Un libro che fa luce su uno dei più clamorosi e misteriosi “buchi neri” della storia d’Italia: l’assassinio a Palermo del generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, nominato dal governo prefetto del capoluogo siciliano per combattere la mafia. Vengono raccontati i suoi ultimi cento giorni in Sicilia, il contesto politico in cui maturò il delitto e le troppe ombre che ruotano intorno alla Strage di via Isidoro Carini del 3 settembre 1982. Il processo sull’assassinio del generale, infatti, pur facendo riferimento a possibili “zone grigie”, ha condannato soltanto il primo livello di Cosa nostra, l’ala militare, quella che ha commesso materialmente il crimine, senza addentrarsi su eventuali “mandanti esterni” che stanno dietro ai delitti eccellenti di quegli anni. Attraverso gli atti processuali e testimonianze inedite si delineano i probabili moventi sull’uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa che venne spedito a Palermo per contrastare la mafia senza avere i poteri necessari. Nel libro il giornalista Luciano Mirone mette insieme i pezzi di un complesso mosaico che dal cuore della Sicilia porta nelle segrete stanze del potere italiano. Il testo si avvale delle interviste che l’autore ha realizzato con Nando dalla Chiesa, Francesco Accordino, Giuseppe Ayala, Gian Carlo Caselli, Alfredo Galasso, Riccardo Orioles, Umberto Santino e tante altre autorevoli personalità del mondo della politica, della magistratura, del giornalismo.
Carlo Alberto Dalla Chiesa, giovanissimo incursore durante la Seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre partigiano sulle coste adriatiche, poi in Sicilia a caccia di latitanti nelle campagne dove spadroneggiava il bandito Giuliano, quindi a Milano alle prese con alcuni grandi delitti «mediatici» in una città in pieno boom economico. Per il generale Carlo Alberto dalla Chiesa questi furono gli esordi di una straordinaria carriera da comandante, sempre in prima linea nella lotta alla criminalità e al servizio dello Stato. Nella lunga battaglia contro la mafia, quando sfidò il sistema di potere dei boss e si scontrò con la loro capacità di «aggiustare» i processi ed evitare condanne, e poi negli anni bui del terrorismo, quando fu chiamato a guidare la ferma reazione delle istituzioni contro la minaccia eversiva delle Brigate rosse, il generale fu sempre sul campo accanto ai propri uomini, e unì carisma, intuito, coraggio a un metodo d’indagine che avrebbe fatto scuola. Marito e padre affettuoso, fine psicologo (i principali pentimenti di brigatisti furono merito suo), Carlo Alberto dalla Chiesa è stato, innanzitutto, un carabiniere. E il congedo dall’Arma, in occasione della sua nomina a prefetto di Palermo, fu un dolore che faticò a descrivere: scelto ancora una volta dalla politica come uomo della provvidenza, nella stagione più sanguinosa della guerra di mafia fu lasciato solo, quando Cosa nostra decise di eliminarlo perché in poco tempo aveva svelato interessi criminali che solo anni dopo sarebbero emersi con chiarezza dalle inchieste giudiziarie. Attingendo a rapporti e informative, visitando i luoghi che lo videro cogliere successi investigativi, tra pedinamenti e arresti, e soprattutto condividendo segreti operativi e retroscena inediti degli uomini che gli furono accanto, Andrea Galli ha ricostruito in queste pagine la vicenda umana e professionale del più famoso carabiniere d’Italia, trentacinque anni dopo il tragico attentato di via Carini a Palermo, il 3 settembre 1982, e insieme ha tracciato un racconto che, dal secondo dopoguerra a oggi, segue il filo rosso della drammatica e spesso misteriosa storia del nostro Paese, ripercorsa attraverso la biografia di un suo indimenticato protagonista chiamato a «essere al centro della fiducia e della credibilità dello Stato».
Grazie all’accesso a una documentazione vasta e inedita, viene ricostruita e raccontata da uno storico la vita di uno degli uomini simbolo della nostra Repubblica. Il 3 settembre 1982 a Palermo veniva ucciso dalla mafia il generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Nella storia dell’Italia repubblicana, dalla Chiesa era l’uomo per gli incarichi difficili, fin da quando aveva scelto di andare volontario nella Sicilia di Salvatore Giuliano. Successivamente le istituzioni democratiche si affidarono a lui in alcuni dei momenti più drammatici, chiamandolo a contrastare l’offensiva del terrorismo brigatista, sia prima che dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. La sua ultima missione, conclusasi con l’attentato che lo colpì assieme alla moglie, fu quella di prefetto di Palermo, dove era stato inviato a fronteggiare un’escalation di violenza della mafia senza precedenti. La sua carriera lo portò a vivere una molteplicità di situazioni, nel corso delle quali è stato dipinto come il più fedele dei servitori dello Stato.
