Il processo del Csm ai due ‘Dioscuri’ Paolo Borsellino e Giovanni Falcone

 

Le audizioni 1988-1991: emergono un dramma umano e professionale e un’amicizia salda tra i due magistrati, mai omertosa.  “Se vi fosse stato il sostegno di alcune correnti alla candidatura di Falcone, lui sarebbe passato”, spiega il presidente della Corte di Assise di Milano, Ilio Mannucci

 “All’interno dell’Ufficio istruzione, tra l’altro, c’è una persona che di entusiasmo ne sa vendere a tutti e in tutti i modi e, pertanto, io sono rimasto sinceramente preoccupato nel momento in cui l’entusiasmo gliel’ho visto perdere. Mi riferisco a Giovanni Falcone” (Paolo Borsellino, audizione al Csm 31 luglio 1988). “Soltanto, scusatemi, io non sono abituato a essere trattato in questa maniera. Scusatemi…Non sono problemi personali, anch’io ho una dignità da difendere, se mi consentite” (Giovanni Falcone, audizione al Csm del 31 luglio 1988).

Fu Corrado Carnevale, il giudice ‘ammazzasentenze”, a usare per primo la definizione di “Dioscuri” per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: trent’anni dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio è venuto il momento di sottrarre quel termine dalla malevolenza dell’invidia e della mediocrità per restituirlo – con la portata evocativa, fiabesca e protettiva del mito – ai due magistrati siciliani. “Sì, sono Dioscuri moderni di una Sicilia che si fa Italia. E dall’essere la rappresentazione della Sicilia, diventano la rappresentazione dell’Italia migliore, fino a far parte della nostra coscienza nazionale”, dice Ilio Mannucci Pacini, sardo, presidente della Corte d’Assise di Milano, che insieme con Livio Crescenzi ha curato la pubblicazione delle audizioni dei due magistrati tenute nell’arco del triennio per loro forse più drammatico (“L’inderogabile esigenza, Audizioni 1988/1991”, editore Mattioli 1885): dal 1988 – quando il pool di Palermo viene sciolto di fatto dopo la nomina a Consigliere d’Istruttore di Antonino Meli, preferito a Falcone – al 1991, quando quest’ultimo deve affrontare la più infamante delle accuse, ovvero di aver tenuto nascoste in un cassetto le prove della collusione ai più alti livelli di potere tra mafia e politica.  

I documenti di quelle audizioni sono stati pubblicati dal Csm, ma il loro contenuto è poco conosciuto. E, soprattutto, avvolto nell’oblio di una memoria che, riscoprendoli, si trova a che fare con un dramma umano e professionale da un lato e, dall’altro, con il virus che, 30 anni dopo, avrebbe devastato il Csm stesso: le correnti. “L’interesse per questi documenti – spiega Mannucci Pacini – è riemerso con una lettura successiva agli eventi del 1992 e, quanto al funzionamento del Csm, credo che le vicende più recenti abbiano consentito di dare una particolare lettura a un documento storico. A rileggerle, quelle audizioni sono particolarmente interessanti e si capisce molto di più di situazioni preoccupanti nelle strutture giudiziarie che allora operavano conto la mafia”.

Paolo Borsellino e Giovanni Falcone ricostruiscono, nel corso di quattro audizioni, il lavoro e le ragioni del pool, il metodo investigativo, ovvero “…l’inderogabile esigenza in materia d’indagini sulla criminalità mafiosa – dice Borsellino nel corso della prima audizione, nell’estate del 1988 – di avvalersi appieno della preziosissima esperienza di chi, pur tra enormi difficoltà e indubbi errori, ha sperimentato metodi di lavoro e acquisito conoscenze, non alterabili o disperdibili senza irreparabili danni per la società”. “Quel metodo è stato sviluppato e fatto proprio dalla magistratura: è ormai un patrimonio dei magistrati, soprattutto dei magistrati più giovani, giunto a loro come un fiume carsico”, prosegue Mannucci Pacini, sottolineando l’impatto della propria esperienza di giovane giudice penale a Lecco con la figura dei due magistrati: “Alla fine degli anni Ottanta, la nostra era una funzione considerata importante, la cui reputazione sociale era cosi’ elevata anche perché esistevano magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”.

