Dalle condanne alle assoluzioni definitive, la storia del processo “Trattativa Stato-Mafia”

 

Dieci anni, tre gradi di giudizio, schieramenti pro e contro: la Cassazione mette la parola fine

Era il 2013 quando Giovanni Fiandaca, tra i più autorevoli studiosi di Diritto penale, in un suo saggio sostenne, a proposito del processo “Bagarella e altri” conosciuto ai più come il processo “trattativa Stato-mafia”, che mancava il movente, mancavano le prove e che non era chiara nemmeno la formulazione del reato. “Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca”, titolò “Il Foglio” pubblicando il saggio di Fiandaca.
Oggi dopo dieci anni, tre gradi di giudizio, schieramenti pro e contro, soprattutto in difesa del PM che architettarono il procedimento, la Cassazione non solo ha confermato le assoluzioni dei Ros Mori, De Donno e Subranni ma ha compiuto un ulteriore e significativo passo avanti cambiando la formula dell’assoluzione. Mentre in appello i carabinieri erano stati assolti perché le loro azioni “non costituivano reato”, ora sono stati completamente scagionati, avendo la Cassazione stabilito che “non hanno commesso il fatto” e quindi che la “trattativa” non c’è stata, con buona pace di tutti.
In questo decennio molti giornalisti e magistrati si sono detti certi che i tribunali avrebbero provato l’esistenza della trattativa e che i responsabili avrebbero ricevuto pesanti condanne, anche grazie ai processi sommari che, proprio quei giornalisti e quei magistrati, ambientavano nei salotti televisivi di diversi programmi di approfondimento andati in onda sia sulla tv di Stato sia sulle emittenti private. Ma il giornalismo non è per tutti, e nemmeno il ruolo di magistrato, perché è necessario raccontare fatti scevri da quelle suggestioni e tesi giudiziarie improbabili, e inconcludenti, che hanno causato un condizionamento dell’opinione pubblica, trasformando la mancanza di prove in un teorema farraginoso e incoerente, denso di suggestioni e più adatto al populismo che non al raggiungimento della verità.
In realtà le trasmissioni televisive, i libri, i docu-film, i titoli a “nove colonne”, gli editoriali addomesticati, le oltre 5000 pagine delle motivazioni dei giudici relativi alla sentenza di primo grado, non sono mai riusciti a dimostrare, e la sentenza della Cassazione del 27 aprile lo dimostra, come, quando e dove gli allora Ros avrebbero veicolato la presunta minaccia mafiosa al governo.
Ripercorriamo la storia di un processo che non si doveva fare, un processo che ha tolto all’amministrazione della Giustizia risorse sia economiche sia di energia giudiziaria e tempo ma che ha permesso posti riservati in prima fila alle commemorazioni ufficiali, nelle platee di diverse iniziative pubbliche, la pubblicazione di libri, con relativa fama per gli autori, e, inevitabilmente, importanti riconoscimenti in termini economici e di carriera.

Processo “trattativa”: primo grado, i colpevoli

Il processo di primo grado si aprì, con la prima udienza, il 27 maggio 2013. Sul banco degli imputati, per i quali la Procura di Palermo presentò una richiesta di rinvio a giudizio, c’erano cinque membri di Cosa Nostra (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà) oltre a cinque rappresentanti delle istituzioni (Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Calogero Mannino e Marcello dell’Utri). Il reato loro ascritto era quello di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario, dello Stato. Massimo Ciancimino era invece imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Giovanni De Gennaro, mentre Nicola Mancino per falsa testimonianza.
Si chiuse cinque anni dopo quando, dopo cinque giorni di camera di consiglio, i giudici del tribunale di Palermo emisero la sentenza di primo grado. Il 20 aprile 2018, Mori, Subranni, Dell’Utri e Cinà furono condannati a dodici anni di carcere e Giuseppe De Donno a otto. L’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, fu assolto. Calogero Mannino, ex ministro del Mezzogiorno, era stato invece assolto in precedenza, col rito abbreviato, il 4 novembre 2015, sentenza che fu poi confermata sia in Appello sia dalla Cassazione.
La tesi dell’accusa, portata avanti soprattutto dal pubblico ministero Nino Di Matteo, fu sostanzialmente accettata dalla giuria: un politico, alti funzionari dello stato e boss mafiosi furono condannati. Secondo i giudici, tre importanti ufficiali dei carabinieri e Marcello Dell’Utri, per anni noto amico e collaboratore di Silvio Berlusconi, hanno “minacciato” gli organi dello Stato per conto della mafia, con l’obiettivo di costringere i governi ad adottare un atteggiamento più morbido nei confronti della criminalità organizzata siciliana.
La teoria – giudiziaria, giornalistica, politica – alla base della cosiddetta “trattativa Stato-mafia” è però molto più ampia del processo di primo grado. Riguarda non solo molti altri processi, che sono finiti con delle assoluzioni, ma costituisce un vero e proprio tentativo di ricostruzione storica degli ultimi 25 anni di storia del nostro paese e non di far emettere semplicemente una sentenza.