Il Generale Mario Mori ha vissuto la storia dell’Italia contemporanea in posizioni chiave: ha diretto i i Servizi segreti, ha gestito i giorni caldi del sequestro di Aldo Moro, ha condotto l’operazione che ha portato all’arresto del boss di mafia Totò Riina, ha subito un processo ventennale da cui è stato, infine, pienamente assolto in Cassazione. Un uomo di stato finito in una persecuzione giudiziaria e mediatica che ne fanno il “caso Dreyfus” italiano. Per la prima volta, Mori ripercorre in prima persona i principali eventi di questo percorso, racconta la sua verità e svela molti segreti italiani. Dalle infiltrazioni nella colonna romana delle BR ai fondi neri del Sisde, la lotta alla Camorra e alla mafia, fino all’arresto di Matteo Messina Denaro e alle inchieste di Firenze nate dalle rivelazioni di Salvatore Baiardo. Prefazione di Giovanni Negri.
“Mario Mori, generale dei Carabinieri. All’opinione pubblica il mio nome probabilmente dirà qualcosa. Evocherà dei ricordi, vicende per certi aspetti anche spiacevoli di cui si è molto scritto sui giornali e parlato nelle aule giudiziarie. La mia, però, è una storia lunga. Da raccontare. È quella di un militare e dei suoi uomini che hanno combattuto per quarant’anni terrorismo e mafia. Nei reparti d’eccellenza dell’Arma. E ai vertici dell’intelligence, quei Servizi segreti in Italia sempre così chiacchierati.” Scritta con Giovanni Fasanella, questa è la straordinaria storia “professionale” di un uomo che è stato al centro di tutti i grandi eventi italiani. Ufficiale del controspionaggio al sid, il Servizio segreto militare nei primi anni Settanta, nei nuclei speciali comandati dal generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, comandante della sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, Mori è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. A metà degli anni Ottanta è a Palermo, con Falcone e Borsellino, a combattere la mafia; nel 1998 diventa comandante del ros, il reparto speciale dei Carabinieri, che aveva contribuito a creare. Uscito dall’Arma, dirigerà infine il sisde, il Servizio segreto italiano, che ritrova un ruolo decisivo per la sicurezza nazionale dopo i fatti dell’11 settembre. Nel corso della sua lunga carriera ha combattuto il terrorismo, arrestato Riina, messo a punto nuove tecniche d’investigazione, gestito infiltrati, ascoltato pentiti, collaborato con i Servizi segreti di altri paesi per contrastare il terrorismo internazionale. Ha attraversato le più drammatiche e oscure stagioni della nostra storia recente, ma non ne è uscito indenne. Come in un film, il suo operato e i suoi metodi sono stati messi sotto inchiesta proprio dalle istituzioni che era stato chiamato a proteggere. Chi è allora Mario Mori? Il capo dei “Servizi deviati” che, secondo alcuni, è sceso a patti con la mafia, o l’uomo d’intelligence che, secondo altri, ha reso grandi servizi al paese? A queste domande Mori risponde raccontandoci la sua verità, i suoi successi e i suoi disinganni. “Se sono amareggiato? No. Conosco la storia del mio paese con tutte le sue anomalie, so che da noi il rischio fa parte del mestiere. Le sembrerà una frase fatta. Però è così: servire lealmente lo Stato colpendo interessi consolidati, come abbiamo fatto io e i miei commilitoni, comporta dei rischi. Si possono pagare dei prezzi, anche molto alti. Ci si deve guardare dal nemico. E quello che noi abbiamo affrontato, mi creda, era particolarmente forte e agguerrito. Ma a volte, a presentarti il conto per il lavoro che hai fatto e i risultati che hai ottenuto sul campo può essere lo stesso Stato al quale hai dedicato una vita. Paradossale? Sì, lo è.”
Il generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno sono stati protagonisti in prima fila nella lotta contro Cosa Nostra, e il loro impegno investigativo ha dato risultati straordinari. Eppure, sono noti al grande pubblico soprattutto per il processo sulla presunta “Trattativa Stato-mafia”, concluso con la loro completa e definitiva assoluzione.
Oggi, finalmente, possono raccontare cosa c’è dietro la persecuzione giudiziaria e mediatica che hanno subito: il “Dossier mafia-appalti”. Dopo intense indagini l’informativa fu preparata dai carabinieri del ROS guidati da Mori e De Donno e consegnata nelle mani di Giovanni Falcone, che le attribuì un’enorme importanza.
