. E quindi c’è stato diciamo che GANGI si appartò un po’ di metri così con BIONDINO SALVATORE, si sono parlati… poi si sono allontanati un venti minuti, mezz’ora così con la macchina, poi è ritornato, è ritornato là, e io con GANGI dopo un… un po’ di minuti così, ce ne siamo andati. Questa è stata la seconda volta, se non ricordo male, però attenzione che posso fare un po’ di confusione, perché c’è stato… sono stati questi diciamo le volte che io sono andato là, sono andato là. Poi ci siamo ritornati, ancora, e quando siamo andati là, c’erano queste… sempre queste persone e ho visto all’angolo… perché qua, entrando c’è un marciapiede davanti, una verandina, tipo così, non una veranda diciamo proprio, una specie di verandina e poi c’è un’abitazione che si entra dentro, e all’angoletto così di fronte all’angolo dell’abitazione c’erano dei bidoncini bianchi con le maniche scure e GANGI mi disse: “là c’è, c’è la polvere per l’attentato a FALCONE”. E c’è stato che siamo stati un’altra mezz’oretta là, così, abbiamo parlato, e GANGI sempre si è appartava un po’ con BAGARELLA, un po’ con BIONDINO, siamo stati un bel pezzo di tempo e poi ce ne siamo andati. E io là non ci sono ritornato più poi, non c’è stata un’altra volta che sono andato là, quindi posso sbagliarmi di qualche rigo diciamo…sì, proprio io mi ricordo che quando sono arrivati loro, c’erano questi bidoncini che ho parla…. come ho detto prima, ehm… e credo che è stato proprio… che era arrivato da qualche minuto quando si era allontanato il GANGI RAFFAELE e il BIONDINO SALVATORE. E poi, là si parlava, quello… BIONDINO parlava con GANGI, con BAGARELLA si giravano… eh, sì, dicevano che dovevano cercare la maniera migliore, si dove… cioè, trovare la maniera migliore per piazzare questo esplosivo… ma io mi ricordo che siamo stati un tre quarti, così, diciamo, quaranta minuti, così a parlare ma, gli altri erano là, diciamo, in attesa che pigliavano questa decisione, dove dovevano trovare questo posto migliore per fare… preparare questo attentato, tutti là insomma, pronti per intervenire ed andare a mettere questo coso… ma, io, come ho detto prima, GANGI si è allontanato con BIONDINO, appunto, per andare a vedere qualche posto, diciamo, dove mettere questo esplosivo. Poi se il posto è stato quello dove è andato GANGI oppure è stato un altro quando poi… guardi, io poi, là, non ci sono andato più, ….quindi come loro si sono organizzati con precisione io non sono in grado di fornirlo, però io le posso dire che dopo io… dopo giorni, una settimana, non mi ricordo preciso, dopo giorni, io ho incontrato GIOVANNI BRUSCA, nella VIA REGIONE SICILIANA a PALERMO e lui mi disse che era proprio lui che era stato assieme a BIONDINO che dice, aveva anche BIONDINO accanto, che era quello che aveva premuto il telecomando. Questo è quello che a me, mi disse GIOVANNI BRUSCA, però, come loro si sono appostati, diciamo, là, io ripeto, me ne sono andato, non ci siamo ritornati più….». […] Va da ultimo sottolineato che, con riferimento all’approvvigionamento e alla fornitura dell’esplosivo utilizzato nell’attentato, Cancemi ha dichiarato di non essere in grado di riferire alcuna circostanza: «…Presidente io questo l’ho spiegato, che io quando sono andato là ho visto con i miei occhi questi bidoncini pieni di esplosivo che GANCI RAFFAELE mi aveva detto: “questi sono pieni di esplosivo”. Però questo travaso nei momenti che io ero là non ho nessun ricordo che io l’ho fatto questo». Le dichiarazioni di Cancemi sulla fase relativa al riempimento dei contenitori che composero la carica chiudono l’esposizione sull’argomento. Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


Corse in auto a 170 km l’ora, simulazioni di una strage Giovanbattista Ferrante racconta: «…Io ho visto delle batterie, nel casolare. Si trattava di batterie tra l’altro che non sono molto comuni a vedersi, perché sono delle batterie rettangolari, assomigliano ad un pacchetto di sigarette, forse un po’ più strette e larghe…»   Per quanto riguarda l’apporto fornito da Giovanbattista Ferrante all’ effettuazione delle prove di velocità, va rilevato che tale fase, secondo l’imputato, si è articolata in più momenti, che si differenziano fra loro per il diverso luogo ove si svolsero: in un primo momento, infatti, erano state effettuate delle prove in uno di quei luoghi che approssimativamente erano stati indicati all’inizio della fase preparatoria come quelli in cui doveva verificarsi l’attentato, e solo successivamente invece si erano svolte in prossimità del cunicolo poi effettivamente caricato. […] «Praticamente, in questo luogo, è stato svolto, diciamo, alcune prove di velocità.. ricordo che, per avere un punto di riferimento, si sono messe delle pezze, credo che era un maglione, o qualcosa del genere, legato nella rete del guarda rail, vicino al guarda rail. Ci siamo fermati per un pò di tempo lì a piazzare questa stoffa, e poi io ho fatto delle prove con l’autovettura. Le prove sono state fatte nel pomeriggio, con me in macchina c’era RAFFAELE GANCI…. le persone che sicuramente erano presenti, perché, guardi, mi viene difficile ricordare tutti, nelle diverse fasi, che erano presenti. Però, le persone che sicuramente erano presenti, erano GIOE’, e LA BARBERA che cioè era proprio nella strada. Poi, in macchinai c’ero io e RAFFAELE GANCI. Di altri, francamente, I non sono sicuro chi altro c’era. C’erano delle altre persone, ma chi, in realtà, non posso ricordarlo, con precisione. Sulla presenza di RAFFAELE GANCI la ricordo per un semplice motivo, si parlava di autovetture, e lui faceva apprezzamenti alla MERCEDES che avevo io, e contemporaneamente diceva che lui aveva un AUDI 90, difatti io chiedevo AUDI 90 o 80, no, dice, è AUDI 90 perché è un duemila, ma la stessa carrozzeria dell’AUDI 80. Questo è Il motivo che mi fa ricordare la presenza di RAFFAELE GANCI». Deve ritenersi, sulla base della dislocazione di forze che l’imputato ha riferito, che di sicuro abbiano preso parte a questa prima parte di prove Ganci Raffaele, che era con lui in auto, Gioè e La Barbera: il fatto che Ferrante abbia posizionato quest’ultimo sulla strada induce a desumere che La Barbera si trovasse anche in questo caso, come sarebbe successo poi nelle prove vere e proprie, al lato della carreggiata. […] Esaurita la parte relativa alla ricostruzione delle prime prove, può passarsi all’analisi di quanto, secondo Ferrante, era accaduto sul tratto di autostrada sovrastante il cunicolo poi effettivamente caricato con l’esplosivo. Tra questi due momenti il Ferrante ha collocato l’incontro in un casolare di via Quattro Vanelle, dove erano presenti Biondino, Biondo, Troia, Battaglia, Brusca, Gioè e La Barbera, incontro che aveva come scopo, per coloro che dovevano partecipare all’esperimento, lo scambio dei numeri telefonici, perchè i cellulari erano, come si è già visto in precedenza, indispensabili per la realizzazione delle prove. Era emersa, in quel frangente, la difficoltà di Giovanni Brusca, che si trovava nell’occasione privo di tale apparecchio, e che verrà pertanto supportato dal prestito del telefonino del figlio del Troia, Salvatore. E’ probabile che in questo particolare momento Ferrante avesse avuto modo di sentire parlare, sia pure incidentalmente, del congegno costruito per azionare la carica esplosiva, e segnatamente delle batterie: «…Io ho visto delle batterie, nel casolare. Si trattava di batterie tra l’altro che non sono molto comuni a vedersi, perché sono delle batterie che hanno una grandezza, sono delle batterie rettangolari, assomigliano ad un pacchetto di sigarette, forse un po’ più strette e larghe. […]». Successivamente, esaurita la fase dello scambio dei numeri telefonici, Ferrante si era dato carico di accompagnare La Barbera alla macchina con cui doveva poi portarsi al luogo ove questi doveva posizionarsi, e così erano cominciati i diversi tentativi, che avevano visto l’imputato percorrere ad alta velocità il percorso ricompreso fra lo svincolo del Jhonny Walker e quello di Isola delle Femmine, e ciò per tre o quattro volte. «[…] Ho lasciato nel posto dove adesso hanno aperto una pizzeria, ho lasciato LA BARBERA e GIOE’ perché dovevano prendere la loro autovettura, perché dovevano fermarsi nella autostrada… anche loro dovevano fare, dovevano andare vicino l’autostrada ripeto, il mio compito era quello di fare più volte diversi giri a diverse velocità, dallo svincolo del JONNHY WALKER dovevo passare a velocità di circa 150, 160, 170 chilometri orari sino allo svincolo della cementeria, quindi ISOLA DELLE FEMMINE, e poi ritornare. E questa operazione l’ho fatta almeno tre o quattro volte, sicuramente. Io partivo dallo svincolo del JONNHY WALKER, percorrevo il lato monte dell’autostrada, quindi dallo svincolo del JONNHY WALKER andavo in direzione PALERMO, quindi dalla direzione PUNTA RAISI, in direzione PALERMO. Facevo i due punti più vicini per entrare e uscire e passare da quel posto…io ho fatto quelle prove lì, se poi altri hanno fatto altre prove, non lo so, non lo posso escludere, non lo so…durante le prove portavo sempre con me i numeri di telefono, Il numero di telefono che avevamo precedentemente scambiato con GINO LA BARBERA, quello di SALVATORE, di SALVATORE TROIA lo ricordavo a memoria perché lo avevo conosciuto e lo usavo anche prima… nel senso che telefonavo spesso a SALVATORE TROIA, quindi ricordavo Il numero di telefono senza, senza bisogno di cercarlo nella agenda, quello del LA BARBERA non lo conoscevo e lo avevo scritto…Ricordo che praticamente avevo detto, ma, perché io non conoscevo LA BARBERA, avevo detto che era, non dice: Non ti preoccupare, è una persona pulita, non c’è problema, Il telefono è pulito, va bene, quando mi ha dato Il numero di telefono, ho visto che cominciava con un numero diverso dalle utenze di PALERMO, e quindi, ho creduto proprio che, che non c’è, ho visto che non era, diciamo, un numero in uso a PALERMO, perché i numeri allora, allora in uso a PALERMO, o erano con lo 0336, e poi , cominciavano con 1’88, o 0337, e cominciavano con Il 96, e poi gli altri numeri, il suo non cominciava né con 1’88, né con Il 96, questo ricordo, però il numero adesso tutto completo non posso ricordarlo». A riscontro della veridicità di quanto assunto dall’imputato in ordine all’effettuazione delle prove di velocità, si rileva che il giorno otto di maggio novantadue, a partire dalle ore 11.34 e sino alle ore 12.03, risultano delle telefonate dirette all’utenza intestata a SALVATORE TROIA, oltre che a GIOACCHINO LA BARBERA, e che ancora nel corso dello stesso pomeriggio, il suo apparecchio cellulare aveva contattato anche le utenze intestate a GIOVANNI RUSSO e a VINCENZO COLELLA: […].

