Intervista con il giudice Alessandra Camassa, collega e amica di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Il gruppo facebook “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”, in collaborazione con l’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso, ha intervistato la Dottoressa Alessandra Camassa, attualmente presidente del tribunale di Marsala. Come già avvenuto in precedenza con altri protagonisti della lotta alla mafia, questa intervista viene pubblicata in esclusiva su La Voce di New York.
Una conversazione la nostra mirata alla ricerca storica in un determinato periodo in quanto Alessandra Camassa è stata, dal 1989 al 1993, impegnata in attività di indagini contro le cosche del Trapanese, quel territorio dove è ancora latitante il boss Matteo Messina Denaro.
Camassa ha conosciuto i Giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Si è occupata dei vari aspetti di Cosa Nostra, sia sul piano giudiziario e sia su quello sociale. Ha interrogato collaboratori di giustizia e testimoni. Una donna da sempre impegnata su più fronti contro la criminalità organizzata.
In magistratura dalla fine degli anni 80, ha cominciato come sostituto procuratore a Marsala con Paolo Borsellino. In DDA a Palermo fino al 1993 e successivamente passata in Tribunale come giudice a Marsala, ha continuato ad occuparsi prevalentemente di criminalità organizzata. Dall’anno 2000 al Tribunale di Trapani è stata giudice monocratico, in collegio e in Corte d’Assise, occupandosi anche di misure di prevenzione antimafia. Dal 2010 Presidente della Sezione penale del Tribunale di Trapani e dal Giugno del 2016 Presidente di Tribunale a Marsala.
Malgrado l’impegnativa attività professionale, il giudice Camassa ha comunque sempre tenuto un grande impegno nel sociale, intervenendo in varie scuole d’Italia per parlare di legalità e scrivendo brani e testi teatrali messi in scena in diverse località italiane.
Lei ha frequentato sia Paolo Borsellino che Giovanni Falcone. Addirittura Falcone lo conosceva bene fin da ragazzina. Ci racconta come li ha conosciuti?
“Paolo l’ho conosciuto per ragioni di ufficio perché è stato il mio primo capo ufficio a Marsala. Io arrivai a Marsala nel settembre del 1989, da uditrice, insieme al collega Antonio Ingroia. Paolo era il procuratore. Invece, con Giovanni la situazione è stata diversa, con lui non ho mai lavorato anche perché lavorava a Palermo e la mia prima sede è stata Marsala. Ma Giovanni lo conoscevo sicuramente molto meglio di Paolo perché prima di trasferirsi a Palermo lavorava a Trapani, la mia città. Poi verso il 1978-79 si trasferì nel capoluogo. In contemporanea al suo trasferimento io iniziai l’università a Palermo. Giovanni, appunto, aveva vissuto 12 anni a Trapani ed era molto amico di mia sorella Paola e di mio cognato Ninni. Quando tornò a Palermo, le amicizie che aveva in quella città si erano molto diradate a causa di questa sua permanenza a Trapani, per cui tra i migliori amici con cui usciva di frequente, magari la sera, c’erano appunto mia sorella e mio cognato che nel frattempo si erano trasferiti nel capoluogo. Giovanni, che già incominciava a istruire il processo Spatola, ma non era scortato, non era ancora il giudice Falcone che poi tutti hanno conosciuto; mi veniva a prendere la sera – perché io vivevo in una casa con altre colleghe universitarie – e andavamo a cenare da Paola e Ninni. Mia sorella all’epoca stava iniziando la sua attività professionale, per cui, come accade alle giovani coppie, spesso non aveva qualcosa di pronto e quindi io e Giovanni andavamo a comprare qualcosa da mangiare e ci recavamo da Paola, quindi per me Giovanni era un carissimo amico di mia sorella che io conoscevo da sempre”.
Che carattere avevano?