Ma nella magistratura siciliana ci fu qualcuno che frenò a più riprese e poi archiviò senza giustificazioni la pista, ancora tutta da percorrere, che stava svelando il vero volto della mafia.
Uno sconvolgente sistema corruttivo istituzionalizzato che, in tutta Italia, depredava le risorse pubbliche a vantaggio di selezionate cricche di politici e imprenditori, e di cui Cosa Nostra rappresentava il braccio armato.
Paolo Borsellino credeva che l’inchiesta Mafia-appalti fosse all’origine della morte di Giovanni Falcone, ed è molto probabile che anche la strage di via d’Amelio (con il relativo depistaggio) sia da attribuire al dossier del ROS dei carabinieri.
Antonio Di Pietro ha riconosciuto il suo stretto e inquietante legame con Mani Pulite.
Oggi, finalmente, il pubblico italiano può conoscere la verità su un’inchiesta che non doveva proseguire, nel racconto documentato e coinvolgente di due protagonisti che hanno pagato un prezzo altissimo.
Attese da anni, le testimonianze di Mori e De Donno sui fatti dei primi anni Novanta si leggono come un romanzo poliziesco. E faranno discutere, indignare, tremare: perché è tutto vero. LIBRERIA UNIVERSITARIA
Mario Mori, generale dei Carabinieri, è stato ufficiale del controspionaggio sid all’inizio degli anni Settanta e poi con Carlo Alberto
Dalla Chiesa nei nuclei speciali antiterrorismo.
È il fondatore dell’Anticrimine e del ros dell’Arma e nei primi anni Duemila ha diretto il sisde, il Servizio segreto civile. Ha condotto con successo molte operazioni sotto copertura, tra cui la cattura del boss mafioso Totò Riina.
È il 23 maggio del 1992. Alle 17.58 il silenzio delle campagne di Capaci viene squarciato da un tremendo boato causato dall’esplosione di cinque tonnellate di tritolo piazzate sull’Autostrada A29. Poche ore dopo due famiglie partono da Brindisi con una manciata di notizie date loro frettolosamente. Sono quella d’origine del ventinovenne Antonio Montinaro, capo della scorta di Falcone, e dell’agente scelto Rocco Dicillo, trent’anni appena compiuti. Le famiglie non si conoscono né hanno informazioni precise su quanto accaduto. In un volo notturno di poche interminabili ore, i fratelli minori di Antonio e Rocco, Matilde e Michele, ripercorrono i ricordi d’infanzia e adolescenza dei loro cari: il legame con la propria terra d’origine, gli affetti, la quotidianità.
Palermo, 19 luglio 1992 ore 16:58. Cento chili di tritolo destinati al giudice Paolo Borsellino deflagrano dentro una piccola utilitaria in via d’Amelio a Palermo. Insieme al Giudice, perdono la vita Emanuela Loi, Vincenzo Fabio Li Muli, Eddie Walter Max Cosina, Agostino Catalano e Claudio Traina. Sono queste le cinque vite che il nuovo e necessario lavoro di Mari Albanese ci restituisce e che troppo spesso vengono citati solo come “i ragazzi della scorta”: locuzione sbrigativa che toglie loro lo spessore di un nome, di un corpo e dell’identità. Per non dimenticarli, l’autrice ha raccolto le parole inedite dei familiari, confidenze che ci donano ritratti intimi, non conosciuti, che vanno oltre la divisa: un racconto della loro vita fatta di quotidianità, curiose rivelazioni, emozioni, tante speranze. Conosceremo così l’amore di Fabio e Victoria, ancora inflessibile; la solarità di Emanuela, frizzante e briosa; i colori tenui e caldi di Agostino, che superbamente riversava nei suoi quadri; la musica nel cuore di Eddie, appassionato dj alla radio libera; e le mattinate a pesca di Claudio, nel silenzio del primo mattino. Prefazione di Enrico Bellavia.
La storia di Antonio Montinaro, uno dei poliziotti della scorta di Giovanni Falcone, raccontata dalla moglie Tina che da trent’anni è uno dei volti di primo piano nella lotta alla mafia. «Chiunque fa questa attività ha la capacità di scegliere tra la paura e la vigliaccheria. La paura è qualcosa che tutti abbiamo. Chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange. È un sentimento umano. È la vigliaccheria che non si capisce, e non deve rientrare nell’ottica umana. Io come tutti gli uomini ho paura, indubbiamente non sono vigliacco».