LA BARBERA E IL TELECOMANDO Dalle dichiarazioni dell’imputato in merito alla svolgimento delle prove di velocità si deduce, oltre alla ricostruzione dell’evento visto sotto angolatura diversa rispetto a quelle finora esposte (contrariamente a Di Matteo e Ferrante, egli non era alla guida di un auto ma aveva il compito di vigilare sul funzionamento del flash), anche altro particolare che il narratore ha posto come argomento prodromico a quello attuale: La Barbera infatti ha legato la realizzazione delle prove di velocità all’individuazione del luogo dove doveva posizionarsi l’agente delegato ad attivare il telecomando, e, di conseguenza, a quella del cunicolo ove riporre la carica esplosiva. Di tali eventi prodromici l’imputato ha riferito non per esperienza diretta, ma per averne appreso esclusivamente da terzi, e segnatamente da Gioè, anche se si è rilevato nel corso di alcuni passaggi, che La Barbera aveva assistito in prima persona ai commenti di Biondino e Brusca sui motivi per cui la scelta era ricaduta sul cunicolo. Antonino Gioè era stato comunque la sua fonte principale, colui che gli aveva rilevato i componenti del gruppo (Cancemi, Biondino, Raffaele Ganci e Troia), che si era poi occupato di trovare il posto dove effettuare l’attentato. Secondo quanto La Barbera aveva appreso, in un primo tempo l’attenzione si era concentrata su una galleria, e poi su un sottopassaggio, collocato a circa trecento metri dopo l’aeroporto, che era stato però scartato perchè, per quello che gli era stato detto, il cemento armato di cui era costituito avrebbe potuto reggere l’esplosione, o quanto meno ridurne notevolmente gli effetti devastanti. Scartate queste soluzioni era stato successivamente individuato il cunicolo. Le indicazioni fornitegli da Gioè hanno consentito a La Barbera di poter riferire anche in ordine all’ubicazione del luogo dove si trovavano coloro che dovevano attivare il telecomando: a tal fine l’imputato ha usato come punto di riferimento una nuova abitazione, diversa quindi dalla villetta vicino al passaggio a livello dove era stato effettuato il riempimento dei bidoncini costituenti la carica, abitazione che è stata indicata sia da lui che dagli altri chiamanti in reità come il casolare, caratterizzato dalla presenza, in quel frangente, di alcuni animali da allevamento: «…La scelta del posto, i sopralluoghi per scegliere il posto per collocare l’esplosivo e il telecomando li avevano già fatti, perché ho capito che sia il GANCI RAFFAELE in compagnia di BIONDINO SALVATORE erano stati già giorni prima, per scegliere il posto dove collocare l’esplosivo: alternativa ce n’era più di una e quando poi hanno deciso di valutare bene se si poteva utilizzare quel cunicolo che poi è stato usato ci siamo avviati al caricamento del cunicolo …io ne ho sentito parlare, mi ripeto, che a quanto ho capito, loro, il BIONDINO SALVATORE con GANCI e CANCEMI …e Troia che era del luogo …avevano fatto diversi sopralluoghi, infatti sentivo parlare di mettere l’esplosivo all’inizio della galleria, ma solo discorsi, perché poi quando ci hanno portato sul posto dove c’era il cunicolo, non abbiamo trovato altra soluzione che usare appunto il cunicolo che poi si è usato…. ho sentito parlare di un altro non cunicolo, …un sottopassaggio che comunque non si è utilizzato perché era circondato, cioè era un sottopassaggio in cemento armato, sempre per sentito dire del gruppo che faceva il sopralluogo, dove era impossibile fare l’attentato perché c’era troppo cemento per cui c’era il dubbio che il cemento poteva tenere l’esplosione, ed era a circa due, trecento metri andando verso l’aeroporto. Il cunicolo dove ci portarono era buono perché non c’era cemento armato che poteva ostruire l’esplosione e poi perché c’era massima visibilità rispetto a dove avevano individuato il posto dove mettere…, per poi premere il pulsante, cioè era uno dei posti più idonei per potere fare l’attentato… ognuno diceva la sua, comunque erano convinti sia BIONDINO SALVATORE che il BRUSCA, erano convinti che meglio di là non si poteva agire. Mi ripeto il posto già l’avevano individuato prima e al momento in cui dovevamo essere sicuri di usare quel cunicolo e siamo stati sicuri, alchè ci siamo avviati alle prove per vedere se la ricevente poteva funzionare, se i bidoncini entravano nel cunicolo e tutto quanto, ma il posto, l’individuazione l’avevano fatto prima, BIONDINO SALVATORE, GANCI RAFFAELE con CANCEMI e TROIA NINO che era della zona… Il posto che poi abbiamo individuato era in alto nella montagna dove io non mi sono recato… era sulla montagna che era lì vicino al casolare, poco distante, rispetto a dove eravamo noi dal casolare, c’è la strada che continua, la strada asfaltata che arriva fino a un certo punto e poi si ferma, da lì, poco distante, perché poi me l’ha raccontato perché non mi sono personalmente mai recato sul posto, dove loro poi si sono posizionati per attivare il telecomando, era rispetto a dove finiva la strada asfaltata, una, un paio di centinaio di metri, dove c’era molto visibilità, si vedevano arrivare le macchine, le macchine del corteo fin a un certo punto, fino a arrivare proprio sopra il cunicolo, mi è stato raccontato da GIOE’. GIOE’, BRUSCA GIOVANNI, BATTAGLIA GIOVANNI si sono recati lì per capire e per vedere se poteva funzionare la trasmittente a quella distanza, dopodiché ci siamo avviati al caricamento del cunicolo…. Brusca diceva che il posto andava benissimo e rimaneva soltanto di vedere se la ricevente rispetto alla trasmittente se funzionava». La verifica di cui accenna da ultimo l’imputato comportava l’accertamento dell’effettività della trasmissione del segnale dal lato monte a valle, e inglobava in sè anche l’esigenza di ricercare, per poi rapportarsi ad essi, dei parametri e punti di riferimento determinati per colpire l’obiettivo in movimento.

NESSUNO NOTA NULLA […] Proseguendo nella ricostruzione degli accadimenti, può ora affermarsi che il gruppo di cui La Barbera faceva parte era naturalmente dotato della ricevente collegata alle lampadine flash, mentre coloro che si erano appostati a monte disponevano dell’apparecchio trasmittente. Tutti si erano avvalsi per comunicare di apparecchi cellulari, ed in particolare l’imputato aveva usato il suo: l’esigenza di La Barbera era in concreto quella di dar conto a chi trasmetteva il segnale, cioè Giovanni Brusca, se il momento in cui si mandava l’impulso era quello giusto per colpire l’obiettivo. Quanto all’apparecchio di quest’ultimo, La Barbera ha ricordato che si trattava di quello di Di Matteo. Per il proprio telefono invece esclude che in sua assenza possa essere stato usato da altri: […]. Quanto alla posizione presa dal gruppo di cui l’imputato faceva parte, si trattava di porsi nei pressi del cunicolo e rilevare da un lato quando si accendeva il flash rispetto al passaggio dell’autovettura sul cunicolo, e dall’altro di trovare i punti di riferimento per fissare il punto giusto: […]. La reiterazione dei giri aveva consentito alla fine, così come previsto, di individuare il punto in cui si verificava la coincidenza desiderata: in tanto si condensava il frutto di tutto il lavoro svolto, che però doveva essere ancora perfezionato perché per far si che la sovrapposizione fra i due elementi così trovata restasse registrata come punto facilmente individuabile nell’istante in cui si doveva colpire il vero obiettivo, era necessario ancorare il dato trovato o punti di riferimento certi, svincolati da quello che poteva essere un semplice ricordo visivo, sia pure affidato allo stesso agente. Sfruttando quindi oggetti preesistenti nell’ambiente e della semplice vernice di un colore vivace, che potesse essere quindi notata anche da lontano, gli operatori avevano fissato le coordinate che sarebbero poi servite per conoscere il momento esatto in cui azionare la levetta dell’apparecchio trasmittente: «E’ stato fatto un segnale con una, un segnale, anzi che già era esistente, abbiamo, ha utilizzato il BRUSCA, che poi ci ha spiegato che dall’alto si vedeva bene, un segnale sul paracar e in più ha voluto, ha voluto che mettessimo un vecchio elettrodomestico, che si trovava sul posto che c’era buttata dell’immondizia, ha detto: “mettetemi quell’elettrodomestico di colore bianco” di metterlo nel punto in cui diceva lui, così si regolava al momento in cui doveva mandare l’impulso dalla trasmittente alla ricevente… era messo circa, un 20-30 metri prima del cunicolo, sulla scarpata nella direzione PUNTA RAISI. ….poi al momento in cui eravamo sicuri che il punto dove abbiamo messo l’elettrodomestico andava bene, abbiamo cercato, tagliando sia dove eravamo sul cunicolo e sia dove si trovava BRUSCA che poi l’ha raccontato lui, abbiamo tagliato dei rami per avere maggiore visibilità… ci siamo alternati, qualche ramo l’ha tagliato BIONDINO, anche RAMPULLA PIETRO si è interessato a tagliarne qualche altro, perché ne abbiamo tagliati tantissimi più di uno, per cui ci alternavamo, mentre quello, i rami che davano fastidio dove si trovava BRUSCA si è interessato BATTAGLIA GIOVANNI a tagliare i rami con una sega da carpentiere procurata da BATTAGLIA GIOVANNI e TROIA NINO… l’ho messo io l’elettrodomestico in compagnia di BIONDINO e RAMPULLA PIETRO e si trovava già nella zona e ho detto che l’abbiamo situato una trentina di metri prima, prima del cunicolo a metà scarpata, anche se non si vede bene, ma sono sicuro che è quello là. Il segnale effettuato con la vernice era proprio sul paracar all’esterno, rispetto alla strada all’esterno, era di colore, se non ricordo male, di colore rosso, comunque pure visibile perché ce l’ha indicato BRUSCA che a distanza vedeva appunto questo segnale… l’idea è venuta al momento in cui ci trovavamo sul posto e ci voleva una cosa ben visibile, non c’era, non c’era meglio di quel pezzo di elettrodomestico che si trovava nella zona». A conforto della sicurezza degli operatori era preposto Troia cui spettava il compito di controllare che nessun passante potesse notare i movimenti dei due gruppi: […]. La Barbera era riuscito ad apprendere durante questa fase, anche dell’apporto all’effettuazione delle prove del gruppo palermitano, di cui facevano parte Cancemi e Ganci, che aveva contribuito alla realizzazione delle prove di velocità fornendo le indicazioni sul tipo di autovettura, alla quale ci si doveva parametrare e la velocità di marcia. […] Trasmittente e ricevente venivano conservati da Giovanni Battaglia, in un luogo che La Barbera non ha saputo indicare, pur avendo potuto rilevare che questi si allontanava dal casolare e ritornava dopo circa un quarto d’ora. Quanto al momento in cui erano state effettuate le prove, pur dando conto di un ricordo non preciso, l’imputato ha indicato la tarda mattinata, ed ha riferito che le stesse erano state ripetute per quattro o cinque volte: «..Fino a quando non siamo stati sicuri che da quando BRUSCA mandava l’impulso dalla trasmittente alla ricevente, la macchina di DI MATTEO passasse proprio sopra il cunicolo, qualche metro prima anzi… una volta che abbiamo, abbiamo ultimato le prove ed eravamo sicuri che il posto andava bene, abbiamo aspettato, abbiamo aspettato la sera che facesse buio per provare se era possibile mettere dentro il cunicolo l’esplosivo perché c’era un po’ di difficoltà perché il diametro era molto stretto». […]. A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


