Un salvagente chiamato mare

 

 

Arianna Di Genova IL MANIFESTO 5 agosto 2022

 

 

INTERVISTA. L’artista e performer Elena Bellantoni parla del suo lavoro, in mostra presso Cubo a Bologna. Nella personale sfilano gli ultimi dieci anni della sua produzione. «La grande Torretta di legno, protagonista del video ‘Ho annegato il mare’, rappresenta per me una chiave per decifrare Palermo, per entrarci e capirla. Ho attraversato luoghi in cui, un tempo, il grano e gli alberi d’arancio crescevano forti e orgogliosi al sole. Quella natura ora è scomparsa, al suo posto c’è il cemento»

«Da bambina trascorrevo l’estate nel capanno sul mare dei miei nonni materni in Calabria. Anni di libertà, di scoperte, in cui mi misuravo con il mondo e la natura. Il mare per me è sperimentazione, gioco, rispetto, ma anche attraversamento, orizzonte. Tutti elementi che sono confluiti nella mia poetica. È una fonte d’ispirazione non solo lirica, ma politica, nell’accezione che è emersa fin qui nel mio operare. Abbraccia tutti senza distinzione di sorta, ci racconta del mare nostrum, il Mediterraneo». Definisce così la sua fascinazione per questo protagonista cangiante e denso di immaginari incrociati l’artista e performer Elena Bellantoni (Vibo Valentia, 1975), ospite a Bologna nel doppio spazio di Cubo, a Porta Europa e Torre Unipol, con una personale che ripercorre la sua produzione degli ultimi dieci anni (a cura di Leonardo Regano, fino al 23 settembre). Soggetto increspato da infinite malìe e intessuto di altrettante storie, il mare, appunto.

Un mare però «imperfetto», come si evidenzia nel titolo della mostra…
Imperfetto-mare è una declinazione linguistica che io gli consegno sia come fosse una qualità, quindi aggettivo, che come verbo. Lavoro spesso a partire dal linguaggio e dalla parola poetica. Il mare è sempre stato un elemento riflessivo per scrittori e filosofi; in questo caso, ho costruito una composizione «poetica» al verbo imperfetto legata a un video Maremoto (2016). L’azione che compio, ovvero lo sforzo di attraversare il Mediterraneo – le coste che dalla Sicilia occidentale guardano l’Africa – in sella a una bici, è di per sé impossibile. In questa prova di forza tra me e il mare, m’immergo fino a scomparire, e dallo stesso punto affiora un giovane nero che ripercorre a ritroso il mio percorso per approdare sulla spiaggia e proseguire così il suo viaggio in bicicletta. Maremoto è un’opera circolare in cui gli elementi dell’acqua, del mare e dell’attraversare raccontano la storia di Ibrhaima, un ragazzo arrivato a Lampedusa dal Senegal. È la sua voce ad accompagnare il filmato in lingua pulaar, il suo dialetto. Il Mediterraneo da sempre ha rappresentato una strada d’acqua percorsa da popolazioni che giungevano e ripartivano.
In «Ho annegato il mare» c’è la testimonianza di una frattura consumatasi tragicamente fra esseri umani e natura. Perché la scelta di quel litorale, denominato negli anni «la fogna» e, a fare da controcanto, la storia di Borsellino ricorrendo ai ricordi della figlia?
Ho annegato il mare nasce come progetto per i Collateral Events di Manifesta 12, in collaborazione con il Museo Mare Memoria Viva di Palermo. In questo contesto sono scaturite alcune mie riflessioni e visioni sulla costa sud e non solo. Mi sono interrogata molto sulla speculazione edilizia, passata alla storia come «sacco di Palermo», avviato durante gli assessorati di Lima e Ciancimino; e, a partire da quegli anni, ho cercato di rileggere il territorio, il suo tessuto sociale, e di soffermarmi sui segni sui quali oggi poggia la città. La grande Torretta di legno, protagonista del video, rappresenta per me una «chiave» per decifrare Palermo, per entrarci e capirla. Ho attraversato luoghi in cui, un tempo, il grano e gli alberi d’arancio crescevano forti e «orgogliosi» al sole. Quella natura ora è scomparsa, al suo posto, c’è il cemento.
La Torretta somiglia molto a una torre di salvataggio, una di quelle che troviamo sulle nostre spiagge. La struttura è un dispositivo d’incontro che mette in relazione la città, il mare, la memoria personale con la mia azione di natura partecipativa. La sua altezza di 2 metri e 80 centimetri è funzionale alla vista del mare negato dal cemento, è dotata di ruote, è quindi mobile, lo segna con il suo procedere. La torre evoca anche un altro ambito come quello degli scacchi, nel quale ha un ruolo particolare: difende il re ed effettua l’unica mossa che coinvolge, nello stesso momento, due pezzi presenti sulla scacchiera. Pensando a questa funzione, non posso non citare e associare la mia torretta di avvistamento alla figura di Pio La Torre, sindacalista illuminato e collaboratore di Berlinguer, il quale propose il reato di associazione mafiosa che prevedeva il sequestro e la confisca dei beni immobili. Nel 1976 La Torre fu componente della Commissione parlamentare antimafia che accusava duramente Vito Ciancimino, Salvo Lima e Giovanni Gioia di avere rapporti con la mafia.
Alle 9,20 del 30 aprile del 1982 Pio La Torre, insieme al suo collaboratore Rosario Di Salvo, fu assassinato. In questo percorso che racconta le cicatrici della città ho voluto far parlare Fiammetta Borsellino che, come gli altri, a partire dal mare ha fatto emergere un suo ricordo intimo legato alla figura paterna, Paolo Borsellino. Non volevo in alcun modo strumentalizzare la sua «testimonianza», diventata la delicata voce narrante del video; lei ragiona con sguardo lucido sul mare come elemento simbolico, di natura psichica e intima da una parte, e dall’altra politico, legato alla storia del nostro Paese e intrecciato inesorabilmente alla sua vita personale. Considero il 1992, per la mia generazione e non solo, uno spartiacque. È stato un anno in cui il futuro, le grandi speranze sono morte definitivamente.