Antonio Montinaro è un ragazzo vivace, che odia le ingiustizie e non sa stare con le mani in mano. Per questo, quando entra in polizia, non si accontenta degli incarichi più semplici ma impara in fretta e chiede di essere trasferito a Palermo, negli anni in cui la lotta alla mafia è più accesa che mai e la città è in guerra. Lì ci sono uomini impegnati a cambiare le cose e Antonio, innamorato del proprio lavoro, vuole fare la sua parte: presto diventerà uno degli agenti più fidati della scorta di Giovanni Falcone. Sempre in Sicilia conoscerà Tina, sua moglie. È proprio lei a raccontare in questo libro la storia di Antonio, che credeva nella giustizia e nello Stato, morto coraggiosamente per difendere il giudice Falcone, e i diritti di tutti noi, nel maggio più buio della storia italiana.
Emanuela Loi non ha neanche vent’anni quando sua sorella la convince a tentare il concorso per entrare in polizia. È un percorso che la fa crescere in fretta, lontano dalla sua terra, dai suoi affetti, soprattutto quando, a Palermo, viene assegnata al servizio scorte Di Paolo Borsellino. Sono anni bui per la città, che è sede del maxiprocesso contro Cosa Nostra e bersaglio facile della mafia, che colpisce chi, la mafia, cerca di combatterla. Emanuela ha paura, ma il suo senso del dovere, che da sempre la accompagna, non la fa desistere. Fino alla fine. Età di lettura: da 11 anni.
Mario D’Aleo è stato un capitano dell’Arma dei Carabinieri, assassinato da Cosa nostra a Palermo il 13 giugno 1983 ad appena 29 anni in quella che è passata alla storia come “strage di via Scobar”. Giovedì 12 ottobre, alle 18.30 presso il Palazzo Cardinal Cesi in via della Conciliazione a Roma, verrà presentato il libro “Per sempre fedele-Diario di un uomo tra pagine di Mafia“, scritto da Valentina Rigano e Marco D’Aleo, nipote del Capitano, edito da Gruppo Iseni Editori. La prefazione è di Luigi Contu, direttore dell’Ansa, l’introduzione di Rita Dalla Chiesa, deputato di Fratelli d’Italia e figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chisa, vittima di mafia.
“Mario Mori, generale dei Carabinieri. All’opinione pubblica il mio nome probabilmente dirà qualcosa. Evocherà dei ricordi, vicende per certi aspetti anche spiacevoli di cui si è molto scritto sui giornali e parlato nelle aule giudiziarie. La mia, però, è una storia lunga. Da raccontare. E quella di un militare e dei suoi uomini che hanno combattuto per quarantanni terrorismo e mafia. Nei reparti d’eccellenza dell’Arma. E ai vertici dell’intelligence, quei Servizi segreti in Italia sempre così chiacchierati.” Scritta con Giovanni Fasanella, questa è la straordinaria storia “professionale” di un uomo che è stato al centro di tutti i grandi eventi italiani. Ufficiale del controspionaggio al SID, il Servizio segreto militare nei primi anni Settanta, nei nuclei speciali comandati dal generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, comandante della sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, Mori è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. A metà degli anni Ottanta è a Palermo, con Falcone e Borsellino, a combattere la mafia; nel 1998 diventa comandante del ROS, il reparto speciale dei Carabinieri, che aveva contribuito a creare. Uscito dall’Arma, dirigerà infine il sisde, il Servizio segreto italiano, che ritrova un ruolo decisivo per la sicurezza nazionale dopo i fatti dell’ll settembre. Nel corso della sua lunga carriera ha combattuto il terrorismo, arrestato Riina, messo a punto nuove tecniche d’investigazione, gestito infiltrati, ascoltato pentiti.”
Un giovane poliziotto della mitica sezione Catturandi della Squadra mobile di Palermo racconta in un libro la caccia ai più pericolosi latitanti di Cosa nostra. Appostamenti, pedinamenti, controllo del territorio, intercettazioni ambientali e telefoniche. Attività che richiedono fiuto, attenzione, cautela, abilità e coraggio. L’autore, che non può svelare la propria identità per motivi di sicurezza e di riservatezza, racconta nel libro Catturandi quali sono gli strumenti a disposizione di chi svolge sul campo la lotta alla mafia per la cattura dei criminali in fuga. Questo libro spiega come leggi ed esperienza personale, regole e istinto, competenza professionale e capacità d’improvvisazione facciano di un poliziotto uno “specialista” della Catturandi. “Lucida e suggestiva descrizione dall’interno della complessa, faticosa e febbrile attività volta a catturare pericolosissimi boss”.
