Dossier mafia appalti, l’inchiesta di Falcone e Borsellino affossata dopo la strage di via D’Amelio

 

Come viene ricordato Paolo Borsellino, a trent’anni dal suo sacrificio? Con il depistaggio continuo. Il 19 luglio del 1992 la mafia l’ha assassinato e da quello stesso giorno sono iniziati i complotti e le trame, in modo che non si sapesse perché il magistrato è stato ucciso, perché con tanta fretta subito dopo la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone, né chi esattamente e in che modo gli ha tolto la vita. Il depistaggio è stato immediato, ha avuto percorsi che hanno attraversato caserme e procure e poi aule di ingiustizia. Con tante complicità, volute e non, di uomini in divisa e in toga, e persino di incolpevoli giudici popolari. Finché si è arrivati alla farsa del processo sugli anelli ultimi della catena, finito con le prescrizioni.

Ma intanto erano stati opportunamente tenuti fuori da ogni responsabilità, tutti i pubblici ministeri che parteciparono alle giornate in cui fu costruito il pentito fantoccio. Ma anche tutti i gip. E poi tutti i giudici dei processi Borsellino uno-due e tre. Finché non è arrivato quel bel personaggio di nome Gaspare Spatuzza, l’assassino del magistrato che, in cambio di notevoli vantaggi, ha detto “sono stato io”. Ma il depistaggio continua. Si parte da Scarantino e si arriva a Berlusconi. Il depistaggio perpetuo. Possiamo metterle in fila, tutte le trame di questi trent’anni, non sono poche. Si parte dall’inchiesta su “Mafia e appalti”, su cui Borsellino stava lavorando e che fu frettolosamente archiviata mentre lui stava chiudendo gli occhi. Chi è abituato a chiedersi i perché di quel che accade, potrebbe ragionare su quell’accelerazione improvvisa che fece esplodere la bomba di via D’Amelio a soli due mesi da quella di Capaci. Una tempistica fuori dall’ordinario e apparentemente senza senso, su cui è calato un “opportuno” silenzio.

Perché alcune toghe e divise erano troppo impegnate a costruire il burattino del falso pentito da una parre, e a inventare un’inesistente “trattativa” tra la mafia a una parte dello Stato dall’altra. Negli intervalli c’era sempre di che trastullarsi con il nome di Silvio Berlusconi. Qualche pentito da strapazzo, pronto a fare il ventriloquo del pm in cambio di qualche favore, lo si trova sempre. Né FalconeBorsellino avrebbero mai costruito il burattino Scarantino, né, qualora lo avesse loro proposto su un piatto d’argento qualcun altro, lo avrebbero accettato. Forse si sarebbero messi a ridere, davanti a tanta incompetenza, quasi si fossero trovati di fronte a una burla. E possiamo immaginare per esempio la faccia di Falcone se gli si fosse presentato davanti un Ingroia, o unDi Matteo o uno Scarpinato a raccontargli la favola della “trattativa”? Vogliamo provare a fare il conto di quanti decenni, quanti processi-farsa, quanto denaro pubblico sprecato, quanti inquirenti fallimentari vanno messi insieme per proclamare il Grande Fallimento giudiziario del più grande depistaggio della Storia, quello che non è ancora finito e di cui non si sa se e quanto finirà?

Il depistaggio “trattativa” è partito da subito, negli stessi anni in cui iniziava quello sull’uccisione di Borsellino. Tutti e due sono durati trent’anni e nessuno dei due si è ancora concluso. Se pure il 23 settembre del 2021 la corte d’assise d’ appello di Palermo ha mandato assolti Marcello Dell’Utri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni (ma precedentemente anche Calogero Mannino e Nicola Mancino) dal sospetto infame di essere collusi con la mafia, il depistaggio non è ancora finito. E ha le sembianze di Silvio Berlusconi. Perché la rilettura della storia d’Italia come storia criminale e mafiosa della politica ha radici lontane. Ed echeggia ogni giorno negli scritti di pubblici ministeri del presente e del passato che ci ricordano che non è finita lì. Che i giudici non contano niente, soprattutto quando assolvono. Che cosa ha scritto uno che la sa lunga per esperienza personale come Luca Palamara? Se sei un pm sveglio e hai dalla tua un bravo poliziotto e uno o due cronisti di riferimento, puoi distruggere chiunque.

