di FRANCESCO LA LICATA
Il giorno 11 di novembre del 1987 era un mercoledì e fu anche la data di inizio della camera di consiglio del maxiprocesso contro Cosa nostra. Poche persone avevano creduto che il “mostro giuridico” – come il “maxi” veniva appellato dagli avvocati difensori del Gotha mafioso e da molti garantisti per interesse – potesse arrivare a quel traguardo (la camera di consiglio), che non era ancora quello finale, ma rappresentava certamente un successo inaspettato. E perciò aleggiava una certa soddisfazione in quella parte dell’aula bunker lontana dalle gabbie degli imputati e dagli scranni degli avvocati. Ma, insieme, si avvertiva il peso di una cappa di paura che per tutta la durata del processo non era mai venuta meno. Già, perché più ci si avvicinava alla sentenza e più si temeva che Cosa nostra avrebbe tentato di “intervenire” alla sua maniera, cioè con un colpo di violenza inaudita.
Era di un certo conforto il fatto che la Corte d’Assise da quel momento sarebbe rimasta chiusa, asserragliata dentro il bunker, sottratta, quindi, alla vista degli assassini che, fuori dall’aula, rimuginavano su come impedire che “u Maxi” arrivasse a sentenza. La più temuta delle sentenze, perché avrebbe sancito definitivamente la supremazia dello Stato legale sulla prepotente illegalità di Cosa nostra. Insomma – si pensava – se ora la mafia volesse giocarsi la carta estrema, dovrebbe letteralmente “spianare” l’aula bunker. Soluzione ritenuta di difficile approccio, soprattutto perché non erano ancora maturi i tempi in cui Cosa nostra si sarebbe trasformata in una organizzazione criminal/terroristica. Cosa avvenuta poi nel 1992, 1993 e 1994, con le stragi nel Continente e la tentata carneficina dello stadio Olimpico.
L’11 novembre, dunque, cominciava la camera di consiglio più lunga della nostra storia giudiziaria. Più lunga e più difficile, sia per la mole del processo che per il clima in cui si sarebbe svolta. L’attesa per quella sentenza era qualcosa di indescrivibile: lo Stato si giocava la faccia e rischiava la patente di eterna inaffidabilità. Cosa nostra metteva sul tavolo da gioco la sua proverbiale “immortalità” di fronte ai colpi inferti dallo Stato legale. Più “esposto” di tutti il capo, Totò Riina, che aveva garantito presso il suo popolo la certezza che il processo si sarebbe sciolto come neve al sole senza provocare conseguenze, se non qualche piccolo “danno collaterale”.
Questo l’enorme peso che la Corte si trascinò nel chiuso degli alloggi e della camera dove si riunivano i due magistrati togati e i sei giudici popolari. Chiusi come in carcere, senza nessun contatto con l’esterno, senza la possibilità di telefonare, di leggere i giornali o guardare la TV. Questo per garantirne l’imparzialità verso gli imputati e per “preservarli” dal condizionamento psicologico che sarebbe potuto giungere dall’esterno, minacce e pressioni comprese.
Era costato una fatica enorme mettere in piedi il Maxiprocesso di Palermo. Fatica e risorse economiche fuori dal comune, come dimostrano il costo dell’aula bunker e la inusitata e straordinaria velocità con cui venne costruita. Una fatica enorme trovare i giudici popolari, strappati a forza alla comprensibile paura per un impegno che appariva davvero improbo. Una marea di certificati medici annunciarono l’indisponibilità di decine di cittadini convocati e neppure presentatisi. Ed anche per i togati le cose non furono piane. Solo il giudice a latere fu certo sin dall’inizio: Pietro Grasso, grande amico di Giovanni Falcone, tecnicamente dotato e ritenuto in grado di garantire una buona tenuta di fronte alle difficoltà insite in quel “mostro giuridico”. Molti magistrati declinarono l’invito a far parte di quella Corte: chi aveva impegni, chi stava male, chi si apprestava ad andare in pensione. La disponibilità arrivò da un magistrato proveniente dalla giustizia civile: il presidente Alfonso Giordano che, contro ogni previsione, a dispetto dell’aspetto fisico, si rivelerà una roccia.
Non sapremo mai cosa avvenne dentro quelle quattro mura dove dibatterono due magistrati togati diversi per carattere e formazione, ma entrambi sostenuti da un incrollabile senso del dovere e sei cittadini (Francesca Agnello, Maria Nunzia Catanese, Luigi Mancuso, Lidia Mangione, Renato Mazzeo e Francesca Vitale, tra i supplenti c’era anche Mario Lombardo, storico corrispondente de L’Ora da Cefalù) gravati dal compito di giudicare non un solo imputato, come accade nella maggior parte dei processi di corte d’Assise, ma un’intera organizzazione criminale che ha tenuto sotto scacco per decenni un popolo e portato la violenza sistemica anche fuori della Sicilia, in territori che sembravano immuni dal contagio mafioso.
I segreti della camera di consiglio non possono essere divulgati e sono protetti da un inviolabile giuramento di segretezza. Immaginate quanto sarebbe appetibile conoscere le dinamiche sviluppatesi dentro quella piccola, eterogenea comunità durante i 35 giorni di lavoro comune. Hanno “ripassato” il film di 349 udienze, 1314 interrogatori e 635 arringhe, hanno “rivisto” i volti di 460 imputati e ad ognuno è stata assegnata una pena.
I siciliani devono molto a quelle otto persone che dovrebbero esser considerate alla stregua di eroi di una Resistenza, ardua come sono tutte le guerre di liberazione. Grazie a loro, due giudici e sei cittadini comuni (insegnanti, impiegati pubblici e bancari) chiamati ad una grande impresa, oggi possiamo vivere una vita migliore, con una mafia che c’è ancora, ma non è più egemone.
“L’ora” – edizione straordinaria