Il consuntivo dell’attività della sezione la Catturandi della Squadra Mobile di Palermo, i profili degli ultimi latitanti finiti in manette, la caccia a Matteo Messina Denaro, l’evoluzione delle strategie dei boss, la trattativa Stato-mafia, i retroscena e i misteri ancora irrisolti. C’è questo e tanto altro nel nuovo libro di I.M.D., il poliziotto protagonista di numerosi arresti, oggi impegnato in una massiccia campagna di sensibilizzazione dei giovani, grazie agli incontri nelle scuole e alle sue pubblicazioni che hanno affascinato un numero enorme di lettori. Parlando dell’azione svolta dalla Catturandi e soffermandosi a offrire spunti di riflessione, I.M.D. ribadisce con forza l’importanza di informare e di non abbassare mai la guardia nella lotta a Cosa nostra, anche quando l’organizzazione sembra più silente e mette in atto strategie di sommersione. Perché, come sosteneva Giovanni Falcone, “la mafia è un fenomeno umano, e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”, ma ogni cittadino deve fare la sua parte affinché questa fine sia prossima.Con il contributo di Giovanna Maggiani Chelli presidente dell’associazione vittime della strage di via dei Georgofili
«Solo quando sarai disposto a sacrificarti per i tuoi uomini sarai un vero leader.» Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, l’Italia e il mondo intero scoprono una scioccante verità: il terrorismo esiste ancora, si è evoluto e, soprattutto, è più pericoloso che mai. Nel mirino ci sono personalità di spicco – politici, giornalisti, magistrati –, ma anche i semplici cittadini colpiti dagli attentati dei terroristi islamici, come quello alle Torri Gemelle. In Italia, le Nuove Brigate rosse uccidono a Bologna il professor Massimo d’Antona, consulente del Ministero del lavoro. E pochi anni dopo colpiscono ancora, freddando a colpi di pistola il professor Marco Biagi, eminente giuslavorista. Con lo scopo di contrastare l’ondata di violenza, viene istituito l’Ucis, l’Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, specializzato nella tutela e nella protezione degli obiettivi sensibili non solo in patria, ma anche all’estero. E il Comandante Alfa viene nominato responsabile.
Camminare nell’ombra con la morte accanto per difendere gli altri e la legge. Questa è sempre stata la linea di condotta del Comandante Alfa, uno dei cinque «soci fondatori» del Gruppo di Intervento Speciale dei carabinieri, meglio noto come Gis. Nato nel 1978, il Gis ha ben presto mostrato sul campo una straordinaria efficienza, con missioni di cui il Comandante Alfa è stato protagonista per oltre trent’anni, per poi diventare istruttore all’apice della carriera. Ripercorrendo le tappe di un’esistenza votata al coraggio e alla segretezza più totale (anche nei confronti dei propri cari), il Comandante rievoca qui i momenti salienti di tante esperienze vissute sul campo in Italia e all’estero. Non solo gli esordi del Gis in funzione antiterroristica negli Anni di Piombo e le lunghe notti in Aspromonte durante la stagione dei sequestri, fino alla liberazione di Cesare Casella, ma anche le missioni nei vari teatri di guerra e l’addestramento della polizia irachena dopo la liberazione di Baghdad. E poi, di nuovo in patria, la scorta a Nicolas Sarkozy durante il G8 dell’Aquila nel 2009, fino all’organizzazione del servizio di protezione del magistrato antimafia Nino Di Matteo, a Palermo, nel 2013. Sono pagine intense, in cui il Comandante Alfa ci svela anche le durissime fasi di addestramento, le armi, le attrezzature, le tipologie di intervento e le tattiche di una delle forze speciali più preparate del mondo.
Il libro più intimo di un uomo normale chiamato a compiere imprese straordinarie. «Mi sento ancora come quel ragazzino partito con la valigia di cartone dalla Sicilia, con l’entusiasmo e la voglia di spaccare il mondo per lasciare una piccola impronta.» Dopo oltre quarant’anni di attività nell’ombra, per il Comandante Alfa è giunto il momento di togliere il mephisto e mostrare il suo volto. L’uomo che dietro una maschera di tessuto nero ha vigilato sulla sicurezza del nostro Paese, è intervenuto nelle zone di maggiore tensione del mondo portando a termine pericolosissime missioni segrete, ripercorre in questo libro le tappe salienti della sua esistenza. Partendo da quella Sicilia in cui è cresciuto e che l’ha visto prima bambino poi adolescente ribelle, il Comandante Alfa accompagna il lettore in un viaggio nella sua vita privata: si sofferma sul rapporto con la madre, preludio alla sua futura attività nel Gis, sulla lontananza da moglie e figli in nome di una missione più alta, sulla fratellanza con i compagni d’armi e sui rischi che accompagnano gli uomini del Gis in ogni intervento. Congedato dal servizio attivo, il Comandante ha ora la possibilità di raccontare senza più segreti gli episodi cardine che gli hanno permesso di sopportare i rigori di una vita estrema, passata a dare la caccia a mafiosi, terroristi, rapitori e criminali di guerra. Senza mai perdere di vista le proprie radici. Senza mai dimenticare di essere un uomo normale chiamato a compiere imprese straordinarie.