I MOZZICONI DI CINQUANTUNO SIGARETTE PORTANO AL DNA DEI SICARI  La ricerca di dati biologici da parte della Polizia Scientifica si concentra due fili di capello e sui tanti mozziconi di sigaretta ritrovati: 14 marca Merit, uno di marca Muratti, 7 mozziconi marca MS, altri 29 mozziconi di sigaretta marca Merit Altro accertamento di consulenza tecnica era stato disposto dall’Autorità Giudiziaria sui mozziconi di sigarette ritrovate negli stessi luoghi poiché, potendo costituire essi tracce da cui derivare elementi sulla base dei quali ipotizzare che in quei pressi avessero stazionato le persone che avevano atteso l’arrivo del convoglio, era importante accertare il maggior numero di dati e conoscenze sulle caratteristiche fisiologiche di coloro che quelle cicche avevano fumato e poi abbandonato. Era stato pertanto conferito l’incarico ai dottori Garofano Luciano, in servizio presso il Servizio Investigazioni Scientifiche di Parma, e Spinella Aldo in servizio presso la Polizia Scientifica di Roma, il cui lavoro si era incentrato sulla ricerca di dati biologici sulle cicche di sigarette e sui due fili di capello ritrovati, nonché sulla verifica di eventuali impronte papillari: nella sostanza si trattava di individuare da un lato il Dna e dall’altro lato le impronte papillari, latenti o evidenti, sui campioni repertati, costituiti da 14 mozziconi di sigaretta marca Merit, un mozzicone di sigaretta marca Muratti, 7 mozziconi di sigaretta marca MS, altri 29 mozziconi di sigaretta marca Merit, e due frammenti di formazioni pilifere. I consulenti, che hanno deposto all’udienza del 4 dicembre 1995, prima di riferire sull’esito delle indagini svolte, hanno fornito alla Corte nozioni generali sui fondamenti scientifici sui quali si è basata la loro analisi, e hanno spiegato che il DNA e’ una macromolecola molto complessa che e’ contenuta nelle cellule di tutti gli organismi viventi e che quindi nello stesso individuo ha caratteristiche peculiari che non si ritrovano in altri. In particolare hanno dichiarato: «Proprio per queste sue caratteristiche il DNA puo’ essere analizzato dal sangue, dal liquido seminale, da tutti i tessuti biologici, dalle fibre pilifere, dalla saliva, dall’urina, dalla polpa dentaria, dal midollo osseo. In questo caso noi ci trovavamo di fronte a due reperti essenzialmente, e cioè la saliva, quindi le cellule che inevitabilmente vengono dal dispiacimento dell’epitelio della bocca e che quindi vengono veicolate insieme alla saliva che spesso puo’ anche apportare altre sostanze, ma indubbiamente cellule, e le cellule che potevano invece essere contenute nei due capelli. Sulle due strutture pilifere ad una prima ispezione microscopica che e’ il primo atto tecnico che noi conduciamo, ci siamo resi conto che non potevano essere processati perche’ mancavano del bulbo; e quindi non avendo strutture cellulari su cui basarci per l’estrazione del DNA, non abbiamo potuto utilizzarli». Pertanto gli unici campioni sui quali si concentrava l’analisi erano stati i mozziconi di sigaretta, attraverso l’utilizzo di una tecnica di avanguardia, la PCR, altrimenti detta tecnica della amplificazione a catena del DNA. I consulenti hanno altresì riferito: «Avevamo a disposizione estremissime quantita’ di sostanza, quindi dovevamo cercare di avere il massimo risultato da una quantita’ estremamente esile. Poichè ogni individuo ha delle facce diverse perche’ abbiamo DNA diverso e pure impronte digitali diverse, abbiamo studiato quella zona, che si chiama polimorfica variabile, per potere individuare la diversità di una persona diversa all’altra. La variabilita’ di questo DNA ci permette di identificare con una certa percentuale l’appartenenza delle cicche di sigarette in cui avevano fumato quegli individui, ed abbiamo dovuto studiare un frammento. Cioè nella nostra popolazione ci sono vari frammenti di DNA: io c’ho un frammento diverso da un’altra persona, altro un’altra persona; alcuni frammenti sono in comune, come per esempio dal punto di vista genetico, i gemelli omozigoti sono perfettamente identici, hanno stesso DNA, altri no. Questa indagine ci ha permesso di individuare delle caratteristiche genetiche che convenzionalmente si possono chiamare 1.2.4, 1.1.4, 1.0.0.1. Insomma, abbiamo individuato chi ha fumato quella cicca di sigaretta o quel gruppo di cicche di sigarette, e su questo poi, una volta memorizzata, poi, successivamente, per eventuale o un futuro e promemorico per i confronti Su queste indagini noi abbiamo verificato che il gruppo dei 14 mozziconi di marca Merit, la cicca di sigaretta siglata n. 1 e n. 3, appartenevano ad un individuo con una certa struttura genetica che viene indicata internazionalmente 1.2.4. Altre tre cicche di sigarette, la n. 12, la n. 13 e la n. 14 invece da un altro individuo che c’ha un frammento di DNA diverso detto 1.1.2. Tutti gli altri del gruppo Merit invece hanno dato risultato negativo. Quindi nel gruppo dei 14 mozziconi soltanto 5 hanno dato esito positivo. Un mozzicone marca Muratti ha dato esito negativo. Ed il gruppo dei 7 mozziconi di marca MS, la n. 1 ha dato un genotipo, cioè un frammento di DNA ancora denominato 1.2.4. Negativi tutti gli altri perché teniamo sempre presente che la quantita’ di cellule, pochissime cellule, era esile; poi dipendeva pure dal modo come si fuma dato che le cellule sono immagazzinate nel filtro, e poi piu’ tempo passa piu’ si degrada questo materiale e piu’ difficile e’ metterlo in evidenza. Ancora, l’altro gruppo dei 29 mozziconi di marca Merit, abbiamo individuato praticamente 7 positivita’ di cui n. 3, e la n. 3 genotipo 2.4, la n. 12 ancora 2.4, la n. 13 2.4, la n. 14 1.1.2, n. 15 1.1.2, n. 27 1.2.4, n. 29 1.2.4, e tutti gli altri hanno dato esito negativo. Dall’interpretazione di queste risultanze noi sicuramente possiamo dire che i reperto siano stati fumati da un minimo di tre differenti individui, perche’ c’erano dei frammenti di DNA diverso. Con molta probabilità sono state fumate, appunto, da questi tre individui diversi, o piu’ individui che avevano lo stesso frammento di DNA. […]».

LA CASUPOLA DELL’ACQUEDOTTO  Successivamente in esito ad altro incarico conferito dal Pm i consulenti comparavano i Dna ritrovati con quelli di Di Matteo, La Barbera e Gioè e hanno dichiarato all’udienza del 3-1-96: «In conclusione, abbiamo avuto una attribuzione, una alta compatibilità con il sangue di Di Matteo e La Barbera per i genotipi detti cosi’, riconosciuti internazionalmente 2-4 sui tre mozziconi di marca Merit; questo mentre vi era un’esclusione per quanto riguardava il DNA di Gioe’ Antonino. Quindi avevamo una esclusione ed una attribuzione per il Di Matteo e La Barbera. Questa attribuzione, estimabile in percentuale dell’8,8 persone; cioè un’attribuzione del 91,2% circa».