“Giovanni molto istituzionale; ed era anche consapevole, a ragione, delle sue capacità, delle sue qualità e di avere una visione che gli altri Magistrati non avevano. Vi erano bravi giudici ma Giovanni aveva una visione diversa. Io dico sempre che era un “magistrato statista”. Un giudice che capiva perfettamente come si deve modificare la legge per ottenere determinati risultati o che era particolarmente consapevole del modo in cui bisogna operare nel mondo giudiziario per ottenere risultati migliori. Una visione ampia. Infatti a lui dobbiamo tante innovazioni nel campo della giustizia: la legge sui collaboratori, quella sulle DDA e sulla DNA, sul coordinamento delle indagini. L’ intera struttura dell’organizzazione della lotta alla mafia fu ideata da lui.
Anche Paolo era un uomo che aveva un alto senso del dovere, una grande capacità di sintesi, una grande memoria, un grande acume investigativo e scriveva molto bene. Aveva questo accento siciliano marcato che poteva non fare una bella impressione a chi non lo conosceva, invece era profondo e attento ai particolari ed era una “una bella penna”, scriveva benissimo.
Ma soprattutto Paolo e Giovanni, oltre alla preparazione, avevano una buona quantità di “anima” intesa sia come sensibilità che come passione.
Tra l’altro furono i primi a subire attacchi assai poderosi, seguiti anche successivamente in altri casi; attacchi critici che vennero poi estesi a tutta la magistratura e a cui nel tempo ci siamo, magari, abituati. Ma loro furono i primi bersagli, e questo, probabilmente, li ha in parte fortificati”.
Ce l’ha un ricordo particolare del giudice Falcone?
“Tanti sono ricordi molto personali e sono forse i più belli. Ricordi di un Giovanni meno istituzionale, diverso da quello che poi è diventato o è apparso nel tempo. Ho ricordi bellissimi di pranzi, di quando ero ragazzina, a casa sua a Trapani. E poi ricordi con Francesca. Conoscevo benissimo anche lei per vari motivi, tante festività trascorse insieme a loro a casa di mia sorella.
Le racconto un episodio da cui si evince l’essenza sempre molto istituzionale di Giovanni.
Nel 1988 Paolo rilasciò delle interviste alla stampa, e sia lui che Giovanni finirono per essere chiamati davanti al Csm il 31 luglio del 1988. La vicenda riguardava le dichiarazioni di Paolo sull’allora Capo dell’ufficio istruzione. Aveva sostenuto che il sistema del “pool” era stato distrutto da questa nuova organizzazione che aveva impostato il Consigliere Antonino Meli. All’esterno si mostrarono molto compatti nel difendere la loro impostazione del pool antimafia. E infatti, quando Giovanni venne sentito al Csm sostenne le dichiarazioni di Paolo. In realtà, ricordo che Giovanni, tempo dopo, riferendosi a quell’episodio, a casa di mia sorella mi disse: “Ma insomma glielo vuoi dire a Paolo che deve parlare poco?”. Perché Giovanni era il tipo che, pur non essendo d’accordo con le direttive di Meli, si adeguava comunque. Il suo pensiero era “Meli è il Capo dell’ufficio Istruzione, e pur non essendo d’accordo con le sue direttive, io comunque obbedisco”. Giovanni era questo. Non si sarebbe mai messo contro il capo dell’Ufficio Istruzione. Paolo invece, disse chiaramente ciò che pensava sulle nuove direttive imposte da Meli. E Giovanni, sentito al Csm, sostenne ciò che aveva esternato Paolo. In sostanza Giovanni era d’accordo con ciò che disse Paolo ma lui non l’avrebbe mai detto pubblicamente. Ma questa sua “obbedienza” nei confronti dello Stato si era manifestata anche in altre occasioni. Quando Cossiga, a metà anni 80, mandò i Carabinieri al Consiglio Superiore della Magistratura, ci fu una riunione del nostro gruppo, Movimento per la Giustizia, e anche se ero molto giovane ricordo bene che molti di noi volevano scioperare e, invece, lui disse: “Non si sciopera contro il capo dello Stato, torto o ragione che abbia”. Giovanni non era facile, aveva le sue idee veramente, era quasi “tetragono” in queste cose, a volte non sentiva ragioni”.
È vero che si arrabbiava moltissimo quando perdeva a scacchi con suo nipote Enrico?