Il racconto dell’uomo che ha arrestato Riina e che per vent’anni ha fatto tremare i palazzi del potere. Fino a quando il potere si è vendicato.
“Mi chiamo Ultimo perché sono cresciuto in un mondo dove tutti volevano essere primi. Ho un solo talento: organizzare la lotta e scegliere gli uomini. I miei sono stati il miglior gruppo investigativo.” La vera storia dell’uomo che ha catturato Totò Riina, combattuto la ‘ndrangheta, la camorra e la corruzione per ritrovarsi alla fine messo all’angolo, isolato e attaccato dalle alte gerarchie e dalla politica. ma lui non ha mai mollato. Sergio De Caprio aggiunge nuovi tasselli al racconto in prima persona della sua vita da Capitano Ultimo. E, alla luce delle recenti sentenze sui principali casi di cui si è occupato, rilegge le vicende umane e giudiziarie che lo hanno travolto da quando, il 15 gennaio 1993, catturò Totò Riina, fu condannato a morte da Provenzano e Bagarella, e bersagliato da mille sospetti confluiti nel processo Trattativa Stato-mafia. Trent’anni dopo, ci riaccompagna nel vivo delle operazioni che lo hanno visto protagonista in incognito insieme ai suoi uomini. Vichingo, Arciere, Omar, Petalo, Pirata, Alchimista, i suoi cento investigatori invisibili che lo hanno affiancato nei lunghi appostamenti, le intercettazioni fiume, le notti insonni a indagare instancabilmente su mafia, ‘ndrangheta, camorra, la corruzione a Milano, a Palermo, a Napoli, ma anche nei palazzi del potere, da Finmeccanica allo Ior, la banca vaticana, passando per la Lega. Fino a quando si è spinto troppo oltre ed è stato fermato. Denunciato per insubordinazione e diffamazione. Accusato di essere un cane sciolto, accerchiato, demansionato, poi isolato e per due volte ripagato con la revoca della scorta. Ultimo è l’investigatore così bravo e veloce da non essere controllabile. Il soldato idealista che non guarda in faccia il potere. L’irregolare che per le gerarchie militari e della politica va domato. L’eroe senza nome che va ricondotto all’obbedienza.
Per ultimo, Vito mi disse il nome di Giovanni Falcone. Mi ricordai del fallito attentato nella sua villa dell’Addaura e, come in un flashback, sentii le sirene. In quel momento alzai lo sguardo verso l’orizzonte, come in cerca di qualcosa che potesse convincere Vito a lasciar perdere quell’incarico così pericoloso, e notai delle nuvole nere che avevano oscurato il cielo azzurro. Con queste parole, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, caduto con Falcone a Capaci, rievoca il momento in cui il suo giovane sposo le disse orgoglioso che sarebbe entrato nella scorta del giudice. La storia è poi tragicamente nota e tutta l’Italia ricorda il suo grido di dolore che ai funerali di Stato scosse universalmente le coscienze. Come racconta per la prima volta in questo libro toccante, Rosaria Costa all’inizio rimase in Sicilia, lei che, provenendo da una famiglia modesta e onesta, era cresciuta nello spietato contesto della “Palermo di un morto al giorno”. Voleva lottare, reclamare il proprio diritto ad avere Giustizia, e per questo si avvicinò a Borsellino legandosi a lui, ma la strage di via D’Amelio rinnovò presto lo stesso dolore. Gli anni successivi, segnati dall’arresto di Totò Riina, la videro sempre in prima fila in quella che, da allora e ancora oggi, lei interpreta come una missione di testimonianza. Arrivò anche un giorno in cui per Rosaria rimanere in Sicilia non fu più sostenibile e si trasferì in Liguria per costruirsi una nuova vita, dopo la devastazione di tanto indicibile dolore. Ma oggi è riuscita a tornare nella sua terra d’origine, come donna nuova e come testimone diretta di un’epoca drammatica, consapevole di dover continuare a tenere alta la bandiera della legalità.
