Il marito, Fulvio Sodano, fu prefetto nella Trapani delle banche, delle logge e della mafia. Con l’economia sotto il ferreo controllo degli uomini dei boss Vincenzo Virga e Matteo Messina Denaro. Protetti da schiere di fiancheggiatori e da un politico potentissimo che mal tollerava quel darsi da fare di pochi investigatori, magistrati e funzionari dello Stato integerrimi. Osteggiato e isolato, Sodano, un eroe borghese dimenticato, fu allontanato su pressione dell’allora sottosegretario all’Interno Antonino D’Alì. La vedova del prefetto, Maria Sodano, ha analizzato la cattura del boss in un appunto per fissare i pensieri suscitati dalle immagini e dai commenti sull’arresto e conclude: «Ho sempre ritenuto che si sarebbe giunti alla cattura di Mattia Messina Denaro conseguentemente all’arresto per concorso esterno in associazione mafiosa di un noto soggetto appartenuto alle Istituzioni».
La correlazione di tempi e storie è al centro della riflessione di Maria Sodano che pubblichiamo integralmente qui sotto. Perché tra l’arresto di D’Alì e quello di Messina Denaro intercorrono 32 giorni in fondo a una storia che inizia più di vent’anni fa.
Il prefetto Fulvio Sodano, napoletano d’origine arrivò in Sicilia nel 1990. A Trapani nel 2000. Lì si spese senza riserve per tenere in piedi la Calcestruzzi ericina, la società del cemento che con il boss Virga al comando aveva il monopolio delle forniture ai cantieri e dopo il sequestro rischiava il fallimento.
Il messaggio dei boss era chiaro: con noi si campa, con l’antimafia si muore. Il prefetto riuscì a tenerla in piedi e a rafforzarla, denunciando l’isolamento in cui l’azienda si era ritrovata. Aprì le porte del Palazzo alla città, contribuendo al risveglio delle coscienze trapanesi, come gli riconobbe l’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. Poi toccò anche a lui patire la messa all’indice, come fosse un’anomalia. Perché mentre i boss tentavano di tornare al comando della Calcestruzzi, D’Alì vedeva nell’azione del prefetto un intralcio al corso placido degli affari trapanesi all’insegna del compromesso. In un faccia a faccia gelido gli disse a muso duro: «Io ho carta bianca su trasferimenti e nomine». Un preavviso di sfratto che arrivò puntuale. Nel 2003 il prefetto fu trasferito ad Agrigento su disposizione del governo Berlusconi.
Ci rimase fino al 2005 quando dovette prepensionarsi per l’avanzare inesorabile della Sla che lo divorò ferocemente con il crescere delle sue amarezze. In televisione, durante una puntata di Anno Zero di Michele Santoro, impossibilitato a parlare, scrisse su un foglio il nome del mandante del suo trasferimento. Come aveva già denunciato ripeté il nome del sottosegretario all’Interno, Antonino D’Alì. Potentissimo luogotenente trapanese del leader forzista, D’Alì, apparteneva a una famiglia di banchieri e imprenditori agricoli che i Messina Denaro li avevano in casa come campieri. «Subiti e allontanati», disse lui. Per nulla, secondo i magistrati che hanno ricostruito il sostegno elettorale dei boss al senatore e sottosegretario.
Così l’ombra dell’ingombrante rapporto tra D’Alì e Messina Denaro ha inseguito il politico per vent’anni costellati da un processo conclusosi prima con un’assoluzione, poi con un nuovo verdetto: condanna a 6 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, divenuta definitiva.
Durante l’iter giudiziario la vicenda Sodano è stata ricostruita insieme con la storia di un altro intervento del politico per il trasferimento del funzionario di polizia Giuseppe Linares, ovvero del poliziotto che guidava le ricerche di Matteo Messina Denaro. Una rimozione alla quale Sodano ovviamente si era opposto.
Il 14 dicembre 2022, Antonino D’Alì si è consegnato al carcere di Opera. Poco più di un mese dopo Matteo Messina Denaro è stato catturato.
Nella sua lettera che pubblichiamo integralmente qui, Maria Sodano, nota la coincidenza temporale, tiene a non togliere nulla alla meritoria opera di indagine dei carabinieri e dei tanti che hanno partecipato con passione e dedizione alla trentennale ricerca del latitante ma non può non notare il singolare tempismo.
Al prefetto Sodano, il prefetto del popolo, morto nel 2014, amato dalla migliore comunità trapanese, osteggiato dal potere locale, un gruppo spontaneo avrebbe voluto assegnare la cittadinanza onoraria ma per lungo tempo l’amministrazione non la concesse. Quando alla fine gliela concessero, il prefetto la rifiutò. E per vent’anni sul prefetto che smascherò la doppiezza del politico più influente della provincia di Trapani è caduto l’oblio. Non un riconoscimento statale, non una citazione tra le vittime di una lotta alla mafia combattuta nell’impegno quotidiano.
LA LETTERA INTEGRALE DI MARIA SODANO
«Forse deluderò molti nel pensare senza tentennamenti che in quella di oggi leggo una rivincita un po’ più sociale legata ai cittadini onesti più che statale pur riconoscendo un grande merito all’Arma dei Carabinieri. La lunga latitanza di Mattia Messina Denaro, peraltro preannunciata da un po’ di tempo dai media (e quindi mi stupisce lo scalpore) è frutto di coperture e fiancheggiatori soprattutto all’interno di un mondo politico istituzionale corrotto e connivente che stenta a venire allo scoperto, una sfida tuttavia resa meno impossibile perché semplicemente è crollato il sistema, sono venute meno le protezioni importanti grazie alla cocciutaggine di qualche Magistrato fedele che le ha indebolite con la condanna di soggetti che ne garantivano la latitanza . È così difficile comprenderlo?