“Si arrabbiava tantissimo… e mio nipote lo chiamava “Erode”. Avvenne l’ultima estate che andarono in vacanza insieme alla famiglia di mia sorella in Grecia, e c’era anche mio nipote. In pratica Giovanni aveva insegnato ad Enrico, che aveva solo dieci anni, a giocare a scacchi ma spesso proprio lui, che gli aveva insegnato a giocare, perdeva. Comunque, in generale, non era molto paziente con i bambini”.
Il fatto di aver conosciuto Giovanni Falcone da ragazzina, ha forse influito nella sua scelta di studiare Giurisprudenza e poi tentare il concorso in magistratura?
“Assolutamente no. La mia scelta di studiare Giurisprudenza e poi fare il concorso in Magistratura è stata del tutto casuale senza nulla di glorioso. Io volevo iscrivermi in filosofia, anzi direi che stavo per iscrivermi. Tuttavia proprio l’estate della scelta universitaria mio marito, all’epoca soltanto fidanzato, aveva superato gli scritti del concorso in Magistratura e doveva prepararsi per gli orali, allora mi disse: “Alessandra ripeto qualcosa a te”. Un giovane che si iscrive all’università, in genere, non ha ancora le idee chiare, non sa esattamente cosa è e cosa non è il lavoro del Giudice. E io, ascoltando questi argomenti, mi appassionai e da li partì la mia scelta professionale”.
Parliamo della sua esperienza a Marsala. Lei arriva lì nel settembre dell’89, giovanissima. Che rapporto si instaura con il giudice Borsellino?
“Ottimo perché era una persona molto affettuosa e accogliente. Devo dire che io ero molto autonoma come persona e il dottore Borsellino privilegiava, dal punto di vista affettivo, i colleghi più fragili emotivamente. Io di certo non lo ero. Era molto paternalista quindi “adottava” i colleghi che avevano più problemi personali. Con me, come con tutti, c’era comunque un rapporto eccellente. Di me apprezzava molto il fatto che avessi una certa capacità lavorativa ma non è che avessi un rapporto privilegiato rispetto agli altri. Poi sono una persona molto diretta così come lo era lui e quindi c’era una buona sintonia di carattere. Gli dicevo sempre quello che pensavo e Paolo faceva altrettanto. E questo era uno dei suoi maggiori pregi”.
Quando era a Marsala, si è occupata di collaboratori di giustizia. Qualcuno di questi, negli anni successivi, fu dichiarato inattendibile.
“Li ho conosciuti tutti: Spatola, Calcara, la Filippello. Poi quelli di cui mi occupai nel processo in cui sostenni l’accusa: Rosalba Triolo, Rita Atria e Piera Aiello. Ho avuto modo di conoscerli e sentirli tutti. Alcuni come la Atria, la Aiello e la Triolo o la Filippello erano testimoni non collaboratori. Spatola e Calcara invece erano dei collaboratori.
Per quanto riguarda l’attendibilità: il problema è sempre lo stesso. Ci sono dei soggetti che quando parlano riferiscono vicende che conoscono direttamente, per aver commesso personalmente quei reati, ed in questo caso i riscontri sono più facilmente ottenibili. Ad esempio Spatola, riguardo al traffico di droga, poiché nella vita faceva questo, aveva le sue conoscenze, i suoi canali, fin quando parlava di traffici di droga era attendibile. Stessa cosa per il Calcara che, essendo un trafficante, poteva conoscere determinati fatti che gravitavano attorno a quel mondo. Se si incominciava a chiedergli la distinzione sulle famiglie, o sui mandamenti, allora bisognava essere più attenti. Quando poi qualcuno di questi collaboratori iniziava a parlare di politici nazionali allora lì il percorso cominciava a diventare più complesso e certamente andava verificato molto di più rispetto ai fatti che poteva conoscere per avervi preso parte in prima persona. La Filippello che era la compagna di Natale L’Ala (mafioso di un certo rango a Campobello di Mazara) aveva comunque notizie che si potevano riscontrare. Rita Atria e Piera Aiello, cognate tra di loro, avevano comunque vissuto nel clima e nell’ambiente mafioso in quanto la prima era figlia e sorella di mafiosi, mentre la Aiello moglie di mafioso. Quindi determinati fatti potevano sicuramente averli appresi, e sono stati riscontrati”.