Ma distruggere Silvio Berlusconi non è facile. Ci provano dal 1994, da quando è entrato in politica. Prima non contava niente, agli occhi dei pubblici ministeri dell’antimafia militante. Ma in quell’anno partì l’operazione Oceano e immediatamente un’indagine sull’origine dei finanziamenti alla Fininvest. Un buco nell’acqua che costringerà i pm di allora a chiedere l’archiviazione. Sono gli anni in cui l’antimafia militante sbriglierà la fantasia a tutto campo. Possiamo ricordare “Sistemi criminali”, un polpettone del 1998 che metteva insieme tutte le stragi, da Bologna a via D’Amelio, ipotizzando l’esistenza di una sorta di spectre composta di imprenditori, massoni, piduisti, politici e terroristi. Un flop che sarà secondo solo a quello clamoroso iniziato con il famoso papello di Totò Riina, che sfocerà nel grande depistaggio del processo “trattativa”. Il fantasma di Berlusconi abita quotidianamente nella mente di due pm di Firenze e due cronisti del Fatto. Non si lamenti troppo Matteo Renzi, per l’attenzione del procuratore aggiunto Luca Turco, perché almeno non gli dà del mafioso. Perché lo stesso magistrato, insieme al collega Luca Tescaroli, indaga Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti di stragi mafiose. Il che è un po’ più grave dell’inchiesta su Open.

Soprattutto se si fa attenzione alla provenienza geografica del dottor Tescaroli:Palermo, procura della repubblica. Evidentemente non gli bastano i numerosi fallimenti di quegli uffici nelle inchieste su Berlusconi. Ora succede che periodicamente dal palazzo di giustizia di Firenze escano fogli e foglietti, con la veste di atti giudiziari, che planano sulle scrivanie di due cronisti del Fatto,Marco Lillo e Valeria Pacelli, che disciplinatamente pubblicano. Domenica scorsa siamo stati allietati dalla lettura integrale di una memoria depositata dai due pm al tribunale del riesame che deve decidere se, nonostante il “no” sonoro della cassazione, siano valide perquisizioni e sequestri a persone non indagate che hanno il solo torto di essere parenti del boss mafioso e assassino Giuseppe Graviano. Uno che sta facendo i conti con la propria vita di ergastolano e ogni tanto ripete che suo nonno aveva raccolto negli anni settanta un bel gruzzoletto e l’aveva dato a Berlusconi per finanziare la Fininvest. La prova sarebbe in una scrittura privata affidata ai parenti. Che naturalmente non è stata trovata nelle perquisizioni.

L’ipotesi dei due pm è che, se il nonno di Graviano ha dato cinquant’anni fa soldi alla Fininvest, per forza di cose e di rapporti consolidati nel tempo, Berlusconi vent’anni dopo ha organizzato le stragi del 1993 e del 1994.Perché non anche quelle del 1992, allora? Ma qualcuno ci crede. Così i giornalisti Lillo e Pacelli, pubblicano sul Fatto in due intere pagine la memoria dei pm. Poi scrivono, usando la vecchia astuzia di Lillo, che queste accuse sono state “già più volte archiviate in passato e tutte da dimostrare” . Ma intanto pubblicano. Aggiungono che sono “accuse che vanno però raccontate all’opinione pubblica, perché riguardano personaggi di primo piano e un momento di svolta della storia recente del Paese”. La svolta, cioè la vittoria elettorale di Berlusconi nel 1994, si chiama democrazia, caro Lillo. Chiaro? Che ne diresti, se domani una ragazza ti accusasse di averla stuprata e un magistrato le desse retta, e qualcuno decidesse di pubblicare tutto? Ma per fortuna noi, e forse la maggior parte dei giornalisti italiani, siamo diversi e non lo faremmo mai. Infatti non facciamo parte dello squadrone di divise toghe e penne per i quali il depistaggio non finisce mai.

Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.