Di Lionello Mancini
Sabato 25 gennaio si è tenuta la cerimonia di apertura dell’Anno giudiziario nei 26 distretti italiani. Sorvoliamo sulle polemiche tra il presidente del Consiglio e le toghe, seguite alle frasi non felicissime pronunciate da alcuni alti magistrati che parlavano nella loro veste ufficiale. Colpisce, invece, il quadro d’insieme fornito dai capi degli uffici giudiziari, in particolare sulla diffusione della corruzione, sul contrasto alle mafie, sul radicamento della criminalità organizzata al di fuori dei territori d’origine, tratteggiati con parole drammatiche e molto dure per il futuro a tinte fosche che attende l’Italia. Per limitarsi a pochi esempi, secondo il presidente della Corte d’appello di Milano «la ’ndrangheta sta occupando il Nord», grazie a «un’interazione-occupazione nel tessuto dell’economia, della società e delle stesse istituzioni»; con accenti analoghi è stato evocato l’Expo e il fallimento delle misure anticorruzione. A Roma il Procuratore generale ha lanciato l’allarme sulle infiltrazioni mafiose nel mondo del calcio, a Reggio Calabria sul porto di Gioia Tauro, definito il «loro porto» (dove «loro» sono le ’ndrine); Messina è indicata come la città in cui il pizzo imposto alle imprese è il più alto d’Italia, mentre da Palermo il presidente della Corte d’appello avverte che ormai «i boss sono infiltrati negli enti locali». Nonostante le ottime intenzioni che inducono a tali allarmi ed esclusa ogni volontà di danneggiare il Paese da parte degli uffici giudiziari (meritoriamente impegnati a contenere le patologie più gravi) resta che la fotografia fornita – specie agli osservatori esteri – è quella di un’Italia fuori controllo, in mano a orde di delinquenti che distruggono ricchezza e minacciano chi voglia crearne. Ovviamente le cose non stanno così, ma l’effetto di immagine prodotto è dannoso per il nostro bisogno di credibilità internazionale. Per questo risulta ancor più avventato il vecchio vizio di non considerare il contesto in cui risuonano simili analisi, per quanto pensate e prodotte in totale buona fede. È infatti improvvido trasformare una somma parziale di evidenze giudiziarie in apodittiche (e apocalittiche) tesi sociologiche, utili ai titolisti, ma che non accrescono la comprensione dei fenomeni criminali. Una modalità dannosa, non suffragata da uffici studi o da specialisti in analisi statistica e che dunque non discerne il grano dal loglio, finendo – per esempio – per gettare in un unico girone infernale intere categorie sociali, generalizzando concetti che ha invece senso focalizzare dopo una retata di funzionari corrotti o di imprenditori collusi, purché ci si limiti a quei nomi e a quei fatti. Il magistrato non è chiamato a produrre quadri statistici e, se lo fa, deve accuratamente ribadire che si tratta di dati riferiti a una specifica area, che non pretendono di descrivere l’andamento di un fenomeno e che si tratta, sostanzialmente, di annotazioni personali, ancorché ispirate, di chi le stila. Ben altro peso hanno i report scientifici della Banca d’Italia o dei diversi centri studi che, anno dopo anno, comunicano flussi realistici e correttamente gestiti. Le toghe dovrebbero sempre tenersi alla larga dai messaggi a effetto, utili solo a fuggevoli appagamenti personali o a schermaglie di categoria. Perché è così che spuntano cifre a casaccio, come i 60 miliardi l’anno bruciati in corruzione: un’invenzione statistica lanciata due anni fa dalla Corte dei conti, più volte confutata, ma ancora oggi scritta nei documenti, rilanciata in Rete, nei convegni e nelle chiacchiere da bar. Sarebbe molto più utile al loro ordine e al Paese se i responsabili degli Uffici giudiziari contenessero le velleità sociologiche nel momento di massima audience data dall’apertura d’Anno giudiziario, per dedicarsi con rinnovata cura ad aggiornare i risultati conseguiti dai loro uffici in termini di efficienza, di risultati e di obiettivi da raggiungere in nome del popolo italiano.
SOLE 24 ORE 9.2.15