Nei pressi dei due alberi, ma dal lato della montagna, il ciglio della strada si presentava delimitato da un muretto di recinzione alto all’incirca due metri: gli inquirenti notavano che su questo muro, collocata come punto di riferimento fra il mandorlo e l’altro albero, vi era una pietra, e nel terreno immediatamente retrostante ad essa altri mozziconi di sigarette, probabile indice anche qui, come nel caso precedente, di quella che poteva essere stata la fase di attesa dell’avvistamento del convoglio da parte dei responsabili del progetto criminoso: a quel punto bastava posizionare un osservatore sul muro ove era stata riposta la pietra per verificare che il cratere determinato dall’esplosione, e quindi il punto ove era posizionata la carica, era nella traiettoria che attraversava al centro i due alberi ed univa chi guardava, il cratere e il silos dell’azienda avicola posto a valle dell’autostrada. In proposito si rimanda alla deposizione della teste Tomasello Gabriella, commissario della Polizia di Stato a Palermo, esaminata all’udienza dell’11-10-95, che in relazione alle ipotesi sulle modalità con le quali l’attentato poteva essere stato perpetrato, ha riferito che si era subito pensato che si fosse trattato di un comando a distanza, perche’ era talmente grande la voragine che certamente rimanere nei pressi sarebbe stato troppo pericoloso per chi si occupava dell’esplosivo. Per cui, secondo la teste, si erano considerati i punti dai quali si poteva avvistare sia l’arrivo della macchina del dottor Falcone con la scorta e sia il luogo dell’attentato dove era avvenuta poi l’esplosione: «… Fin dalla sera si era considerata l’ipotesi che si potesse trattare di una stradina su una montagna che portava, poi, ad una piccola casetta bianca, successivamente si e’ accertato che si trattava di una casupola dell’AMAP, ed altri due punti che potevano essere interessanti come punto di osservazione, e cioè il mobilificio Mobiluxor che guardando la montagna si trovava sulla sinistra del luogo, della montagna, ed alcune palazzine che si trovavano invece sulla destra sempre guardando la montagna». E poi ancora l’Ispettore Ricerca (udienza dell’11-10-95): «…Ultimato il sopralluogo in via Liberta’ n. 17, il 24 maggio ci recammo immediatamente su via Quattro Vanelle, per raggiungere il casotto AMAP. Sul posto trovammo i Carabinieri che stavano effettuando già dei rilievi in prossimità dei due alberi. In particolare, venne notato quel giorno che in corrispondenza del terzo palo dell’energia elettrica partendo dal casotto AMAP, quindi dal casotto a scendere, dal lato sinistro c’e’ la scarpata dove vi sono numerose presenze di alberi e piante, al lato destro, come si puo’ vedere, vi e’ un muro di contenimento in cemento armato, dell’altezza di circa 2 metri. Subito notammo un cosa che a noi balzo’ subito agli occhi: che mettendosi o sul muretto all’altezza di questa pietra… dove tra l’altro, devo dire una cosa, al di la’ di questo muretto, e’ un 3 – 4 metri ancora piu’ indietro, non e’ riportata in fotografia, fu trovata una grossa piattaforma in cemento armato. Sopra questa piattaforma in cemento armato, trovammo una grossa pietra, che era stata spostata. Perche’ dico che era stata spostata? Perche’ di fatto si era formato un alone con la stessa sagoma di questa pietra ed era stato lasciato questo alone, quindi era stata spostata da poco tempo. Li’, anche da questa parte del muretto, che vediamo da questo lato, i Carabinieri avevano repertato delle cicche di sigaretta. Guardando, sia da questo punto dove c’era il masso che dicevo io spostato, che come piattaforma, consentiva facilmente ad una persona, per esempio, di sedersi, o mettendosi sul muretto stesso o nella parte della scarpata sottostante, noi avevamo una perpendicolare immaginaria, proprio era la perpendicolare con l’asse autostradale e la perpendicolare proprio con il luogo dove si e’ creata la deflagrazione. Addirittura, una cosa che ipotizzammo in un primo momento, era la presenza del famoso silos della SIA. Collimando la pietra e questo silos, noi lo considerammo all’inizio come il mirino, un famoso mirino utilizzato proprio come linea immaginaria e come perpendicolare».

LE PRIME INDAGINI DELLA DIA  Ed ancora, sullo stesso punto, il teste Ferrazzano Luigi, in servizio presso il Centro Operativo D.I.A. di Roma, escusso all’udienza dell’11-10-95: «Avevamo capito o intuito subito che l’esplosione poteva essere stata causata mediante uso di un radiocomando e chi faceva uso di questo radiocomando doveva necessariamente essere in zona di sicurezza, vista anche l’entita’ dell’esplosione e del relativo spostamento d’aria, e tentammo allora di localizzare il posto che doveva essere necessariamente in alto, da dove questi signori avevano azionato il detonatore. Nel frattempo venne notte e rinviammo quest’attivita’ alla mattina successiva. Alle 08.00 della mattina successiva riprendemmo l’attivita’ di ricerca e localizzammo una strada, a mezza costa, che dalla Statale 113, all’altezza dell’abitato di Capaci saliva verso una località denominata Montagna Raffo Rosso. Li’ notammo un cancello di ingresso che era aperto; dopo questo cancello di ingresso c’era uno smottamento di terreno che ostruiva la carreggiata di questa strada e sulla terra vi era posto un filare di filo spinato. Sulla destra di questo filare, gli ultimi due fili in basso risultavano tagliati ed arrotolati. Poi, oltrepassato il filare e quindi giunto nuovamente sulla carreggiata, la strada era una strada a mezza costa che aveva sulla destra un muro di contenimento e sulla sinistra una scarpata. Dal lato sinistro, sostanzialmente, c’era la vallata in cui poi scorreva l’autostrada che e’ stata teatro dell’attentato. Continuando, c’era, sempre sul lato destro, lato muro di contenimento, c’erano delle pietre accatastate a mo’ di scala, presumibilmente per facilitare l’accesso sul muro di contenimento. Erano abbastanza regolari; formavano una specie di scaletta per facilitare l’accesso al muro di contenimento… Ed ad un certo punto trovammo sulla destra, dietro il muro di contenimento, una sorta di piccolo spiazzo in cui c’erano numerose cicche di sigarette e dei pacchetti vuoti; e su questo in corrispondenza di questo spiazzo, poggiato sul muro di contenimento, cioè sul lato superiore del muro di contenimento vi era una pietra. Questa pietra era stata posta li’ secondo noi, come un punto di riferimento; infatti, traguardando da questa pietra ed un silos per mangimi che era posto al di la’ dell’autostrada, si otteneva una linea che passava esattamente per il luogo dell’esplosione sull’autostrada. Quindi poteva essere stata benissimo usata come punto di riferimento per poter causare la deflagrazione poi della carica esplosiva. A questo punto notammo anche che dal punto in questione, poiché vi erano degli alberi che erano posti al di sotto della strada che ostruivano leggermente la visuale, notammo pure che questi alberi erano stati tagliati; cioè parte dei rami di questi alberi erano stati tagliati, ed i relativi rami erano a terra. Comunque si aveva una perfetta visione di tutto il percorso autostradale sia nella parte precedente l’esplosione sia nella parte successiva. Ipotizzando che quelle cicche di sigarette e quei pacchetti potessero appartenere alle persone autori dell’attentato, chiamai il personale tecnico che era con me e reperto’ questo materiale. furono inviati i rami degli alberi, le cicche di sigarette che erano Merit, Marlboro ed un’altra marca mi sembra. I cinque pacchetti di sigarette marca Merit ed alcuni pezzi di alluminio, quell’alluminio che serve per… che si trova quando si apre il pacchetto di sigarette che erano appallottolati. Fu fatto per tentare di rilevare eventuali impronte papillari e poi per gli esami del caso, nel caso specifico l’eventuale D.N.A. sulle cicche di sigarette. Fu notata dell’erba calpestata segno della presenza prolungata di persone da schiacciamento di erba nella zona degli alberi dove furono tagliati i rami, per consentire una migliore visibilità».Sulla base dei dati indicati era dunque possibile ipotizzare sin dalle prime perlustrazioni che i luoghi descritti potevano essere stati quelli scelti dagli attentatori al fine di garantirsi la piena visibilità del punto in cui era stata collocata la carica. […].  Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA16 maggio 2021


IL CRATERE CHE INGOIA TUTTO E LE TRACCE LASCIATE DAGLI ASSASSINI Il cratere aveva la forma di un’ellisse, con l’asse maggiore lungo 14.30 metri e quello inferiore di 12.30 metri. Il punto di maggiore profondità raggiungeva in alcuni tratti i 4 metri, creando nel complesso una profondità che scendeva di oltre un metro rispetto alla campagna che stava intorno all’autostrada

Il tratto autostradale interessato dall’esplosione ai fini dell’individuazione del punto di scoppio può identificarsi con quello individuato nel km 4 +773 della corsia lato monte nel senso di marcia Punta Raisi- Palermo, larga 10 metri, che risulta divisa da quella opposta, lato mare da un tratto di terreno non superiore ad un metro circa, racchiuso da due guardarail interni.

Nel predetto punto infatti si constava l’esistenza del cratere determinato dalla deflagrazione, la cui forma poteva assimilarsi a quella di una ellisse, il cui asse maggiore, lungo 14.30, si poneva come trasversale rispetto alla corsia di marcia, mentre quello inferiore era in posizione longitudinale rispetto alla stessa estendendosi per una lunghezza di 12.30.

Il punto di maggiore profondità del cratere raggiungeva in alcuni tratti i 4 metri, con una media di 3.5, determinando nel complesso una profondità che scendeva di oltre un metro rispetto al piano di campagna che stava intorno all’autostrada. Proseguendo sulla stessa linea del cratere nella corsia lato mare era possibile rilevare sull’intera lunghezza di essa il disfacimento dell’asfalto e la sopraelevazione dello stesso per un metro di altezza lungo i primi 4.7 metri e per 60 cm circa per i restanti 7.40.

Era possibile constatare anche sul terreno adiacente il tratto autostradale interessato dall’esplosione lo squassamento del manto stradale per un’estensione in lunghezza di altri 13,10 metri, in larghezza di m.1,5, cui si accompagnava un avvallamento di circa 50 centimetri di profondità, dal quale emergevano pietre annerite e frammenti di tubo di cemento di 5 cm di spessore.

Dall’osservazione prospettica dell’intero sito descritto si poteva constatare immediatamente “de visu” che la stessa traiettoria univa l’asse che attraversava il centro del cratere e l’insieme dei punti costituenti la linea che passava lungo la corsia lato mare e il terreno adiacente interessato dalla sopraelevazione dell’asfalto.

Dal cratere, formato nella maggior parte da materiale argilloso e pietre calcaree (calcite e dolomite), la stessa sera dell’attentato, alle ore 23 circa, prima dell’inizio della pioggia, venivano prelevati tramite tamponi, da personale appartenente al nucleo della Polizia Scientifica di Palermo e al Centro di Investigazione Scientifiche dei Carabinieri, una zolla di terra e due campioni di sostanze presenti nei pressi dello stesso; durante la pioggia, sopravvenuta quella stessa notte, altre quattro estrazioni della medesima specie venivano eseguite a circa due metri dalla voragine, oltre ad altre aventi ad oggetto frammenti di materiale in cemento anneriti nella parte interna.

Il giorno dopo altri campioni di tamponi venivano prelevati ancora nel cratere su alcune pietre annerite (1+2), nei pressi della Fiat Croma occupata dagli agenti deceduti (3) ed anche in quella occupata dai due giudici (5), e venivano altresì repertate pietre annerite raccolte in prossimità della voragine, nonchè frammenti di carta e plastica ritrovati presso la stessa (9).

