La trattativa Stato-mafia fu un tentativo rimasto senza esito. Così almeno secondo la Corte di Cassazione che ha assolto i carabinieri e politici coinvolti per “non aver commesso il fatto”. Necessario attendere le motivazioni per comprendere meglio la decisione della Suprema Corte.
Com’è noto, il canone di interpretazione di Lloyd Morgan introduce nell’ambito della psicologia comparata animale il criterio scientifico ormai largamente condiviso della prova e fallimento. L’odierna sentenza definitiva della Suprema Corte di Cassazione riguardo alla trattativa Stato-mafia, un autentico esempio di problem-solving, richiama alla mente tale specifico paradigma. Un tentativo di trattativa. La S. C. conferma “la decisione della Corte di assise di appello di Palermo nella parte in cui ha riconosciuto che negli anni 1992-1994 i vertici di Cosa nostra cercarono di condizionare con minacce i governi Amato, Ciampi e Berlusconi, prospettando la prosecuzione dell’attività stragista se non fossero intervenute modifiche nel trattamento penitenziario per i condannati per reati di mafia ed altre misure in favore dell’associazione criminosa”. Un tentativo di condizionamento, per l’appunto. Epperò, fallito. La parte motiva della pronuncia esporrà con maggiore chiarezza e precisione l’iter logico-argomentativo della decisione. Nell’attesa, tuttavia, c’è già spazio sufficiente per qualche concisa osservazione.
La sentenza d’Appello assumeva che la minaccia allo Stato si fosse fermata “all’ultimo miglio”, vale a dire che non avesse raggiunto i destinatari istituzionali. I quali, pertanto, non percependo la minaccia, sono rimasti liberi nelle proprie determinazioni. Cosicché, la minaccia, pur compiendo un certo percorso, nondimeno è rimasta allo stato di tentativo, senza raggiungere la soglia di un’oggettiva effettualità conclusiva.
In breve. Posto che il delitto di minaccia esige la produzione di un effetto intimidatorio sul soggetto passivo, qualora la vittima, per qualsiasi ragione, non ne venga a conoscenza, tale turbamento non può verificarsi, evidentemente. Permane però il tentativo, in quanto che sono stati comunque compiuti “atti idonei” a provocare l’evento. Esemplificando. Se taluno invia una lettera minatoria, ma la missiva non giunge a conoscenza del destinatario e, di conseguenza, la libertà morale del destinatario non viene ferita, il responsabile, se individuato, viene incriminato in ordine al tentativo. Qualora, poi, risultasse che il tentativo era ispirato da un intento morale o una finalità sociale, il responsabile subirebbe una condanna a una pena inferiore, per effetto della concessione delle attenuanti previste dall’art. 62 c. p. In nessun modo, potrebbe essere assolto perché il fatto non costituisce reato!
Nel caso in esame, il reato tentato di minaccia da parte delle cosche nei confronti dei vertici dello Stato non è più punibile per intervenuta prescrizione. E gli imputati eccellenti, gli uomini dello Stato?
Questo il punto dirimente. La S. C. li assolve, assolve ossia lo Stato, per non avere commesso il fatto. Una formula assolutoria più conseguente e pertinente – come avevamo tempestivamente evidenziato su queste colonne – di quella adottata dalla Corte di Palermo, secondo la quale il fatto, pur sussistendo, non “costituiva reato”. Nel linguaggio del rito penale, significa che sussistono tutti i presupposti oggettivi, ma manca l’elemento soggettivo (dolo, colpa, preterintenzione). A giudizio della Corte d’Assise di Palermo, infatti, mancava il dolo, dal momento che gli imputati avevano agito per “motivi solidaristici”, ossia sotto la spinta di ragioni di “particolare valore morale e sociale”: favorire la cessazione delle stragi.
Infine, una volta di più, e in modo definitivo, si riconoscere l’esistenza incontrovertibile del fatto-reato. Purtuttavia, allo stesso tempo, si comprende che non è possibile assolvere con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, perché quel fatto integra pienamente i presupposti e gli elementi costitutivi del delitto di cui alla fattispecie legale. E dunque?
La sola via d’uscita dall’impasse, un vero e proprio cortocircuito logico-giuridico, è di affermare che l’imputato non l’ha commesso. La C. S. pare averla imboccata. Si utilizza, infatti, la formula che l’”imputato non ha commesso il fatto” ogniqualvolta in cui il reato sussista, sia sotto il profilo dell’elemento oggettivo che soggettivo. O perché chi l’ha commesso non coincide con l’imputato. Un esempio. Il giudice assolve l’imputato per non aver commesso il fatto, se l’omicidio si è verificato, ma è stato commesso da persona diversa. Oppure, quando il reato sussiste, ma ci sono delle cause di giustificazione. Si tratta cioè di ipotesi in cui l’imputato ha commesso il reato, ma per una ragione che giustifica la sua azione e ne elimina l’antigiuridicità, rendendo il fatto lecito, come nell’azione per legittima difesa. Nella quale evenienza, tuttavia, non si versa in tema di “motivi di particolare valore morale o sociale”, quale il “solidarismo” accreditato dalla Corte territoriale di Palermo.
Le motivazioni non potranno non focalizzare e argomentare su questo punto, oltre a dedurre l’assenza del “dolo indiretto” anche in costanza e contrasto con le ulteriori e palesi conseguenze contro-intuitive delle condotte realizzate dagli imputati, rispetto all’intenzione di porre fine alle stragi.
Nell’ipotesi di dolo indiretto, infatti, il soggetto attivo attua una condotta finalizzata a un altro scopo, e però, nell’agire, si trova di fronte alla possibilità di conseguenze differenti rispetto allo scopo e accetta il rischio di causarle. Basti pensare al dolo eventuale o di previsione, che si ha quando l’agente accetta probabilità elevate che si produca un fatto di reato, indipendentemente dalla circostanza che lo volesse e se lo rappresentasse come tale. Oppure al dolo concomitante, che guida tutto il processo esecutivo del delitto, e al dolo susseguente, che, sorgendo dopo l’azione positiva, dunque non intenzionalmente diretta a cagionare l’evento, consiste in un consapevole, volontario rifiuto di impedire l’evento stesso, a fortiori in costanza di un obbligo giuridico a impedirlo, a norma dell’art. 40 c. p.
Quod demonstrandum.