In quel video si narrano le metamorfosi del paesaggio, affidando alla voce degli abitanti (che salgono sulla torretta per le loro «confessioni») il racconto di un passato e di un presente difficile: la fine di un mondo passa attraverso la testimonianza vivente, così come accade – in un altro lavoro – con la donna appartenente alla cultura in estinzione Yegan, della Terra del Fuoco. Può dirci qualcosa al riguardo?
Il progetto Hala Yella adiós/addio prende vita da un’esperienza intensa che ho vissuto a Capo Horn per circa 3 mesi, a cavallo tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013. In quel periodo, mi sono spinta in uno dei punti più estremi dell’America Latina, al Sur – nella Patagonia cilena, nell’Antartide meridionale – alla ricerca dell’abuela Cristina Calderon. Sono giunta in questo lembo estremo del mondo per incontrare l’ultima superstite di una stirpe molto antica: gli Yaghan, popolazione nativa dello stretto di Magellano. Ho passato due mesi alla Biblioteca Nacional di Santiago del Cile per studiare sui testi dei padri gesuiti – in lingua francese e inglese –, trovare le tracce di quest’idioma e produrre un abbecedario illustrato. Dopodiché, mi sono imbarcata con una nave cargo e in circa di 58 ore di navigazione ho raggiunto el fin del mundo: la isla Navarino, ovvero Capo Horn, per incontrare questa donna – dichiarata patrimonio dell’Unesco nel 2006 – che parla lo yaghan. Cristina Calderon, oggi scomparsa, era l’ultima della sua stirpe antichissima, originaria della Terra del Fuoco. La mia investigazione non voleva interpretare la sua cultura, ma testimoniare l’incontro con «l’alterità radicale», come la definirebbe Emmanuel Lévinas. La posizione che ho scelto di assumere è quella dell’ascolto e dell’apprendimento, opposta all’atteggiamento assunto dai primi conquistatori di quelle zone così lontane.

Il mare come momento evocativo dell’infanzia, dei giochi e della libertà lo ritroviamo in «CeMento», ma quegli oggetti si sono trasformati nel loro opposto e denunciano la contraddizione del «nostro stare al mondo» predatorio…
CeMento è un lavoro sull’illusione e sulla menzogna, su ciò che ci tiene a galla, o ci fa affondare. L’installazione è composta da giochi e oggetti legati al mare: un materassino, una boa, un secchiello, dei braccioli etc. Dovrebbero galleggiare, ma non è così poiché sono fatti di cemento. La menzogna ha connotato molti dei discorsi politici dell’ultimo ventennio e non solo. Nello specifico, il cemento a partire dagli anni ’70 ha rappresentato il materiale che ha falciato e distrutto il Belpaese; nel nostro immaginario collettivo sta anche per il materiale usato negli omicidi di mafia, adoperato per cementificare i corpi, farli scomparire nella colatura per poi gettarli chissà dove. Dal boom economico in poi, è stato utilizzato nelle grandi opere pubbliche che avrebbero dovuto rappresentare la rinascita dell’Italia. Un materiale che non dura più di 60 anni, come per dire che il nostro Paese si poggia sul nulla.  CeMento  nasce contestualmente alla mia ricerca palermitana, ma va oltre evidenziando come l’abuso edilizio non sia stato un discorso legato solo alla Sicilia ma a tutto il territorio nazionale.

Il mare è anche un confine «aperto», un luogo collettivo e utopico per molti migranti che tentano di approdare a un’altra vita, quando non si trasforma in una tomba silenziosa…
Sulla parola poetica legata al mare ho preso il largo anche con Corpomorto (2020) dove ho deciso di lavorare su un termine preso in prestito dal linguaggio marinaresco – quell’oggetto in cemento che fa da punto di ancoraggio in fondo al mare. Corpo-morto evidenzia con il suo peso la presenza di molti altri «corpi morti» nei nostri mari, così come tanti sono quelli che ci sono stati sottratti nei due anni pandemici. Ancoraggio, invece, sottolinea l’azione di buttarsi, il coraggio di usare il proprio corpo come luogo e spazio che fa salpare. Il linguaggio diventa un «salvagente», un posto su cui potersi appoggiare. Tutte le lettere – che butto in acqua attraverso un’azione performativa da un’imbarcazione – sono di un arancio intenso, lo stesso dei giacchetti di salvataggio. Una scritta affiora a pelo d’acqua: ancora corpo morto tra cielo e terra coraggio. È un monito di natura poetica-politica. Il Mediterraneo circoscrive visivamente tutte queste narrazioni, diventa il confine e il luogo d’incontro allo stesso tempo. Dove l’io sparisce, l’Altro emerge. La migrazione è un viaggio di sola andata, non c’è una casa dove fare ritorno


RAI SICILIA 25 settembre 2018 –  FIAMMETTA BORSELLINO

LA BARCHETTA DI PAOLO BORSELLINO