Successivamente, il 29 maggio, venivano raccolti altri quattro frammenti di tubo di cemento annerito, prelevati fra il materiale di risulta venuto fuori nel corso dei lavori di scavo realizzati dalla ditta incaricata del ripristino del manto stradale. Va fra l’altro segnalato che nel corso delle prime ispezioni veniva subito notato dagli inquirenti un elettrodomestico, che si trovava nella scarpata lato monte. […]

Una volta identificato nel cratere, attraverso le coordinate riferite, quello che può sin d’ora qualificarsi inequivocabilmente come il punto di scoppio dell’ordigno, appare opportuno rilevare rispetto ad esso quale fosse la posizione delle autovetture interessate dall’esplosione.

Sulla corsia P. Raisi-Palermo ponendosi alle spalle del cratere nel senso di marcia relativo alla corsia lato monte, al Km 4 + 780, distante due metri dal margine sinistro e otto dal destro, in posizione obliqua rispetto all’asse della corsia e con le ruote anteriori sul ciglio del cratere, si trovava l’autovettura blindata ( Fiat Croma bianca targata Roma 0F4837 ) nella quale viaggiavano i due magistrati e l’autista Costanza.

La parte anteriore della macchina, fino al vano motore, era completamente distrutta, residuando per la restante parte quel che rimaneva del cofano, completamente accartocciato, retto dalla sola cerniera destra. Il vetro del parabrezza, completamente incrinato, era stato sbalzato nel cratere, mentre la portiera sinistra, divelta, si trovava nel terreno adiacente all’autovettura.

Per quanto riguardava l’interno, il lunotto si era riversato nell’abitacolo, la metà sinistra del cruscotto e degli elementi sottostanti era squassata ed arretrata verso la posizione dell’autista, la cui spalliera era contorta e piegata in avanti, mentre sul volante, la cui parte inferiore era anch’essa contorta in avanti, veniva rilevata una macchia di sangue da cui si dipartivano dei rivoli.

L’interno dell’abitacolo era poi invaso da cumuli di detriti e di terra, che nella parte posteriore raggiungevano i cinquanta centimetri.

Al km 4+786, e quindi dietro alla precedente autovettura a 13,40 dal margine destro e 6,35 da quello sinistro, anch’essa in posizione obliqua rispetto al senso di marcia, si trovava l’altra Croma blindata di colore azzurro, targata Pa 889982, occupata dai tre agenti di scorta sopravvissuti.

Il tetto del mezzo risultava coperto da uno strato di terriccio e pietre spesso circa 2 cm; la parte anteriore dell’autovettura, arretrata verso l’interno, era contorta al pari del cofano, che risultava divelto dalle cerniere; il parabrezza incrinato; il lunotto effranto e rientrato verso l’abitacolo di circa 10 cm; il volante con la metà inferiore contorta verso il basso.

A quattro metri di distanza dalla citata autovettura si rinveniva la Lancia Thema, con il tetto completamente schiacciato, il parabrezza incrinato e fuoriuscito dal sito, il lunotto e i fari effranti, cumuli di detriti e terriccio in prossimità della leva del cambio.

DELLA FIAT CROMA RESTA BEN POCO […] Sin qui la descrizione del tratto autostradale interessato dall’esplosione: è evidente che in essa non si sia ricompresa la prima auto di scorta perchè, come si è già accennato in precedenza, questa era stata sbalzata fuori dalla corsia di marcia nella quale viaggiava il corteo, quella lato monte, e scaraventata in un terreno contiguo all’autostrada, cioè dal lato opposto, quello che dava sul mare, a ben 62 metri di distanza dal cratere, in corrispondenza del km 4+795, e quindi leggermente arretrata rispetto al punto di scoppio.

Sia la sollecitazione ascrivibile all’esplosione che l’impatto con il terreno erano stati la causa della completa distruzione dell’autovettura.

Infatti, della Fiat Croma blindata di colore marrone (targata Pa A 06677) era rimasta solo la parte inferiore della scocca con le ruote, tranne quella anteriore destra, parte del cruscotto – con il contachilometri che segnava la velocità di 160 e il contagiri fermo a 60 – parte del volante, ed infine il cambio ed i sedili anteriori, sui quali si ritrovava sostanza riconducibile a materia cerebrale, oltre a piccole parti di arti. Nel raggio di dieci metri dall’autovettura venivano poi ritrovati il motore, la ruota destra con la sospensione, e altre parti mancanti. […].

Gli effetti della deflagrazione sotto il profilo dell’ estensione del raggio di gittata di detriti, pezzi di asfalto e pietre da essa provocati si misuravano, rispetto al cratere, in 142 metri in direzione Palermo e 156 in direzione Trapani. […].

A questo proposito appare opportuno dar conto in modo specifico degli effetti dell’esplosione sugli immobili e le autovetture che si trovavano nei pressi del punto di scoppio circostanti provocati dal lancio dei detriti, nonchè delle lesioni personali riportate da quanti seguivano ed incrociavano il corteo delle macchine colpito dalla deflagrazione.

Quanto a quest’ultimo aspetto, oltre agli agenti di scorta sopravvissuti e all’autista giudiziario, restavano coinvolte nell’esplosione Gabriel Eberhard e Gabriel Eva, che viaggiavano a bordo dell’autovettura Opel Corsa, Ferro Vincenzo, che era a bordo della Lancia Thema, Ienna Spanò Pietra e Mastrolia Oronzo, alla guida della Fiat Uno, i quali riportavano tutti lesioni personali giudicate guaribili rispettivamente in giorni quindici, dieci, trenta, trenta e sette.

Per la parte relativa ai danneggiamenti delle autovetture, oltre a quelle di proprietà del Ministero degli Interni e a quella del Ministero di Grazia e Giustizia, e a quelle già citate in precedenza, venivano investite dai detriti dell’esplosione anche un’altra Fiat Uno ( targata Pa, 702416, di proprietà di Licandro Francesco) e una Alfa Romeo 33 (targata Pa A32829, di proprietà di Bruno Stefano).

I danneggiamenti si estendevano poi ad alcuni villini che insistevano in prossimità del punto di scoppio, situati per la precisione nel tratto di strada denominato Passaggio della Lepre, ai capannoni di una azienda avicola, la Sia Sicula Industriale Srl, e a due roulotte parcate nella strada provinciale che costeggiava l’autostrada.  Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA16 maggio 2021


Lampadine e cellulari, il commando fa le “prove” del massacro  Santino Di Matteo racconta le cosiddette “prove di velocità”. Nino Gioè, Giovanni Brusca, Gioacchino La Barbera, Leoluca Bagarella, Nino Troia, Pietro Rampulla e lo stesso Di Matteo avevano escogitato un modo per “sperimentare” il funzionamento del radiocomando a distanza […] Di Matteo ha narrato dunque di avere saputo che erano state effettuate delle ispezioni su incarico di Salvatore Riina, di cui era emissario Giovanni Brusca, a cui avrebbero partecipato lo stesso Brusca, e poi Gioè, Ganci Raffaele, Salvatore Cancemi e Salvatore Biondino, e che in un primo momento si era pensato ad una galleria lungo l’autostrada, situata subito dopo lo svincolo per Capaci, idea poi abbandonata – perché non garantiva la piena visibilità per chi doveva premere il telecomando – a favore della soluzione proposta da Biondino e Troia, “uomo d’onore” del mandamento di San Lorenzo, appartenente alla famiglia di Capaci, che proprio perché del luogo era stato scelto per la fornitura di basi d’appoggio agli operatori. Questo nuovo posto garantiva maggiore visibilità per chi doveva azionare il telecomando a distanza, ed è stato indicato con sufficiente precisione dall’imputato: «…Sì, il posto lo so, è sopra il casolare, c’è… a distanza c’è una cabina elettrica, mi pare, però si sposta sulla destra, salendo, non so, a due/trecento metri da questa cabina… così. c’è… la visibilità l’avevano in piena, l’autostrada ci veniva proprio di rimpetto». Di Matteo ha ammesso di non esserci mai stato di persona, precisando altresì che gli era stato indicato in occasione delle prove di velocità perché lì si trovavano Brusca e Gioè: «…Quando passava la macchina, loro schiacciavano il pulsante e faceva come se fosse una fotografia con il flash». Chiarita dunque la posizione dell’imputato per le parti relative agli eventi che precedettero e seguirono le prove di velocità, può passarsi all’esposizione di quanto da lui dichiarato in merito a tale accadimento.  E’ nuovamente Giovanni Brusca, come era accaduto quando Agrigento aveva portato l’esplosivo in c.da Rebottone, che aveva sollecitato Di Matteo a raggiungerlo con la sua macchina al casolare di Capaci per fare le prove: «…E allora quando sono arrivato là al casolare, dove c’era Rampulla che stava preparando con loro (Brusca Gioè La Barbera, Bagarella, Troia e Battaglia) questo marchingegno, mi hanno detto di andarmene al bivio di CARINI, con la macchina, e quando loro mi telefonavano di partire con la macchina, e tenere la velocità di cento sessanta, cento settanta. …io avevo il telefonino e loro ce l’avevano pure e, …un cellulare l’aveva GIOE’ e BRUSCA, un cellulare l’aveva LA BARBERA e un cellulare me lo avevano dato a me. Allora quando sono arrivato là mi dava il via Gioè che era appostato lassù e io partivo, a cento sessanta, quando passavo dove era LA BARBERA messo… accanto al guardrail, era al di là del guardrail era visibile dall’autostrada e doveva accertare se la lampadina funzionava e quando io passavo… loro si sono messi in montagna, quando io passavo loro azionavano questo telecomando per vedere se la lampadina funzionava oppure no. … avevano installato una lampadina in quella scatoletta. Era una lampadina flash, questa a quattro facce…penso che l’hanno comprata in un negozio che vendono queste lampadine per foto, in un fotografo. La prova fu fatta di mattina verso le undici, undici e mezza, non mi ricordo di preciso, comunque in mattinata poi, quando ho finito me lo ha detto LA BARBERA: “tutto a posto! E’ l’ora.” Poi sono ritornato al casolare, mi hanno detto: “te ne puoi andare, tutto a posto!” E me ne sono andato. Era…la prova l’ho fatta due o tre volte… poi mi ha detto che andava benissimo…. passavano dieci minuti, un quarto d’ora di distanza…il via me lo dava GIOE’ mentre ero allo svincolo di CARINI…loro mi hanno fatto camminare a questa velocità perché…a quanto ho potuto capire… ..si parlava così, perché le macchine delle scorte camminano in questa… a questa velocità….. sul tratto che va da CARINI a CAPACI. GIOE’ mi ha detto avevano tagliato dei rami, però non so dove, per vedere meglio la visibilità. nella collinetta, perché volevano vedere… la visibilità la volevano più…».