È possibile che tra questi collaboratori alcuni abbiano appreso alcune notizie de relato e magari, dopo, le abbiano storpiate o ingigantite?
“Certo tutto è possibile. Un collaboratore può raccontare quello che vuole, non è che gli si può impedire. Siamo noi che dobbiamo trovare i riscontri alle dichiarazioni. Io dico sempre, che poi è una norma di prudenza, che quando si ha un collaboratore che opera in un contesto piuttosto ristretto, forse alle domande che riguardano contesti più ampi, ci si dovrebbe arrivare per gradi. Ad esempio, se un collaboratore dice di conoscere un soggetto che a sua volta conosce un personaggio politico il quale è amico di un personaggio politico romano, allora teoricamente si può arrivare al personaggio politico romano. Però il percorso è molto più complesso e bisogna valutare e riscontrare in modo più attento. Ed è in quel momento che entra in gioco la nostra professionalità con controlli e verifiche che devono essere approfonditi.
Oggi poi, con la diffusione delle conoscenze tramite il web, è ancora peggio, perché si trova in pratica qualsiasi cosa che riguarda la storia dei processi. Per cui oggi il nostro lavoro è ancora più delicato perché bisogna capire cosa i collaboratori sanno veramente e quanto, magari, hanno letto da qualche parte. La valutazione deve essere più approfondita di prima e soprattutto deve essere ricostruito il percorso attraverso il quale hanno appreso alcune notizie che poi riferiscono all’Autorità giudiziaria.
Infatti a me, come a tutti, capita di farmi la domanda: “Ma questo soggetto come fa a sapere questa notizia o questo fatto?”. Però è anche vero che attualmente non ci sono tutti questi collaboratori fondamentali; o meglio ci sono ancora molte collaborazioni ma più circoscritte di un tempo e forse di soggetti di minore livello criminale. Le indagini usufruiscono soprattutto del supporto delle intercettazioni (telefoniche, ambientali e telematiche)”.
I collaboratori del Trapanese, di fine anni ’80 e inizio anni ’90, agivano in un ambito che sostanzialmente era sconosciuto ai Magistrati per cui teoricamente potevano dichiarare ciò che volevano, convinti di non essere smentiti fin quando non arrivarono dei collaboratori attendibili appartenenti a Cosa Nostra come Patti, Sinacori, Ferro e Brusca, i quali però smentirono totalmente l’appartenenza alla consorteria mafiosa di alcuni collaboratori.
“Sì, però bisogna chiedersi ad esempio come si è arrivati a gente come Patti e Sinacori. Questi erano soggetti di un certo livello all’interno della consorteria mafiosa e quindi hanno dato notizie di prima mano e dirette, particolarmente riscontrate. Però per arrivare a questi si è dovuto passare da cerchi concentrici più lontani. I vari Spatola e la Filippello, molte cose le sapevano per sentito dire, perché comunque erano vicini al mondo che orbitava intorno a “Cosa Nostra”: Spatola, che certamente non era un associato, era però un trafficante ad alto livello, la Filippello conosceva certi fatti perché era la compagna di Natale l’Ala e quest’ultimo era un mafioso di un certo rango che poi fu ucciso. Filippello e Spatola fornirono molti elementi che hanno permesso di avvicinarsi agli appartenenti alla consorteria.
Spatola, pur non essendo interno all’organizzazione, ha permesso comunque di avvicinarsi a fatti e nomi interni all’organizzazione. Ci ha permesso di raccogliere elementi che poi hanno consentito l’arresto di Patti e Sinacori i quali, in seguito, collaborando, hanno riferito notizie di prima mano”.
Quando ha deposto al Borsellino quater ha parlato di un presunto attentato al dottor Borsellino di cui la notizia sarebbe arrivata da Radio Carcere e l’avrebbe portata il maresciallo Canale all’incirca nel febbraio 92. Nella stessa udienza il suo collega Massimo Russo parla di un’altra notizia che riguardava un presunto attentato al dottore Borsellino e che era stata riferita da Calcara a fine ’91. Ora noi ci chiediamo se si tratta della stessa notizia riportata in tempi diversi o se è possibile che gli attentati fossero due.