La prima “spallata”

La prima “spallata” alla sentenza di primo grado arrivò con l’assoluzione definitiva di Calogero Mannino decisa dalla Cassazione nel luglio 2019 che tolse all’accusa un tassello fondamentale.
Se Mannino era non colpevole, visto che secondo il PM Di Matteo era stato origine di tutto, l’intero impianto accusatorio avrebbe subito un duro colpo, come fu poi dimostrato dalla sentenza del secondo grado.

Il “papello” inesistente e altre storie

Il principale protagonista di questa trattativa sarebbe stato il generale Mori, ma esistono fantasiose ricostruzioni che attribuiscono importanti ruoli a personaggi misteriosi, probabilmente mai esistiti. Il più celebre è il “signor Franco”, un misterioso agente dei servizi segreti di cui ha parlato Massimo Ciancimino, figlio del sindaco di Palermo legato alla mafia Vito Ciancimino e diventato uno dei principali testimoni della “trattativa”. Massimo Ciancimino è stato però ampiamente squalificato, accusato di aver mentito, calunniato e falsificato documenti, condannato per calunnia nello stesso processo di Palermo che, anche sulla base delle sue testimonianze, ha portato alle condanne per la presunta “trattativa”. Nessun altro, a parte Massimo Ciancimino, ha mai parlato del “signor Franco”, di cui non si conosce il nome né esiste alcuna traccia documentale.
I contatti tra Vito Ciancimino e i capi del ROS sono stati ammessi dallo stesso Mori e dai suoi colleghi, che però sostengono che non fu altro che trucco investigativo, un modo per scoprire se fosse possibile agganciare qualche boss, spingerlo ad arrendersi, a collaborare oppure farlo cadere in trappola.
Quali che fossero queste ragioni, secondo il figlio di Vito Ciancimino nel corso di queste trattative sarebbe emerso un vero e proprio elenco di richieste da parte della mafia siciliana, il famoso “papello”. Il “papello” sarebbe stato poi portato a non meglio precisate autorità governative che avrebbero dovuto scegliere tra l’accettarne le richieste oppure subire nuove stragi e per questo, ritennero i PM, chi lo presentò divenne responsabile di “minaccia” nei confronti di organi dello Stato. In realtà del “papello” non esiste traccia alcuna se non quelle che provengano dallo screditato Ciancimino o da ambienti mafiosi.
Nella relazione introduttiva nel processo d’Appello, nel giugno 2019, Il presidente della Corte d’Appello Angelo Pellino, scrisse che “a far dubitare della autenticità del documento definito ‘papello’, consegnato da Massimo Ciancimino, sono le sicure modifiche apportate dallo stesso Ciancimino assieme alla persistente incertezza sul vero autore del documento.
In definitiva le prove sull’autenticità finiscono per passare dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, caratterizzate da oscillazioni e incertezze. Anche lo stesso Salvatore Riina esclude di avere scritto alcunché”.
Oltre al “papello”, a giustificazione e supporto della sentenza di primo grado, altro evento motivante sarebbe stata la decisione dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso di non rinnovare il regime di carcere duro 41bis a centinaia di condannati per mafia. Ma, anche in questo caso, le cose sono leggermente diverse perché l’attenuazione del 41bis – regime carcerario peraltro criticato come inumano, oggi come allora – fu concessa soltanto a mafiosi di secondo piano e, spiegò Conso, come atto umanitario di distensione del clima di quegli anni. Fu inoltre un legittimo atto politico condiviso dai partiti dell’epoca, che può essere apprezzato o no ma che non costituisce un reato.
Conso – che è stato indagato per false dichiarazioni ma di cui fu respinta persino la richiesta di rinvio a giudizio – ha rifiutato nettamente l’idea che quel gesto possa essergli stato suggerito dalla mafia o che gli sia stato prospettato come parte di uno “scambio” con la criminalità organizzata. Il 41bis non è una misura che ha sempre goduto di unanime approvazione. È una misura di carcere estremamente duro, criticata sulla base di considerazioni umanitarie anche da organizzazioni internazionali, e che altri paesi hanno equiparato alla tortura.
Altri presunti vantaggi ottenuti dalla mafia grazie alla presunta trattativa sarebbe stata la chiusura delle “supercarceri” di Pianosa e l’Asinara. In realtà queste due strutture erano già state chiuse durante la stagione del terrorismo e, curiosamente, nel caso dell’Asinara, in risposta alle richieste delle BR che avevano rapito il magistrato Giovanni D’Urso. 
La chiusura delle carceri non aveva suscitato particolari polemiche anche perché l’Asinara, come Pianosa, era un carcere fatiscente dove i detenuti erano sottoposti a condizioni ritenute disumane da numerose organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali. Nel tempo, tutto è stato immerso nell’opaco brodo della trattiva: l’arresto di Totò Riina e la mancata perquisizione del suo covo, in realtà della sua abitazione, e la mancata cattura di Bernardo Provenzano del 1995 ma il generale Mori e gli altri carabinieri che furono processati per questi due fatti in entrambi i casi furono assolti.