LE LAMPADINE FLASH  Il meccanismo escogitato era dunque mirato a registrare e a fissare, attraverso parametri di riferimento certi, l’istante in cui la macchina passava sopra il cunicolo, perché quello sarebbe stato il momento per azionare il circuito elettrico che doveva dare il via all’esplosione. A tale proposito gli operatori avevano deliberato di collegare al filo che fuoriusciva dalla ricevente, delle lampadine flash, che bruciavano se raggiunte dall’impulso elettrico provocato dal segnale lanciato dalla trasmittente. Il meccanismo, una volta azionato, mostrava la sua utilità perché consentiva di verificare in quale punto era opportuno azionare la levetta: infatti, posto che era necessario far si che l’autovettura si trovasse sulla carica al momento dell’arrivo del segnale, il momento giusto per l’invio del segnale medesimo doveva precedere di qualche istante quello in cui si raggiungeva tale coincidenza, tenuto conto della velocità di trasmissione dello stesso e dei tempi di reazione di chi doveva azionare il telecomando. Per calcolare allora quali fossero gli spazi entro i quali si doveva muovere colui che poi all’atto pratico avrebbe spostato la levetta, si era deliberato di identificare il punto di coincidenza, e il momento adatto, attraverso l’osservazione empirica che fondava la simulazione dell’evento reale sull’uso di un auto di potenza simile a quelle usate dalle scorte, e l’impiego dei flash al posto dell’esplosivo per far realizzare all’osservatore se il segnale era stato inviato tempestivamente: solo quando si era individuato visivamente tale punto, si sarebbe potuto ricorrere ad altri artifici per fissare sui luoghi segnali che potessero essere di riferimento per l’operatore che doveva agire. Naturalmente il sistema escogitato in questi termini richiedeva, al minimo, l’impiego di una persona che si occupasse della guida dell’autovettura, di altra che verificasse quando avveniva l’accensione del flash rispetto al passaggio della macchina, e di altra ancora che azionasse la trasmittente: quindi un numero minimo di tre soggetti impiegati nell’operazione, i quali, dovendo agire in tempo reale, necessitavano di tenersi in stretta comunicazione fra loro, donde il ricorso al telefono cellulare. L’apparecchio era infatti necessario a chi si trovava vicino alla cabina elettrica per dare il segnale di partenza al guidatore, e a ricevere notizie da colui che era sulla scarpata, che doveva riferire a sua volta se l’arrivo del segnale, e quindi l’accensione della lampadina, coincidesse o meno con il passaggio dell’autovettura e doveva dare indicazioni se attivarsi prima o dopo quanto si era già fatto nel precedente tentativo. Per quanto riguarda Di Matteo, si segnala che il telefono usato nel corso delle prove di velocità era un Nek P 300 Sip, descritto dal possessore come apparecchio abbastanza grosso con una antenna estraibile. Sul punto occorre precisare che l’imputato, sempre su incarico di Giovanni Brusca, aveva acquistato nel corso dei preparativi per la strage un altro cellulare, un Nokia, che però, secondo Di Matteo, era stato usato solo il giorno dell’attentato e restituitogli dopo due o tre giorni dal verificarsi dello stesso: deve ritenersi allora che in occasione delle prove su strada Brusca si sia avvalso di altro cellulare, che Di Matteo ha identificato in quello di Troia. Va altresì registrato che l’apparente contraddizione sul tipo di cellulare consegnato a Giovanni Brusca è chiaramente frutto di marginale distrazione, che rientra in esito ad ulteriore approfondimento istruttorio sul punto. Di Matteo ha riferito anche di avere assistito alla preparazione del congegno che doveva essere adattato per effettuare le prove, cioè per rilevare il passaggio dell’autovettura attraverso l’accensione del flash. L’operazione di collegamento della ricevente al flash era stato realizzata da Pietro Rampulla che, nell’occasione, si trovava dentro al casolare insieme a Brusca, Bagarella, Gioè, La Barbera e i due del casolare, che si è appurato essere Troia e Battaglia. E’ utile fare menzione di questa circostanza perché solo in quel momento Di Matteo aveva acquisito informazioni, poi riferite all’A. G. sull’apparecchio, atteso che egli non aveva assistito alla fase relativa alla costruzione del congegno: «…Ha messo un sei batterie, mi pare che le ho viste, le ha messe tutte legate, più due batterie per… piatti, dentro il marchingegno, e poi c’era una levetta che funziona… che girava, quando lui azionava questo telecomando…. era una cassetta piccolina, che so, trenta centimetri per venticinque, è una cosa piccolina…erano delle batterie, che so, lunghi… so, tondi, così erano, mi pare che ce n’erano sei, legate e, poi ne ho viste due piattini, con i bottoncini, che si attaccavano… sempre dentro questa scatoletta con dei bottoncini da incasso. Io di questi piatti ne ho visti due, di quelli, mi pare che erano tutte legate con un nastro adesivo… di quelle altre, invece, ce n’erano mi pare che sei». A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA


LE INDAGINI SUL “POSIZIONAMENTO” DEI KILLER  Ritornando alla descrizione dei luoghi, deve tenersi presente ai fini di una più completa raffigurazione degli stessi che la corsia lato monte dell’autostrada, lungo il tratto interessato dall’esplosione, risulta parallela alla statale 113, che per un pezzo è costeggiata dalle abitazioni che avevano riportato i danni sopradescritti. Alle loro spalle si diparte un’estensione di terreni la cui altitudine rispetto al livello del mare aumenta progressivamente. La posizione di preminenza di questi siti rispetto al luogo dell’esplosione aveva reso evidente sin dall’inizio agli inquirenti che tali zone dovevano aver costituito punto privilegiato di osservazione per gli autori dell’attentato, in quanto quella posizione non poteva che essere l’unica che al contempo garantiva sia la visione piena del nastro autostradale, che l’eventuale avvistamento e avvicinamento dell’obiettivo da colpire. In tale ottica si spiegano pertanto le perlustrazioni effettuate sui luoghi indicati già il giorno dopo la strage dai Carabinieri e successivamente il 29 maggio dalla Polizia, sull’esito delle quali hanno riferito in dibattimento sia la dott. ssa Pluchino che i consulenti del Pm, nonchè il rilievo dell’individuazione dei seguenti elementi, che giova tener presenti anche in questa fase preliminare, al fine di fissare topograficamente quelli che potevano rilevarsi, come poi si rilevarono, i luoghi interessati dall’attentato e dalla fase preparatoria dello stesso. Orbene, gli investigatori appuravano e hanno riferito nel corso della loro audizione, che lungo la strada in cui si affacciavano le citate villette, andando in direzione Trapani, ad un centinaio di metri dalle ultime abitazioni, ci si imbatteva in un cancello con le bande accostate, ma privo di serratura: oltrepassatolo, l’osservatore poteva immettersi in una stradella asfaltata, interrotta ad un certo punto, dopo circa 70 m, da una frana e, prima di essa, da una recinzione di filo spinato i cui fili risultavano tranciati in modo tale da consentire il passaggio. A 150 m dalla frana, sulla scarpata lato mare si notava un albero che attirava l’attenzione perchè nel lato destro ne risultavano tranciati i rami, che venivano ritrovati nel terreno adiacente, i quali avevano le foglie completamente secche al contrario dei rami che all’interno erano ancora verdi. A dieci metri dall’ arbusto vi era un mandorlo e fra le due piante erano stati ritrovati numerosi mozziconi di sigaretta. Ai rilievi eseguiti partecipava l’ispettore Ricerca (deposizione dell’ 11-10-95) che così ha riferito: «Nella scarpata sottostante abbiamo due alberi: uno di mandorlo, che per chi guarda l’autostrada e’ sulla destra; l’altro non ricordo il tipo di albero, comunque il giorno 26 portai io li’, spiegherò il perche’, il professore Raimondo, il direttore dell’istituto Ortobotanico di Palermo. Perche’ portiamo li’? Perche’ ci accorgemmo di una cosa: che alcuni rami di questo albero che e’ sulla sinistra, che possiamo vedere, presentavano dei tagli. Il giorno, se non vado errato, il 26, di pomeriggio, con il professor Raimondo e con alcuni suoi collaboratori, andammo sul posto per verificare l’origine di questi tagli e perche’ ci aveva insospettito, tra l’altro, un principio di essiccamento della pianta. Da un primo esame cosi’, a voce detto, furono poi effettuati, se non vado errato, dei prelievi, e furono fatte delle fotografie; da quello che il professore ad occhio, subito pote’ stabilire, riferi’ al sottoscritto, che relazionai dicendo che sarebbe naturalmente seguita la relazione tecnica, specifica, che quest’albero presentava due tipi di tagli, sia come durata temporale sia di tagli effettuati in un arco temporale diverso: un primo taglio che era di 30 – 40 giorni, alcuni tagli che erano stati fatti… perche’ noi ritenemmo che era importante questa recisione degli alberi? Perche’ questi rami che erano stati tagliati non facevano altro che ostruire la visuale del tratto autostradale, perche’ da questo punto, oltre a vedere perfettamente il luogo che era stato creato della voragine, si aveva una visione panoramica dell’autostrada, per circa un chilometro, per cui subito salto’ all’occhio che quei rami, verosimilmente, erano stati tagliati perche’ ostruivano questa visuale, perche’ da un chilometro di distanza, dall’aeroporto… cioè da un chilometro di autostrada indietro verso l’aeroporto a venire, già il corteo delle macchine poteva essere seguito anche ad occhio nudo o con l’ausilio, eventualmente, di binocoli…. tra l’altro, l’altro albero di mandorlo che si trovava sulla destra e dove furono trovate la maggior parte delle sigarette, aveva proprio una specie di muretto di contenimento, dove era facilissimo… dove uno si poteva sedere e, tra l’altro, aveva sempre la visuale del punto dove si e’ creata l’esplosione e vi era consentita una maggiore mimetizzazione con gli alberi».  Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA16 maggio 2021