“Certamente ciò che riporta il collega, e cioè che Calcara parlò di questo attentato, è sicuramente verissimo anche perché ricordo che si disse che questo soggetto aveva raccontato di questo possibile attentato. Ma è anche vero quello che riporto io. Ricordo nitidamente che un giorno il maresciallo Canale, al pian terreno del palazzo di giustizia di Marsala, mi fermò e mi disse: ”Dottoressa lo sa che c’è questa notizia su un possibile attentato al Dr Borsellino ed un altro sostituto?” Al che io chiesi chi fosse la fonte e lui mi rispose: ”Questo è quello che arriva da radio Carcere”. Poi se le due notizie provenissero dallo stesso soggetto e furono veicolate da Canale, tramite Calcara, io questo non lo so”.
Spesso ha raccontato di uno sfogo che Borsellino ebbe nel suo ufficio a Palermo, davanti a lei e al magistrato Massimo Russo. Scoppiò a piangere dicendo: “Non posso credere che un amico mi abbia tradito”. E lei racconta questo episodio dopo molti anni… Ha avuto dei rimorsi per non averlo riferito prima?
“Ma io all’epoca non pensai che fosse un qualcosa di legato alla professione. Era presente, appunto, anche il mio collega Russo. E anche lui non pensò chiaramente a qualcosa di professionale. Pensavo fosse un problema personale e l’ho pensato fino a quando poi non uscirono tutte queste notizie strane sulla vicenda della trattativa. A quel punto ho ripercorso la vicenda ed ho parlato con il collega Sergio Lari spiegandogli che, avendo letto di queste notizie che venivano riportate sulla trattativa, forse dovevo raccontare un fatto che era accaduto, in mia presenza, nel periodo antecedente all’attentato di via D’Amelio perché magari poteva essere rilevante. E quindi fui sentita dalla Procura di Caltanissetta. Non ricordavo esattamente i tempi, poi scoprii che questa specie di sfogo coincideva con il periodo in cui Paolo avrebbe avuto questa presumibile rivelazione sulla trattativa ma io questo non lo sapevo all’epoca. Fu la Procura di Caltanissetta a ricostruire tutti i tempi, che io sinceramente non ricordavo, in cui sarebbe avvenuto questo sfogo. Il periodo era sicuramente fine giugno del ’92 perché in quell’incontro invitai Paolo per il saluto che volevamo fare il 4 luglio a Marsala”.
I collaboratori di giustizia non sono certamente tutti pentiti, anzi probabilmente non sono dei pentiti nel senso etimologico del termine. Lei ha conosciuto qualcuno che le abbia dato l’impressione di essere veramente pentito di ciò che aveva commesso?
“Ma del collaboratore di giustizia non dobbiamo certo avere l’idea di un soggetto che si pente nel significato cattolico del termine. Per quanto riguarda la mia esperienza, tra tutti coloro che ho interrogato, ne ho incontrato soltanto uno che mi ha dato l’impressione di essere veramente pentito, anche nel senso religioso, ed è stato Antonino Calderone. Mi è sembrata una persona che aveva rivisitato tutte le sue scelte. Comunque è una mia opinione personale”.
Il Commissario Rino Germanà, oggi in pensione, è un investigatore che era molto stimato dal dottor Borsellino e da tanti suoi colleghi. Ancora prima dei collaboratori del Trapanese aveva, con moltissime relazioni, disegnato le mappe delle famiglie di quella zona. Secondo lei perché fu allontanato da Palermo e mandato a Mazara del Vallo, visto che nel capoluogo lo aveva voluto proprio Borsellino?