La storia vera di un poliziotto romano catapultato a Palermo a caccia dei grandi latitanti mafiosi negli anni più caldi della lotta a Cosa nostra. Ne emerge un racconto avvincente, appassionato, talvolta venato di sottile e amaro umorismo, che ci fa rivivere la prosaicità di ogni guerra: quando l’attimo dell'”azione” è preceduto da interminabili giornate di pedinamenti e intercettazioni passate a “studiare il nemico”, a estrarre prove e indizi da un segno all’apparenza insignificante, da un sussurro carpito al telefono, da un silenzio sospetto. Agente di scorta di Francesco Marino Mannoia e altri “pentiti” di mafia di peso, dattilografo con i giudici di Palermo durante gli interrogatori, interprete dei “pizzini” di Bernardo Provenzano, l’autore ci offre una testimonianza necessaria: inquadra da molto vicino i più importanti episodi della cronaca criminale italiana degli ultimi trent’anni. Illumina il confine non sempre netto tra bianco e nero nelle stanze fumose della polizia. E rende il giusto tributo ai numerosi uomini dello Stato che hanno fatto il proprio dovere, lontani dai riflettori. Prefazione di Alessandra Dino.
Il mondo di Giacomo Sereni si regge su pochi assiomi basilari: c’è il bene e c’è il male, il crimine e l’onestà, il sacrificio e la lotta alle sopraffazioni. Carabiniere per vocazione, il suo idealismo si infrange contro l’esito del processo al Capitano Ultimo in seguito alla cattura del boss dei boss, Totò Riina. Uomo in crisi, tradito dallo Stato e distrutto dopo la morte della moglie, Giacomo decide di lasciare l’Arma. Da questo momento avrà inizio per lui una discesa vertiginosa verso l’annullamento di sé, fino a sparire letteralmente, diventare invisibile tra gli invisibili, sperso nell’esercito dei trentamila senza tetto che popolano come fantasmi le vie delle nostre città. Tra cronaca e noir, romanzo di formazione e duro affresco sociale, “Ultimo di trentamila” è la storia di un rifiuto, di una fuga disperata che è come un grido di protesta, l’unica arma a disposizione di chi ha perso tutto, anche sé stesso, e deve toccare il fondo prima di tentare la risalita.
Angelo Corbo, racconta la sua vicenda umana e professionale, di agente di scorta di Giovanni Falcone e sopravvissuto alla strage di Capaci. Lo fa a distanza di tempo per riprendere quel filo della memoria che sbiadiva fino a perdersi e porre dinanzi a noi squarci improvvisi su alcuni aspetti ancora oscuri della strage di Capaci e della protezione di Giovanni Falcone. Angelo è riuscito ad emergere dal suo nascondiglio, dallo spazio protetto del suo lavoro e dei legami forti della sua famiglia che lo hanno sostenuto in tutti questi anni. Vi si era rifugiato pagando il caro prezzo degli incubi e delle paure e confidando nella smemoratezza degli uomini, anche e soprattutto di quelli delle Istituzioni che, prima, si erano scordati del suo trasferimento a Firenze e, poi, della sua stessa esistenza. Leggere la sua testimonianza aiuta a decifrare il lavoro faticoso degli agenti di scorta, la necessità di una preparazione professionale sempre al passo con i tempi, proprio per garantire al meglio l’incolumità di chi è sottoposto quotidianamente al rischio per il semplice motivo di compiere il proprio dovere, e offre un contributo prezioso a fare chiarezza sulle modalità con cui le grandi scelte si riverberano sulle vicende quotidiane di chi opera in contesti mafiosi. Scorrendo il testo, è molto forte l’impressione che l’esperienza di ogni giorno potrebbe essere molto utile per comprendere e contrastare meglio le organizzazioni criminali, mentre chi decide sembra muoversi secondo altre logiche, legate molto spesso, negli ultimi tempi, alle cosiddette economie, termine con cui si mascherano semplicemente dei tagli alle risorse per opporsi alla mafia. Le sue parole restituiscono alcuni tratti della vicenda con una luce nuova. Ne indichiamo solo due perché sono quelli più ricorrenti nel racconto: se vi era la convinzione che il pericolo per Giovanni Falcone fosse attenuato tanto da rinunciare alla scorta specifica per lui, dopo l’attentato di Capaci possiamo legittimamente chiederci su quali elementi era fondata tale convinzione, chi ne erano gli autori e come giudicarli? Ancora: mentre si sottolinea quanto sia importante, oltre la preparazione e la professionalità degli uomini della scorta, il loro affiatamento, come si giustifica la composizione di quella del 23 maggio? A questi interrogativi che ci suggerisce il racconto di Angelo e che mantengono intatta la loro forza e urgenza, perché non hanno avuto risposta plausibile a distanza di anni, si aggiunge, ad inquietarci, il ricordo del primo soccorritore. Dopo essere arrivato sul luogo dell’attentato e aver scattato alcune foto gli è stato sottratto il rullino da due “agenti di Polizia”. Dei due sorprende innanzitutto la celerità con cui sono giunti sul teatro dell’attentato, molto prima dell’intervento di Polizia e Carabinieri, e sorprende che la loro preoccupazione di entrare in possesso di un documento utile alle indagini non abbia avuto seguito con la consegna agli investigatori. I modi bruschi per appropriarsene e la scomparsa del rullino accrescono ombre e ipotesi che gravano anche questo passaggio cruciale della nostra storia. I mafiosi autori della strage e i complici fuggono dopo il terribile boato, come ci ricordano i pentiti, e quindi occorre cercare in altre direzioni per dare un volto ai due e tornano in mente le parole del pentito Gioacchino La Barbera, che vi erano uomini estranei alla mafia nei preparativi all’attentato. Qualcuno che era sul luogo e cercava qualcosa fra le rovine dell’esplosione e non gradiva essere ripreso!