UN RADIOCOMANDO A DISTANZA PER FARE ESPLODERE 500 CHILI DI TRITOLO  Sulla base delle analisi svolte è stato possibile appurare una serie di elementi: l’esistenza del cunicolo sotto il punto di scoppio, la composizione in frazioni della carica, la sua attivazione tramite un sistema a distanza basato sull’uso di radio trasmittenti, l’uso del tritolo come uno dei componenti della stessa, sono infatti dati che per il rilievo delle considerazioni esposte a loro fondamento, devono ritenersi allo stato incontestabili Era stato privilegiato, sopra tutti, l’uso delle due radio [una trasmittente e una ricevente, la quale, lanciando un segnale radio alla trasmittente, consentiva attraverso la chiusura di un interruttore di dare il via all’esplosione., ndr] perché si trattava di un equipaggiamento di semplice impiego, efficace e di sicuro funzionamento. E queste caratteristiche rispondevano, secondo i consulenti, all’assunto che per la realizzazione di un attentato di questo genere, si doveva impiegare materiale semplice e di facile reperibilità sul mercato. […] Pertanto in conclusione, i consulenti ritenevano verosimile che per la realizzazione dell’attentato a Capaci, in relazione alle dinamiche di attivazione della carica, fossero state impiegate due radio, una messa in corrispondenza dell’ordigno, l’altra collocata nel punto di appostamento. Questo sistema era a loro giudizio efficace, sia per quel che riguardava l’attivazione della carica sia per la scelta del punto di appostamento dal quale sarebbe stato lanciato il segnale, essendo chiaro che la posizione di preminenza di coloro che con la trasmittente dovevano mandare l’impulso, rispetto al punto di scoppio, ne rendeva la recezione ottimale a valle, non essendoci, fra l’altro, fra i due punti, ostacoli che potessero intralciarne la propagazione. I tecnici pertanto sono risultati concordi nell’escludere che siano state utilizzate altre metodologie e tanto hanno affermato sulla base di ragioni di ordine logico, perché, una volta dimostrato teoricamente ed empiricamente che il sistema più semplice per dare luogo all’attentato si rilevava anche quello più sicuro, non era più spiegabile, ipotizzando negli attentatori persone di media intelligenza, il ricorso ad altri meccanismi che non assicurassero la certezza del risultato. E’ altresì vero che si deve riconoscere che, malgrado lo sforzo profuso dai consulenti nella ricerca delle possibili tecniche alternative, è sempre possibile che residuino ancora altri meccanismi attraverso i quali gli attentatori avrebbero potuto raggiungere l’effetto desiderato. Va però evidenziato che gli stessi tecnici non hanno trascurato o escluso l’ipotizzabilità di altre dinamiche, come ad esempio il ricorso all’utilizzo del satellite. Essi però, affrontando tale ipotesi, hanno ribadito che non c’era ragionevolmente la necessita’ di arrivare a tanto, perche’, a loro giudizio, per realizzare un attentato di tale portata non era logico ricorrere a mezzi più sofisticati di quelli che risultavano necessari, una volta realizzato che meccanismi molto semplici avrebbero comunque garantito l’effetto desiderato. D’altro canto è di tutta evidenza che il ricorso a tecniche particolarmente raffinate avrebbe, ove accertato, facilitato il lavoro degli investigatori, essendo da un lato ben individuabili i canali di rifornimento di determinati materiali, e dall’altro, rilevabile obiettivamente l’uso di strumentazioni come i satelliti, il cui funzionamento è verosimile sia costantemente rilevato dalle strutture che si occupano della sicurezza dello Stato. Va sottolineato in definitiva che la conclusione indicata dai tecnici si appalesa come la più idonea a raggiungere lo scopo, e ciò non solo in via di principio, ma anche sotto il profilo del rispetto dell’esigenza di osservare doverose regole di cautela, che ogni persona che progetta un’imboscata o, più in generale un attività illecita di grosso spessore, deve tener presente per garantire l’impunità a sè stessa e ai complici. Muovendo cioè dall’assunto che non era possibile ipotizzare, da parte degli autori della strage, l’ accettazione del rischio di lasciare tracce che consentissero di risalire anche ai soli meri esecutori materiali, devono essere scartate tutte quelle tecniche di attivazione della carica basate su sistemi che prevedevano l’uso di apparecchiature fabbricate e distribuite non su vasta scala, o che potevano lasciare sui luoghi evidenze non marginali (ciò evidentemente per la possibilità di risalire agli acquirenti), o che richiedevano, per l’installazione e l’uso, l’impiego di uomini particolarmente qualificati. D’altro canto andavano scartate anche quelle metodologie che non garantivano di colpire con certezza il bersaglio individuato, o si prestavano ad essere vanificate dall’uso di tecniche di prevenzione di attentati, come il variare la posizione della persona tutelata nel corso della trasferimento in auto o l’accurato controllo delle autovetture blindate prima del loro utilizzo, o ancora, le precauzioni contro l’avvicinamento delle stesse da parte di estranei. […].

LA STRAGE RIPRODOTTA IN UN’AREA MILITARE  La comparazione fra i dati acquisiti dall’effettuazione dell’esperimento [a Sassetta, ndr.] e quelli rilevati sui luoghi teatro della strage aveva indotto i tecnici a concludere, in ordine alla questione del peso della carica, che quella fatta brillare a Sassetta avesse una forza superiore rispetto alla prima, avendo determinato rispetto ad essa un incremento di efficacia valutabile intorno al 20%. Tale indicazione aveva portato i tecnici a concludere che il peso della stessa dovesse assestarsi fra i 500 e i 550 kg. Sempre sulla base del criterio della comparazione è possibile derivare che, contrariamente a quanto verificatosi nella realtà, il fatto che non sia stato riscontrato alcun fenomeno di aratura sul terreno è da considerare indice univoco della circostanza che a Capaci la carica esplosiva non era stata intasata secondo le condizioni ottimali, cioè a regola d’arte. Ed ancora, il mancato ritrovamento dei reofori, dimostra che l’innescamento dell’ordigno esplosivo era stato costruito in maniera più rudimentale rispetto a quanto era stato fatto a Sassetta, quindi con un sistema che doveva prevedere un numero di detonatori di gran lunga più limitato; in ultimo, la constatazione dell’analoga dinamica di traslazione riguardo al comportamento del materasso in esito alla sollecitazione dell’esplosione induce a concludere per la fondatezza dell’ipotesi già formulata in astratto, e cioè che l’oggetto era stato collocato all’imboccatura del condotto per nascondere quanto in esso era stato riposto. Sulla base delle analisi svolte dai ct è stato possibile appurare una serie di elementi, alcuni dei quali, come si è già sottolineato, caratterizzati da rilievo oggettivo e pertanto idonei a dimostrare i fatti o le circostanze ad essi sottesi. L’esistenza del cunicolo sotto il punto di scoppio, la composizione in frazioni della carica, la sua attivazione tramite un sistema a distanza basato sull’uso di radio trasmittenti, l’uso del tritolo come uno dei componenti della stessa, sono infatti dati che per il rilievo delle considerazioni esposte a loro fondamento, devono ritenersi allo stato incontestabili.   Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro)

PIETRO RAMPULLA, L’ARTIFICIERE RECLUTATO PER COSTRUIRE IL RADIOCOMANDO Le rivelazioni di Gioacchino La Barbera sulla fase di ricostruzione del congegno di attivazione della carica, avvenuta durante lo stazionamento degli attentatori nella casa di Di Matteo in contrada Rebottone, sono state importantissime. La Barbera fu l’unico, fra il gruppo dei primi collaboratori, a dare notizie sulla ricostruzione della trasmittente e della ricevente Gioacchino La Barbera aveva appreso che si stava organizzando l’attentato al giudice nel periodo in cui si era stato caricato il cunicolo di esplosivo, una decina di giorni prima che succedesse la strage, più in particolare era venuto a sapere da GIOE’ANTONINO che la vittima designata era il dott. Falcone. «Io avevo capito che nell’aria c’era di fare un attentato contro una persona importante. Potevo anche immaginare ma non sapevo fino a, fino a quel giorno non sapevo che si trattava del dottor Falcone. Me l’ha partecipato il GIOE’, mi ha detto: hai capito che cosa stiamo preparando? Dice, e aspetta, dice, che ne vedrai, ne vedrai di altre di queste cose. Al che ho capito, ho capito, mi ha spiegato che si trattava, appunto, di aspettare il dottor Giovanni Falcone per, per fare esplodere quel pezzo di autostrada». La Barbera ha confermato le dichiarazioni di Di Matteo per quanto attiene la circostanza relativa agli incontri che precedettero la strage, tenutisi nella casa di C. da Rebottone, di cui sapeva dove era nascosta la chiave (sotto il pilastro vicino al cancello) e ha collocato tali incontri fra la fine di aprile e i primi di maggio, riferendo, come Di Matteo, che ad essi erano soliti partecipare Bagarella, Brusca, Gioè, Di Matteo e Rampulla. Quest’ultimo gli era stato presentato da Gioè, sapeva che non era della zona, per cui per farlo arrivare alla casa di C.da Rebottone gli avevano dato prima appuntamento alla pompa di benzina di Gioè. Non aveva avuto modo di notare alcun esplosivo in contrada Rebottone, aveva assistito però alle fasi di costruzione del telecomando ad opera di Pietro Rampulla. Dal significato delle sue espressioni si potrebbe derivare che fu lui a procurare i bidoni usati da Di Matteo ed Agrigento per trasportare l’esplosivo a Capaci. […] Con riferimento al trasporto dell’esplosivo da Altofonte a Capaci, l’imputato ha raccontato che avevano caricato i bidoni, che si trovavano per l’occasione sulla veranda della casa di campagna, in contrada Rebottone, sulla Patrol Jeep di La Barbera: era di mattina e all’operazione avevano partecipato Brusca, Gioè, Di Matteo, Bagarella e riteneva vi fosse anche Rampulla, ma per quest’ultimo si trattava non di un ricordo preciso ma solo di una intuizione, credendo egli che questi dovesse essere per forza presente perché dopo avrebbe avuto il compito di mescolare i due tipi di esplosivo. Da battistrada avevano fatto loro, lui e Gioè, con il fuoristrada perché vi era l’esigenza di proteggere i due latitanti, Brusca e Bagarella, mentre Di Matteo aveva probabilmente altro fuoristrada e Brusca disponeva di una Clio, appartenente però a Gioè: […].Il percorso, come per Di Matteo, passava dallo scorrimento veloce, poi per Viale delle Scienze, V.le della Regione, in direzione Punta Raisi, per un tragitto di 30 o 45 minuti, che, secondo La Barbera, potrebbe essere stato così lungo anche per una deviazione, resasi necessaria per un posto di blocco. Al bivio di Capaci era presente una persona, che poi aveva individuato per Troia, che era a bordo di una Fiat Uno e che Gioè conosceva perché gli aveva fatto dei segnali. In questa fase La Barbera non sapeva ancora dove si stava dirigendo e da chi. Arrivati al casolare avevano scaricato l’esplosivo; a tale operazione avevano partecipato un po’ tutti i presenti, parte dei quali l’imputato vedeva in quel momento per la prima volta: si trattava di Ferrante, Cancemi, Battaglia, Biondo, Biondino, Ganci Raffaele e uno dei suoi figli, forse Domenico.