Ma lo Stato ha vinto veramente? Dopo 30 anni personalmente sarei cauta agli eccessi di clamore, ripeto senza togliere il grande merito a quanti oggi hanno contribuito alla cattura. A mio avviso bisognerebbe fare un lavoro di prevenzione sul territorio e sulle reti di relazioni per smascherare le connivenze e gli infedeli servitori dello Stato che spesso si annidano li dove è possibile esercitare il potere. Cercarli dopo lascia il tempo che trova.
Affermare che oggi lo Stato ha vinto e che la mafia è un ricordo è molto azzardato e rischioso.
Lo Stato può dire di vincere solo quando riconoscerà Giustizia Verità e Dignità ai suoi uomini migliori, molti dei quali oggi non ci sono più, involontariamente divenuti eroi. Solo motivati da un forte credo personale hanno lottato, denunciato con coraggio nomi eccellenti della criminalità organizzata ma anche soggetti all’interno delle Istituzioni dai comportamenti certamente distanti dai valori di autentica Giustizia e Legalità ma non sono stati creduti. Ciò avrebbe consentito di mettere in luce molte verità inquietanti, di smantellare certe strane e anomale alleanze. Hanno esposto a rischio le loro vite per sconfiggere quel sistema, nella lucida consapevolezza di essere isolati e abbandonati da chi doveva proteggerli, consegnandoli così alla mafia.
Lo Stato che sapeva e taceva, uno Stato omertoso, complice che sceglie di rendere martiri e perseguitare i suoi uomini migliori.
Spero che spinti dal volere del popolo si porti avanti quello che la nostra Costituzione afferma ma che non sempre ad oggi è stato garantito: il diritto alla Giustizia, altrimenti si rischia di svuotare ancora di significato l’operazione di oggi.
Per la mia esperienza familiare ho sempre ritenuto che si sarebbe giunti alla cattura di Mattia Messina Denaro conseguentemente all’arresto per concorso esterno in associazione mafiosa di un noto soggetto appartenuto alle Istituzioni. Della notizia del suo arresto risalente a circa un mese fa, ostacolato fino alla fine, si è cercato di contenerne la diffusione. Non doveva fare scalpore seppure risaputo e confermato da atti giudiziari di avere mantenuto rapporti in affari con lo stesso Mattia Messina Denaro e la sua famiglia.
Il suo ruolo istituzionale e politico ricoperto per anni gli ha consentito, abusando indisturbato, di avere “carta bianca” nell’assumere certe “decisioni..” a propria convenienza nel settore della Giustizia, nel mondo degli affari, cacciare via i soggetti a lui scomodi …., spiare e depistare le indagini, insomma padrone di gettare la Giustizia nella fogna.
Il 13 marzo 1993 Mattia Messina Denaro, in occasione della deposizione per l’omicidio di Francesco Accardo presso il Tribunale di Marsala dichiara di svolgere l’attività di agricoltore nelle tenute del soggetto delle Istituzioni (Contrada Zangara di Castelvetrano (vedi documenti processuali) e che uno dei fratelli ha lavorato alle dipendenze della Banca Sicula della famiglia del suddetto importante soggetto.
Per tornare alla mia disumana esperienza familiare, una certa parte dello Stato, con precisa volontà, per convenienza e/o per vigliaccheria, piuttosto ha preferito isolare e abbandonare al suo atroce destino un suo vero fedele servitore il Prefetto Fulvio Sodano che con coraggio ha pubblicamente denunciato quel noto soggetto delle Istituzioni, gli ha negato il dovuto sostegno pur in presenza di una atroce malattia, senza pietà, rendendola così più atroce fino alla morte. Lascio ogni riflessione agli umani con cuore.
Giustizia è stata fatta? Assolutamente no fino a quando non sarà resa Dignità ai Veri Servitori dello Stato e che lo Stato continua a non riconoscere e fino a quando non avrà cacciato via la mafia all’interno dei suoi apparati, fino a quando consentirà in maniera incontrollata a certi suoi uomini di agire in assoluta libertà, consentendo loro di istituzionalizzare e legalizzare certi comportamenti distorti che hanno dimostrato favorire la criminalità organizzata.
Mi chiedo da cittadina e da familiare vittima innocente di tali connivenze, cosa vuol dire fare prevenzione. Personalmente senza presunzione di fare lezione di Giustizia e Legalità ma semplicemente come tanti cittadini onesti credo che fare prevenzione possa significare agire sul territorio costantemente con trasparenza, cercando da subito di individuare i fiancheggiatori che spesso la storia ha dimostrato essere lì dove non dovrebbero assolutamente stare, nei centri di potere.
Da decenni si studiano le organizzazioni della mafia, se ne è interpretato il loro comportamento e le loro regole grazie al contributo di qualche Collaboratore di Giustizia. Si continua a ripetere che i boss di un certo calibro, da latitanti non si allontanano dal loro territorio per mantenerne il potere, l’esperienza della cattura di Toto Riina e Virga lo confermano. E allora perché lo si è cercato soprattutto all’altro mondo? Eppure circolava con disinvoltura nel suo paesino e dintorni ed era facilmente riconoscibile e somigliante ai tanti identikit».