«L’omicidio per strangolamento è più lungo, bisogna avere mani forti e stringere la corda senza fermarsi. Solo quando il poveraccio sanguina dalle orecchie e se la fa addosso, si può realmente decretare la morte (…) Due stringono le mani della vittima da dietro e uno gli mette la corda al collo. Strangolamento classico. A volte gli sguardi s’incrociano, ma non ci sono momenti rivelatori e le emozioni di chi muore strangolato sono sempre le stesse: paura, terrore, a volte sgomento, stupore». Questa affermazione di Gaspare Mutolo appare nel libro “La mafia non lascia tempo”, un ritratto del pentito Gaspare Mutolo curato da Anna Vinci edito da Rizzoli.
Un curriculum criminale di alta levatura, organico a Cosa nostra dal 1973 sino alla sua collaborazione che fece molto discutere, in quanto si accusò di omicidi mai commessi. Proprio su questi punti, tra l’altro, fu smentito in seguito da altri collaboratori di giustizia. Negli anni Sessanta conobbe Totò Riina, suo compagno di cella per otto mesi. Poi entrò in Cosa nostra e divenne un grosso trafficante di droga, in contatto con il singaporegno Koh Bak Kin. Dopo l’arresto, nel 1991, fu Giovanni Falcone che gli propose di collaborare. Grazie agli sconti di pena ottenuti grazie alla sua collaborazione, Gaspare Mutolo nel 1993 fu condannato dal Tribunale di Livorno a nove anni di carcere.
“La mia vita ormai è fatta di fede e di arte“, ebbe a dichiarare a AdnKronos nel 2019, in occasione dell’inaugurazione di una mostra dei suoi quadri, Mutolo, l’ex autista di Totò Riina, l’ex killer-estorsore-rapitore di Cosa Nostra, l’ex trafficante di droga. Durante la detenzione Mutolo si avvicinò all’arte. Durante l’ora d’aria, infatti, si dedicava alla pittura e molti dei suoi quadri, oggi, campeggiano nelle abitazioni di molti leader dell’antimafia.
Nell’aprile 2022, durante un’intervista a Oggi, raccontò di essere «cresciuto in quel garage di via Monte Santo, una parallela di via Roma, a Palermo: c’erano l’officina, l’autolavaggio, un magazzino, la rimessa del Principe Alleato con le carrozze antiche. Quando ancora non sapevo chi fossero i mafiosi, vedevo che lì dentro, in uno stanzone, si riunivano a parlare persone diverse dalle altre, vestite bene, eleganti, che non lavoravano. Vedevo Gerlando Alberti, Giannuzzo La Licata, che Buscetta avrebbe indicato come vittima di Pippo Calò, i contrabbandieri che noleggiavano le 12 auto dell’officina per i loro trasporti. Prima ancora di conoscere in carcere Totò Riina, io frequentavo già l’ambiente mafioso. E mi affascinava, perché vedevo quanto venivano rispettate quelle persone che mi sembravano brave. Ogni tanto ne moriva qualcuna», intervista in cui ha dichiarato che il suo sogno è «tornare a Palermo, un giorno, per parlare alle donne di mafia, alle mogli, alle figlie, affinché convincano i loro uomini a cambiare strada, perché la mafia è morte, ti impedisce di vivere da uomo e di apprezzare le cose belle. Negli anni che mi restano, voglio scontare con la sofferenza il male che ho fatto e lasciare qualcosa di utile, attraverso le parole e i quadri» che, dichiarò, si vendono «anche a 700 euro l’uno».
In attesa del suo arrivo ufficiale a Palermo che, profetizziamo, avverrà il prossimo 19 luglio, in occasione delle commemorazioni della strage di via d’Amelio del ’92, si consola partecipando ai programmi televisivi distribuendo il suo verbo, novello opinionista che commenta episodi che non conosce ma dei quali ha solo contezza attraverso quanto letto sui giornali o seguito nei talk-show televisivi. E la sua presenza si mescola a quella di solidi opinionisti, spesso portatori della loro personale verità o, peggio ancora, inquinatori di pozzi e testimoni in consapevole malafede più interessati a prestigio personale o al denaro derivante dalle loro presunte posizioni. Benvenuto nuovo mondo, che in realtà continua ad essere il medesimo mondo di prima, un mondo fatto di maschere, mephisto, mezze parole e poche verità.
30 Gennaio 2023 GLI STATI GENERALI Roberto Greco