“Prima ancora dei collaboratori, prima dei testimoni, prima di qualsiasi pentito, lui aveva capito assolutamente tutto. Chi aveva un peso, chi contava, chi manovrava; era un investigatore di razza. Di un intelligenza pura. Dunque, ad un certo punto chiese il trasferimento ma non so dove. Sicuramente non pensava e non voleva essere trasferito a Mazara del Vallo. Era già stato Commissario proprio in quella cittadina; quindi tornare li, anche dal punto di vista della carriera, non aveva certamente senso. Sul perché sia stato trasferito a Mazara del Vallo è una domanda che ci siamo fatti. Io ricordo che gli avevo dato una delega di indagini per la vicenda di un notaio, Ferraro, che aveva contattato un collega, Salvatore Scaduti, il quale il giorno dopo doveva emettere una sentenza per l’omicidio Basile. La delega era finalizzata a verificare se era vero quello che ci risultava avesse raccontato Ferraro al magistrato dott. Scaduti e cioè che c’era un “politico trombato di nome Enzo dell’area Manniniana” che lo aveva incaricato di incontrare il dott. Scaduti prima della sentenza. Io delegai il Dottore Germanà per capire chi fosse questo politico di nome Enzo. Probabilmente, ma non posso esserne certa, tutto questo qualche disturbo lo creò perché Germanà fu chiamato a Roma. Qualcuno voleva sapere di questa delega: cosa aveva scoperto e come mai c’era questa indagine. Ed a distanza di poco tempo venne trasferito a Mazara. È vero che lui aveva fatto domanda per il trasferimento ma non certamente per andare a Mazara del Vallo; anzi era molto preoccupato di tornare proprio lì. Se la ragione del trasferimento a Mazara è stata quella delega io non lo posso proprio sapere. L’indagine che io gli avevo delegato poteva essere fatta come appartenente alla Criminalpol che era un ufficio distrettuale non certamente se fosse stato a Mazara. Infatti lo delegai in quanto operava alla Criminalpol, venendo trasferito non avrebbe più potuto seguirla e infatti non la seguì più. A Mazara del Vallo lo sapevano tutti che avrebbe corso grossi rischi e infatti poi si è purtroppo compreso. Di quella cittadina, di quel territorio, lui conosceva tutto avendo già lavorato lì; e tornando lì veniva esposto a rischi maggiori. Probabilmente si salvò dall’attentato che gli tesero nel settembre del 92 perché il kalashnikov aveva un problema di malfunzionamento. La potenza esplosiva veniva diminuita. Il primo colpo gli venne sparato con un fucile e prese il montante della macchina e fu ferito di striscio, riuscì a scendere dalla macchina e a buttarsi in mare. Poi cercarono di sparargli col kalashnikov ma, essendo in cattive condizioni d’uso, il colpo non riusciva a raggiungerlo. Questo, certamente, lui non poteva saperlo. Ci provarono varie volte. Riuscì ad esplodere un solo colpo e poi la pistola gli si inceppò; però fece finta di continuare a sparare per far capire che poteva difendersi. Si salvò così”.
Che rapporto aveva Borsellino con gli uomini della scorta?
“Buono, ottimo, era molto affettuoso. Paolo era affettuoso con tutti, un padre. Spesso scappava alla tutela e andavamo a pranzo senza scorta”.
E Falcone come si comportava con la scorta?
“Istituzionale e severo, rigoroso. Pretendeva molto ma era giusto così. Giovanni e Paolo erano diversi anche nei rapporti con le relative scorte. Giovanni non penso che uscisse senza scorta o perlomeno io non l’ho mai visto. Era molto prudente. Anche quando partiva in vacanza, e andava fuori, aveva comunque un controllo, anche se generico, da parte della polizia locale”.
Ha un ricordo particolare di Paolo Borsellino?
