La sentenza di morte era stata scritta già dai boss di cosa nostra, ma per Giovanni Falcone l’esecuzione era prevista a Roma, in un ristorante che frequentava spesso. Ma i killer incaricati di fare i sopralluoghi confusero il locale “il Matriciano” con “la Carbonara”, dove il magistrato era solito andare e così l’agguato nella Capitale sfumò.
Questo e altro nelle rivelazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, ex capo del mandamento di Mazara del Vallo, che ha deposto oggi nell’aula bunker di Rebibbia a Roma, nell’ambito del secondo processo per la strage di Capaci davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta. Secondo il pentito tra l’ottobre e il novembre del 1991 si tenne un summit di mafia a Castelvetrano e in in quella sede fu deciso di eliminare il giudice Giovanni Falcone, l’allora ministro Claudio Martelli, Maurizio Costanzo e altri giornalisti, come Andrea Barbato. All’incontro, presieduto da Totò Riina, erano presenti anche Matteo Messina Denaro e i fratelli Graviano.
Secondo Sinacori, alla riunione di Castelvetrano ne seguirono altre a Palermo, a casa di Salvatore Biondino, autista di Riina, e del fratello, per definire le modalità con cui uccidere le vittime designate. “Bisognava usare delle armi tradizionali. In caso di attentati bisognava chiedere il permesso a Riina. A Roma, arrivarono con un camion, armi ed esplosivo”. Falcone, nella versione del pentito, doveva essere ucciso prima degli altri “perché dopo il maxiprocesso era un nemico storico di cosa nostra. Maurizio Costanzo perché durante le sue trasmissioni era contro cosa nostra e Martelli perché era stato eletto con i voti dalla mafia e poi aveva girato le spalle ai boss. Il giudice Falcone doveva essere ammazzato in un ristorante che frequentava a Roma mentre Martelli in via Arenula, dove c’era la sede del ministero di Grazia e Giustizia”. Una volta a Roma il commando mafioso sbagliò ristorante e si decise di agire in Sicilia.
27 aprile 2015 IL SITO DI SICILIA