Lo spirito del pool ha fatto breccia nella magistratura, giungendo fino a oggi, ma non ha fermato le invidie, le gelosie i contrasti, e Falcone e Borsellino sono rimaste riferimenti “più ideali che reali” e talvolta avvolti nella retorica. Il Csm che scelse Meli al posto di Falcone e processò quest’ultimo era segnato da “contrasti interni alla magistratura, agli uffici giudiziari, e tra alcuni uffici e il Consiglio superiore: le vicende del 2019-2020, legate al cosiddetto sistema Palamara, li hanno resi più palesi ed evidenti”. La magistratura ha perso trent’anni di tempo, dunque? Si poteva far tesoro di quell’esperienza drammatica? “Il tema – spiega Mannucci Pacini – è l’inalterabilità del sistema delle correnti. Quel sistema di strutturazione correntizia del Csm, che a quei tempi esisteva ed era universalmente accettato dentro e fuori dalla magistratura, ha assunto degenerazioni inaccettabili. Ciò è legato anche alla modifica del sistema di attribuzioni degli incarichi: nel momento in cui si passa dall’anzianità senza demerito a una valutazione di merito è inevitabile che quella struttura correntizia sia vissuta con maggior fastidio. La vicenda Falcone-Meli fu vissuta come contrasto tra il criterio dell’anzianità senza demerito da una parte e quello del merito dall’altra”.

Lei scrive che se Falcone fosse appartenuto a una corrente di maggioranza, sarebbe diventato Consigliere istruttore a Palermo. “Si’, sarebbe potuto accadere. Se ci fosse stato il sostegno di alcune correnti alla candidatura di Falcone la regola dell’anzianità senza demerito sarebbe stata superata. Naturalmente, è una mia valutazione ma non ho dati oggettivi per provarlo. Chi sostenne l’anzianità senza demerito ribadiva che c’era una regola e andava accettata anche in un caso straordinario come quello di Falcone. Oggi non è più così: dal 2006 con l’accentuazione del merito per l’attribuzione degli incarichi quel conflitto correntizio è diventato ancora più forte fino all’esplosione del caso Palamara. Fino ad allora non tutti sapevano che l’attribuzione degli incarichi era vissuta attraverso accordi, cessioni, individuazioni del meno peggio, accordi che non mettevano il solo merito nella valutazione”.

La degenerazione ha inghiottito anche la trasparenza, e un sano rapporto tra il sistema giudiziario e l’informazione. “C’è un passaggio di Borsellino nelle audizioni – tiene a rilevare Mannucci Pacini – che trovo molto attuale. Borsellino dice che bisogna informare l’opinione pubblica, non per autolegittimarsi ma per essere trasparenti e soggetti a eventuali critiche. E’ un tema ricorrente. La modernità di quell’accento sta proprio nel suo richiamare, trent’anni fa, un rapporto di trasparenza che alimenti la libertà dell’informazione, lontano dal mercato nero delle notizie, che c’era allora e c’è oggi. È vero, poi, che vi sono giornalisti capaci e giornalisti incapaci, ma la libertà va esercitata senza limiti dal punto vista informativo. Le ultime riforme, invece, vanno nella direzione opposta”.

È un libro, questo, che forse sarebbe piaciuto a Leonardo Sciascia, per come sa far emergere dei fili narrativi da un documento storico. “Questi documenti – spiega Livio Crescenzi – hanno un valore letterario, e personalmente sono un grande estimatore di Sciascia. Per me, non esperto di mafia, l’interesse per questi testi e’ narrativo. Sono spogli da ogni retorica, parlano due italiani a cui questo Paese deve moltissimo. Qui c’è un romanzo, l’amicizia tra due uomini che nascono a pochi metri di distanza e si frequentano fin da bambini, condividono un impegno professionale, una comune Weltanschauung, e una visione di una Sicilia che amano e non sopportano cosi’ com’era. E muoiono a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, poco più che cinquantenni: due Dioscuri, appunto”.

“I componenti di quel Csm – interviene Mannucci Pacini – ignorarono, ignorarono consapevolmente, il ruolo che Falcone e Borsellino avevano avuto nel maxiprocesso iniziato nel 1986. Ignorarono tutto cio’ che dovettero subire sul piano personale, familiare, non solo in termini d’isolamento, di lavoro senza limiti, ma anche in termini d’intimidazioni, di conflitti, di contrasti, di mancata condivisione da parte delle istituzioni”. “Molti fatti della loro vita – aggiunge il presidente della Corte d’Assise di Milano, che una passione per il teatro ha portato a impersonare Falcone in una pièce su Borsellino – presentano una teatralità tragica. Chi voglia mettere in scena quegli eventi storici, già potrebbe farsi un’idea: l’attentato fallito all’Addaura, i due attentati del 1992, sono fatti quasi teatrali. Noi portiamo in scena uno spettacolo che ha proprio come base il momento dell’esplosione. Da lì parte una ricostruzione, con dei flashback, della vita, così come emerge da quelle audizioni, di questi due ragazzi della Kalsa di Palermo”; e di un “approccio siciliano alla vita nel segno, quasi, dell’inevitabilità di alcune cose, del fatalismo; una cosa che noi sardi, pur isolani, non abbiamo”.

AGI FABIO GRECO 23 MAGGIO 2022


archivio digitale paolo borsellino