“Spesso si ricordano le cose più dolorose. In particolare il giorno in cui lasciò Marsala per tornare a Palermo. Paolo era molto contento di tornare in Procura a Palermo. Tornava a casa sua, al suo territorio, alle sue indagini, dalla sua famiglia. Io questo momento l’ho vissuto male. Se ne andò un pomeriggio dopo pranzo. Lo vennero a prendere due colleghi di Palermo, di cui uno era il dottore Natoli. Era contentissimo. Si girò per salutarmi ma io sentii qualcosa come se fosse stato un saluto mancato. Volevo dirgli tante cose ma non ci riuscii, in quel momento mi sentii sospesa e un po’ abbandonata. La sensazione di aver desiderato di avere più tempo per salutarlo. E poi un ricordo, invece bello, è quello relativo all’inizio della collaborazione di Rita Atria. Arrivò una mattina che sembrava più ragazzino di tutti noi, era il più entusiasta. Mi disse: “Vai subito a sentirla, bisogna battere il ferro finché è caldo”. Aveva “l’entusiasmo dell’indagine” molto più forte dei colleghi più giovani, nonostante avesse 52 anni sembrava un ragazzino. Ma era così di suo. Arrivava al mattino, sempre effervescente e ci chiedeva subito: “Allora cosa avete fatto ieri ? Cosa è successo? Ci sono novità?” Era un uomo che si entusiasmava a 52 anni quando iniziava una nuova indagine. Ed era così anche nella vita, con la sua famiglia con i suoi figli. Abbiamo perso moltissimo perché Paolo era un padre in generale, era molto paternalista con tutti noi. Fare il padre era il ruolo che gli riusciva meglio. Il padre burbero, quello che ti rimprovera ma allo stesso tempo ti protegge, che ti coccola, e se fai una cosa sbagliata ti sgrida. Era così con noi:un padre”.
Quanto ci mancano? Quanto ha perso l’Italia nel ’92?
“Ha perso moltissimo e la loro presenza è stata importantissima. Perché hanno voluto scavare all’interno di Cosa Nostra. Vede, già nel ’37 ci fu un certo dottore Allegra che ricostruì “cosa nostra” molto meglio di come ha fatto poi Buscetta perché era un medico, quindi aveva un livello culturale che gli consentiva di fare collegamenti, di intuire certe relazioni. Aveva rapporti con la politica, raccontava in maniera dettagliata tutta la struttura di Cosa Nostra: consigliere, capo decina, capo mandamento, capo provincia, tutto in maniera perfetta. Dichiarazioni perfette; addirittura, per quanto concerne la politica, raccontò come votavano i mafiosi e per chi. I nomi degli uomini d’onore di cui parlava erano gli stessi dei soggetti che poi noi abbiamo processato. Erano i nonni di quelli in cui ci siamo imbattuti dopo 50 anni. Era, in pratica, un collaboratore di alto profilo ma non è successo nulla. Ce l’ha dovuto raccontare nel 1984 Buscetta cos’è la mafia. Quindi ciò significa che all’epoca, negli anni ’30, la magistratura non era certamente autonoma e indipendente. La mafia dell’epoca era sì la mafia dei campieri e dei gabellieri ma era strettamente connessa all’aristocrazia che di quei campieri si avvaleva per controllare il feudo e quindi alla politica che rappresentava proprio i ceti più abbienti, e quindi i processi cadevano e morivano. Nell’84 i giudici, essendo in piena democrazia, quindi autonomi e indipendenti, volevano capire e conoscere. Soprattutto Falcone. Quindi scavarono all’interno di Cosa Nostra. E questa fu la loro rivoluzione. E la magistratura ebbe una svolta. Certamente le indagini sono continuate dopo la loro morte, non si sono fermate. Ci sono molti Magistrati validi che sono andati avanti ma loro, negli anni 80, diedero una svolta e dettarono un metodo. Loro fecero la “rivoluzione””.
Quelle stragi del 92 hanno dato anche una spinta sociale, hanno portato una presa di coscienza maggiore sul problema Cosa Nostra, specie a Palermo e in Sicilia?
“Purtroppo la popolazione si rende conto solo quando ci sono i morti ma è meno sensibile quando l’organizzazione criminale opera in altri ambiti e condiziona l’economia”.
La scuola ha un ruolo fondamentale per i ragazzi e soprattutto per ciò che concerne la legalità; come si può evitare, secondo lei, che negli Istituti entrino soggetti che poi si rivelano dei falsi addetti ai lavori, falsi tecnici che parlano però di legalità ai ragazzi?
“Non è semplice. Personalmente non credo ci sia una soluzione semplice, una ricetta, perché un Preside o un Professore non può sapere di un soggetto se pubblicamente si comporta in un certo modo e i giornali, per esempio, ne hanno scritto bene, lo hanno inserito in un certo contesto, in un certo ruolo. Quindi un Preside o un Professore non può conoscere, non può sapere se il soggetto è un falso addetto ai lavori o un ciarlatano. Guardi anche a me è capitato di essere in un convegno dove magari ero seduta di fianco a persone e poi si sono rivelate vicine a un certo mondo. L’antimafia di facciata è un problema grosso che investe qualsiasi settore. Il problema della falsa antimafia investe anche le associazioni quindi una scuola, anche se si rivolgesse ad un soggetto che sta all’interno di un’associazione, non ha mai garanzie. Un problema grande. Però, non dobbiamo generalizzare perché è un approccio superficiale e dannoso, personalmente vedo che gli insegnanti e i presidi si impegnano molto sul fronte dell’educazione alla legalità e con ottimi risultati”.
Secondo lei qual è il miglior modo per parlare ai giovani, soprattutto nelle scuole, di legalità, diritti e doveri? E cosa possono fare i ragazzi per far fruttare gli ideali lasciati in eredità dai Giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Qual è la via da seguire per attuare quelle “idee che camminano sulle gambe di altri uomini”?
“Personalmente credo che nelle scuole non dovrebbe esserci mai retorica, specie quando si tratta di ragazzi delle scuole superiori che hanno già formato una loro criticità, conoscono fatti, hanno letto molto e sono talmente maturi da avere una visione personale su determinati temi. E poi bisognerebbe evitare una certa “lacrimosità” che spesso purtroppo compare. Bisogna avere massimo rispetto per le vittime della mafia ma mantenere sempre una grande misura nei discorsi perché la retorica uccide la credibilità.
Ai ragazzi, ad esempio, non bisogna descrivere Giovanni e Paolo come degli eroi ma piuttosto come dei punti di riferimento a cui tendere. Se gli si presentano come eroi, i ragazzi si sconfortano, pensano di non potere mai riuscire, nemmeno lontanamente, a raggiungere certi risultati. Non voglio affrontare discorsi politici, sarebbe opportuno però evitare il qualunquismo riferito alla politica come “madre di tutti i mali”, perché alla fine siamo noi cittadini che votiamo, e i giovani devono credere nel cambiamento. E proprio loro possono fare molto. Ma oggi, in questa empasse politica creatasi, non solo si demoralizzano ma vengono quasi esclusi dalla stessa. Io conosco molti ragazzi in gamba, molto preparati e motivati che potrebbero fare molto, con ottime idee innovative, ma la politica odierna li tiene fuori. Certamente questo non permette un miglioramento nell’attuale sistema”.
Qual è stata la sua più grande soddisfazione professionale e la più grande delusione?
“Soddisfazioni personali tante. Ad esempio, le vittime di un reato che ottengono giustizia tramite il nostro lavoro, ecco questa è una grande soddisfazione. E poi credo di aver spesso creato con i colleghi un rapporto “affettivo e affettuoso”. La stima e l’affetto reciproci che si instaurano nei rapporti umani, dovrebbero essere sempre presenti nella nostra professione. E’ indispensabile per lavorare in armonia. Anche delusioni ci sono state e ci sono tuttora. Mi sconfortano, ad esempio, gli scempi del nostro patrimonio edilizio nonostante le varie condanne per abusivismo. Decine e decine di processi conclusisi con la condanna definitiva e poi vedere quegli ecomostri che distruggono il nostro territorio così bello ma, allo stesso tempo, così deturpato. Tante delusioni quando vedo che molti non credono nella giustizia, si sottraggono alla testimonianza. Ecco questa carenza di senso di giustizia, la mancanza del bisogno di verità, sono per me inconcepibili. Mi riferisco soprattutto ai reati comuni. Posso comprendere – non del tutto però – la paura che pervade coloro che testimoniano nei processi per reati di criminalità organizzata ma nelle violenze sui minori, ad esempio, non è concepibile che ci si sottragga ad un obbligo prima di tutto morale quale è quello della testimonianza. Questa mancanza di senso di Giustizia è una delle cose che mi sconforta e mi delude di più. Manca una buona educazione alla legalità anche in questi termini. Quel “senso del dovere” in cui hanno creduto moltissimo Giovanni e Paolo”. LA VOCE DI NEW YORK 14.3.2017