La conversazione tra il giudice e la reporter Marcelle Padovani, 6 mesi prima della strage di Capaci, raccontata nella serie podcast del Corriere «Mi fido di lei», di Luca Lancise e Alessandra Coppola
Trent’anni dopo la bomba, dalle carte conservate da Padovani nella sua casa romana, riemerge un documento che fornisce la prova grafica — scientifica, si direbbe in un tribunale — della prudenza, del rigore e dell’attenzione al minimo dettaglio con cui Falcone affrontò pure la stesura di quel libro.
Le correzioni autografe del dattiloscritto composto dalla giornalista, vergate a mano dal giudice con la stessa calligrafia rotonda e chiara con cui compilò i primi verbali di Buscetta, dimostrano come volesse evitare enfatizzazioni e semplificazioni. Che forse avrebbero aiutato il grande pubblico nella comprensione del testo, ma non l’esatta descrizione della mafia, della sua cultura, della sua struttura e dei suoi metodi.
Lo racconta la stessa Padovani, che ha riaperto quel manoscritto assieme a Luca Lancise e Alessandra Coppola per la realizzazione del podcast «Mi fido di lei. Le parole di Giovanni Falcone» (da oggi su tutte le principali piattaforme podcast: qui sotto la prima puntata). La giornalista rilegge con emozione le correzioni del giudice, sottolineando come misurasse ogni parola. Scritta in francese, lingua che Falcone sapeva leggere ma non scrivere, e modificata in italiano.
Un esempio. A proposito dei poliziotti e magistrati assassinati dalla mafia, lei aveva scritto che «alcuni avevano commesso errori, sottovalutazioni, approssimazioni, analisi superficiali. Non si scherza con Cosa nostra». Falcone intervenne e precisò che erano stati uccisi «nonostante le loro indiscutibili capacità professionali, anche per minime disattenzioni o errori di valutazione e di analisi. Non è possibile distrarsi con Cosa nostra». L’ultima frase, nel testo pubblicato in Italia è uscita ancora diversa: «Purtroppo in questa difficile battaglia gli errori si pagano».
In un passaggio dedicato ai rapporti tra mafia e imprenditoria, la giornalista aveva scritto che, in certe situazioni, «la contiguità è un delitto»; affermazione che Falcone modificò in «può diventare un delitto». «È molto più blando», sottolinea Padovani, che poi si sofferma sul brano finale, all’ultima pagina: «Io avevo scritto “In Sicilia la mafia colpisce soltanto i servitori dello Stato che lo Stato non riesce a proteggere”. Lui ha cancellato quel soltanto».
Chissà se mentre chiudeva il libro con quella correzione Falcone pensò a sé, protetto ma non abbastanza, saltato in aria qualche mese più tardi assieme alla moglie e tre agenti di scorta.
Anche durante i ventidue pranzi con Marcelle Padovani, mentre lui mangiava e parlava e lei prendeva appunti, fino all’immancabile bicchiere di vodka, c’erano sempre gli uomini della sicurezza; all’erta ma a debita distanza.
Il racconto di Padovani si allarga alle foto che la ritraggono con Falcone, una volta a tavola e un’altra alla presentazione a Parigi, e rivela la volontà del giudice-scrittore di uscire dai luoghi comuni sulla mafia per svelarne la natura autentica, inestricabilmente legata alle radici siciliane e alla cultura dell’isola.
La stessa del magistrato che per certi versi si rispecchiava negli «uomini d’onore», per comprenderne e contrastarne meglio i presunti valori, oltre che i delitti. Arrivando alla conclusione che Cosa nostra non è un Antistato, come altri sostenevano in quel periodo, altri rappresentanti delle istituzioni, bensì uno Stato parallelo e illegale che offre ai cittadini ciò che lo Stato legale non è capace di offrire.
Risalendo al primo incontro, in una sera del lontano 1983, nel palazzo di giustizia palermitano buio, blindato e deserto, da cui scaturì un articolo per il Nouvel Observateur sul «piccolo giudice» che combatteva la mafia, nelle cinque puntate del podcast, Padovani ripercorre la vita e la morte di un Falcone come pochi lo hanno conosciuto.
Descrivendone, come ha fatto pure nel suo ultimo libro intitolato «Giovanni Falcone trent’anni dopo» (pubblicato da Sperling & Kupfer), il tratto anche ilare, scherzoso e sdrammatizzante. Ma sempre rigoroso e scevro da protagonismo: «Ha voluto essere un simbolo di magistrato. E lo è diventato».
19 maggio 2022 CORRIERE DELLA SERA