La storia del colonnello Giuseppe Russo, comandante del Nucleo Investigativo Carabinieri di Palermo, si intreccia per buona parte con quella del generale Dalla Chiesa, al tempo comandante della Legione. Il periodo è quello che va dalla strage di Ciaculli, 30 giugno 1963, e il 1978, l’anno successivo la sua uccisione a Ficuzza, nel comune di Corleone. Gli elementi che la compongono, tesi alla ricerca della verità, non sono soltanto i clamorosi delitti di sangue e i sequestri di persona che segnarono la vita dei palermitani di quel tempo, ma anche l’ascesa criminale di Totò Riina e il conseguente crollo della vecchia mafia.
Il 21 luglio del 1979, a Palermo, la mafia uccise il commissario Giorgio Boris Giuliano, investigatore noto in tutta Italia per le sue indagini sui misteri e sui delitti eccellenti. Il libro della giornalista Alessia Franco (con una lettera aperta di Selima Giuliano al papà ucciso) rende giustizia all’eroe della porta accanto: non soltanto il brillante e rigoroso investigatore antimafia, ma anche il buon padre di famiglia, la persona gioviale, l’amico dei giornalisti d’assalto, il paladino dei poveri e degli indifesi. C’era un tempo in cui non si parlava molto di mafia. E c’era un uomo, Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra mobile di Palermo, che ebbe il coraggio addirittura di combatterla. Un uomo innamorato della giustizia come della vita, dei racconti, della sua famiglia, della gente, che in queste pagine rivive attraverso le parole di Selima, sua figlia. Chicchi (così viene chiamata), è una bambina quando suo padre viene ucciso. Però è già molto tenace e, attraverso una foto, riesce a trovare il modo per riportare Selima, che ormai è grande, a un mondo intenso di ricordi, piccole magie quotidiane e di straordinario impegno civile.
Il libro ricostruisce questi delitti di mafia a partire da importati documenti di carattere storico-giudiziario legati all’iter processuale che ha portato all’identificazione e alla condanna degli esecutori e dei mandanti. Ciò che, però, coinvolge in questa lettura è il ricordo delle famiglie: un ricordo molto doloroso e mai sopito per la solitudine che ha accompagnato il lavoro di questi uomini e ha sicuramente facilitato chi aveva interessi a stroncare indagini importanti. Pagine di storia, ma anche un omaggio a chi ha sacrificato la vita per i valori della legalità e della giustizia e uno stimolo per un impegno rinnovato di lotta contro la mafia.
Minacciato dalla mafia, il poliziotto Gianni Palagonia viene mandato in una Questura del Nord Italia, dove deve reinventarsi una nuova vita insieme alla sua famiglia. Suo malgrado, il destino lo porta nuovamente ad occuparsi di Cosa Nostra e poi in prima linea nella più grande operazione antiterrorismo degli ultimi anni, quella che dopo l’omicidio del Professore Marco Biagi e del Sovrintendente Emanuele Petri, porterà alla disarticolazione delle nuove Brigate Rosse. E mentre la vita del poliziotto si fa sempre più dura, frenetica e pericolosa, quella privata si sfalda giorno per giorno, nell’alienazione, nella solitudine, in una quotidianità in cui nulla sembra avere senso.