UN ESPLOSIVO “DIVERSO” Durante le operazioni di scarico si era accorto che insieme all’esplosivo erano stati trasportati anche la ricevente e la trasmittente e i detonatori: «..Poi ho visto all’arrivo a CAPACI che da qualche parte c’erano messi in una macchina, che non era sicuramente la mia, sono arrivati anche sia la trasmittente che la ricevente, erano messi in un sacchetto di plastica…i detonatori camminavano assieme alla ricevente e trasmittente, comunque non assieme all’esplosivo». Secondo La Barbera, dopo aver proceduto allo scarico dei bidoni, si era passati subito al travaso dell’esplosivo da loro trasportato e dell’altro che si trovava già nella casa. A questo punto egli era in grado di riscontrare la diversità, rispetto alle dimensioni, dei bidoni portati da Altofonte rispetto a quelli trovati a Capaci e poi usati per comporre la carica: «La differenza dei bidoni che abbiamo fatto il trasporto con quelli che poi abbiamo usato per mettere dentro il cunicolo, è che come bidoni sono gli stessi soltanto di diversa capacità, quelli che abbiamo utilizzato per il trasporto sono molto più grandi, ho detto 50 litri, 50 chilogrammi circa, mentre quelli che abbiamo utilizzato per, da mettere giù dentro il cunicolo erano bidoni piccoli, un 20-25 litri, ma la stessa tipologia, la stessa plastica, lo stesso tappo in piccolo…». Secondo La Barbera l’esplosivo proveniente da Altofonte era di colore bianco panna, granuloso, e sui 100 kg come quantità. «Quello che abbiamo trasportato noi, l’ho visto al momento del travasamento, era un tipo di esplosivo, ripeto, che era un po’ granuloso tipo sale di quello che si usa per concimare nell’agricoltura. Era tipo bianco, bianco un po’ sporco, bianco panna». […] Quanto invece all’esplosivo trovato a Capaci, La Barbera è categorico nell’affermarne la diversità rispetto a quello trasportato da Altofonte, nel senso che era molto più farinoso, se ne era accorto perché aveva visto che restava impressa la mano durante l’uso, e che era più scuro del loro: «…Ho notato che c’era dell’esplosivo e che comunque era diverso dal nostro; l’esplosivo che ho notato all’interno della casa era molto più farinoso rispetto a quello che abbiamo portato noi da ALTOFONTE. Abbiamo trovato anche dei bidoncini molto più piccoli di quelli che abbiamo portato noi, all’incirca, se non ricordo male, venti, venticinque chili, per un numero, se non ricordo male, dodici o tredici bidoncini in tutto, ce n’era uno più grosso degli altri, che erano da 25 litri uno e erano tutti nuovi e vuoti, li abbiamo riempiti noi quando abbiamo fatto il travaso…e poi li abbiamo messi dentro il cunicolo…».

LA COSTRUZIONE DEL RADIOCOMANDO L’apporto al materiale probatorio proveniente da La Barbera relativamente alla cd. “fase Altofonte“ si arricchisce non solo di quanto egli ha rivelato in ordine al trasporto dell’esplosivo, ma anche per le informazioni che ha fornito sul congegno che doveva attivare la carica esplosiva. […] Le rilevazioni di La Barbera a proposito della fase di ricostruzione del congegno di attivazione della carica, avvenuta durante lo stazionamento degli attentatori nella casa di Di Matteo in contrada Rebottone, sono state importantissime: si deve considerare infatti che fu l’unico fra il gruppo dei primi collaboratori a dare notizie sulla ricostruzione della trasmittente e della ricevente, perchè Di Matteo ne aveva saputo riferire solo marginalmente non avendovi preso parte alcuna, limitandosi ad una mera attività di osservazione esterna, e dovendosi poi aspettare le dichiarazioni di Giovanni Brusca per tornare sull’argomento, dichiarazioni che comunque, come si vedrà, non hanno aggiunto informazioni rilevanti sul punto. Nella sostanza dunque grazie all’imputato, si è appreso che la realizzazione del congegno era stato frutto dell’elaborazione artigianale di poche persone, delle quali una sola aveva maggiore competenza rispetto alle altre (il Rampulla).  Il meccanismo si basava su un sistema molto semplice, costituito da una trasmittente deputata a lanciare il segnale a distanza e un apparecchio che, ricevutolo, dava via all’attivazione di un circuito elettrico collegato ai fili dei detonatori che erano stati messi in una frazione della carica determinando l’esplosione. La trasmittente, come si è visto direttamente dalle dichiarazioni del collaboratore, era costituita da un aggeggio di quelli generalmente usati per azionare i modellini di aeroplani, quindi facilmente reperibile in un qualsiasi negozio di giocattoli. La peculiarità dell’oggetto stava nel fatto che esso era in grado di sostenere due riceventi e non solo una, come dimostra il fatto che due erano i pulsanti che servivano da regolazione del segnale: è significativo in proposito che coloro che si stavano adoperando su di esso avevano bloccato, sigillandolo, il secondo pulsante, avendo realizzato che la seconda ricevente non funzionava. Tale decisione era frutto di mera precauzione, perché gli operatori volevano essere sicuri che nel momento dell’azione non ci potesse essere occasione di sbagliare pulsante schiacciando quello dei due non collegato con la ricevente attaccata alla carica. Ma tanta diligenza aveva spinto ancora oltre gli esecutori perché essi, sempre al fine di garantirsi con un margine ancora più ampio la sicura realizzazione dell’effetto esplosivo, avevano sigillato anche in una direzione, il pulsante che avrebbe collegato la trasmittente alla ricevente adoperata, per evitare che nel “momento clou” chi doveva premere la levetta potesse sbagliare la direzione in cui si doveva muovere: cioè, posto che le direzioni potevano essere destra – sinistra (e viceversa), e alto -basso (e viceversa) si era avuto cura di fare in modo che chi doveva inviare il segnale non avesse alternativa nello scegliere la direzione e fosse quindi costretto a muoversi solo in quella giusta, che era l’unica idonea ad attivare la carica, che, secondo i ricordi dell’imputato, doveva essere quella che si spostava da destra a sinistra. La ricevente era stata costruita interamente dagli attentatori: si trattava in pratica di una scatola di compensato molto sottile nella quale era stato allocato un motorino alimentato da una serie di batterie da 1.5 che al momento in cui veniva attivato, tramite il contatto stabilito da un chiodo che batteva su una lamella – una di quelle prelevate da una batteria piatta – determinava un contatto elettrico che veniva convogliato in un filo, al quale poi sarebbe stato collegato quello del detonatore collegato alla carica. Malgrado l’artigianalità del congegno, si può tranquillamente notare come lo strumento costruito sia stato frutto indubbiamente di una certa padronanza della tecnica in materia, ma anche che la sua costruzione non aveva richiesto l’impiego di competenze particolarmente elevate, essendo stato sufficiente applicare al riguardo le capacità di un semplice elettricista di buon livello. Tale capacità, proprio perché pratica e quindi intrisa da tanta esperienza, aveva indotto gli operatori a verificare empiricamente se il congegno costruito fosse anche operativo: la prova si era verificata ancora una volta in contrada Rebottone sulla veranda dell’appartamento nei primi giorni di maggio. A tal proposito erano necessari i detonatori e oggetti che potessero segnalare se l’impulso radio trasmigrava dalla trasmittente alla ricevente, posto che non era pensabile aspettare di fare la verifica con la carica composta. Erano entrate pertanto in scena le lampadine flash. A questo proposito l’imputato ha ammesso di essere stato lui a procurarle, indicando il nome del fornitore e l’esatta ubicazione del negozio: «Sì, le ho trovate in un negozio fotografico che c’è, che c’è vicino dove abitava DI MATTEO MARIO SANTO, nella zona di PIANO MAGLIO, […]». Quanto alla prova, tecnicamente si trattava di un’operazione molto semplice che consisteva nell’applicare la lampadina flash al filo che usciva dalla ricevente, quel filo che poi all’atto pratico sarebbe stato collegato al detonatore: mandando l’impulso attraverso l’azionamento della levetta con il movimento destra – sinistra, doveva azionarsi il circuito elettrico contenuto nella scatoletta di compensato, quindi la produzione dell’energia si convogliava nel filo che poi andava a stimolare il detonatore per farlo scopppiare: «[…]Ogni volta che si doveva vedere il funzionamento della ricevente, della trasmittente si faceva spesso, almeno mi sono trovato io più volte a vedere se l’impulso, anche a distanza, qualcuno si portava la ricevente a distanza per vedere se l’impulso arrivava bene… una volta definita la scatola e la trasmittente era pronta, attaccavamo alle estremità dei due fili che fuoriusciva dalla ricevente, attaccavamo la lampadina flash che poco fa ho detto e accendendo il dispositivo che c’era sulla trasmittente, facendo una manovra sulla cosa che fuoriusciva dalla, si mandava l’impulso e si accendeva la lampadina». La prova era pertanto volta a verificare l’effettività della trasmissione del segnale e a saggiare anche le possibilità che il sistema così costruito andasse incontro ad interferenze di altre onde vaganti nell’etere: poiché nessun espediente poteva escludere tale evenienza, la soluzione escogitata era stata quella di provvedere all’attivazione del congegno solo nell’imminenza dell’arrivo del corteo delle macchine: «Ho sentito più di una volta che vi era la possibilità di interferenze, ho sentito più di una volta questo discorso a parte che io non sono un tecnico,…, però ho saputo, ho sentito che le percentuali erano minime, nel senso che un qualche interferenza si poteva avere sulla ricevente. Infatti si era creato, si era detto al momento in cui la ricevente si, cioè, si doveva mettere in uso, il collegamento doveva essere fatto all’ultimo minuto. PIETRO RAMPULLA quando qualcuno chiedeva che percentuale di possibilità c’era che qualcosa si poteva inserire, si poteva inserire sulla ricevente e lui rispondeva che la possibilità era minima, perché… io adesso non lo so, se ci poteva essere un qualcosa vicino, un apri cancello, un qualcosa che poteva interferire sulla ricevente, poteva scoppiare ancora prima di usare la nostra trasmittente». Testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro) A CURA DELL’ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA