di Lionello Mancini
Pochi giorni fa il presidente del Consiglio ha preso una posizione ufficiale davanti al Parlamento, riferendosi alla vicenda giudiziaria in cui è finita l’Eni (ma anche al pasticcio delle primarie emiliane, inciampate in un modesto caso di spese pazze). «Non accettiamo – ha detto Renzi – che un avviso di garanzia, costituisca un vulnus all’esperienza politica e imprenditoriale di una persona». E ancora: «In queste ore la prima azienda italiana è stata raggiunta da uno scoop, da un avviso di garanzia, da un’indagine. Noi rispettiamo le sentenze, ma non accettiamo che avvisi di garanzia più o meno citofonati sui giornali consentano di cambiare la politica aziendale in questo Paese». L’Anm ha replicato indignata: «Respingiamo fermamente l’idea che la magistratura intenda interferire nella politica economica di un’azienda. Così come l’idea di una sua responsabilità nell’eventuale strumentalizzazione di atti che sono imposti dalla legge».
Ha ragione, Renzi, a dire che la carriera di una persona non può essere decisa da un avviso di garanzia e ne ha ancora di più quando il lavoro dei Pm viene “citofonato” da uno scoop. Ma ha torto, il premier, quando accosta questi obbrobri mediatico-giudiziari alle critiche dell’Anm alla “riforma” della giustizia e ha ancora più torto quando eccita gli animi degli italiani su una questione obiettivamente secondaria come le ferie dei magistrati.
Ha ragione l’Anm a definire “atto dovuto” un avviso di garanzia e ne ha ancora di più a respingere ogni programma di interferenza sulla politica economica di un’azienda o del Paese (a meno che per interferenza non si intenda l’aver imposto dopo 30 anni la resa dei conti con i Riva e la loro corte di corrotti, o aver sanzionato i colpevoli delle morti da amianto). Ha torto l’Anm a non prendere ufficialmente (ufficiosamente già avviene con tanto di nomi e cognomi) le distanze dai colleghi ogni volta che, utilizzando i loro poteri, intendono governare con le inchieste o le sentenze; e ha ancora più torto a non condannare pubblicamente ogni palese messa in moto del circuito mediatico-giudiziario. Perché a volte non serve, in un tribunale, aprire un’inchiesta per sapere da dove è uscito un verbale, un’intercettazione non depositata, la notizia di un’iscrizione al registro degli indagati.
Sulle responsabilità, morali e penali, del personale politico italiano non c’è molto da dire. Esistono partiti che non esitano ad accogliere spregevoli candidati solo perché garantiscono voti. Come esistono singoli magistrati che friggono dalla voglia di fare pulizia al posto della politica o addirittura della politica – non del singolo politico – e a questo scopo, spesso apertamente dichiarato, non esitano a violare procedure, utilizzare la stampa, tenere in pugno per anni personaggi pubblici o imprenditori, sapendo che non riusciranno a farli condannare.
A mettere in riga i partiti dovrebbero essere gli elettori e gli organismi dirigenti eletti. A mettere in riga i magistrati dovrebbero provvedere i capi degli uffici e il Csm (se intanto il Parlamento avrà ritrovato la dignità di completarne i ranghi).
Sole 24 Ore 22.9.2014