Non esiste il reato di “trattativa”

Di fatto non esiste il reato di “trattativa” e, fino a quando non sono commessi reati, le autorità hanno tutto il diritto di trattare anche con criminali incalliti.
Si tratta con i criminali che hanno preso degli ostaggi, per esempio, allo scopo di salvarli, ma anche in casi molto più eclatanti, come quando lo Stato italiano trattò, tra gli anni Sessanta e Settanta, con i terroristi palestinesi a cui veniva permesso il trasporto di armi e personale sul territorio italiano purché il nostro paese non fosse teatro di attacchi terroristici. Si trattò spesso e in molte occasioni anche con i terroristi italiani, tra cui persino il più pericoloso e organizzato tra tutti i gruppi, quello delle Brigate Rosse come nel caso del sequestro del giudice Mario Sossi quando furono proprio i magistrati a condurre la trattativa e altri magistrati a bloccarla all’ultimo minuto. Non si trattò, invece, per la liberazione di Aldo Moro ma questa è un’altra storia.

Processo “trattativa”: secondo grado, assolti

Con la sentenza del 23 settembre 2021 si chiuse il processo di secondo grado. La Corte d’Appello di Palermo assolse l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, ribaltando la sentenza di primo grado nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, di fatto i giudici hanno ritenuto vero che la mafia tentò di piegare lo Stato con gli attentati dei primi anni Novanta, e che dialogò con gli ufficiali imputati. Ma questi ultimi, dice la sentenza, lo fecero per ragioni investigative, e non esercitarono pressione su politici e ministri perché cedessero alle richieste mafiose.
Fu confermata la condanna al medico di Totò Riina, Nino Cinà, al boss Leoluca Bagarella, con una pena che fu ridotta da 28 a 27 anni, mentre furono dichiarate prescritte le accuse a Giovanni Brusca. Dell’Utri fu assolto perché “il fatto non sussiste”, e quindi con una motivazione ancora diversa rispetto a quella degli ufficiali dell’Arma, assolti perché “il fatto non costituisce reato”.
La conclusione dei giudici fu che gli imputati ebbero sì contatti e colloqui con il sindaco di Palermo Vito Ciancimino, referente della mafia, ma solo per ottenere informazioni e portare avanti le loro indagini. E che quindi non fecero pressioni, come in precedenza ipotizzato, su Nicola Mancino allora ministro dell’Interno, su Claudio Martelli al tempo ministro di Grazia e Giustizia e su Luciano Violante che era presidente della commissione parlamentare antimafia, perché cedessero alla violenza. Le conclusioni dell’indagine dei pubblici ministeri Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, ora ex magistrato, sono state contraddette dalla sentenza così come sono stati smontati il verdetto di primo grado e le sue motivazioni di 5221 pagine.
Secondo il pubblico ministro Nino Di Matteo nella vicenda della trattativa rientrerebbe anche l’omicidio di Paolo Borsellino, assassinato, disse, “per proteggere la trattativa dal pericolo che, venutone a conoscenza, ne rivelasse pubblicamente l’esistenza pregiudicandone l’esito”. Nella sentenza del processo d’Appello del Borsellino Quater, i giudici però affermarono che “non può condividersi l’assunto difensivo secondo cui la trattativa Stato-mafia ‘avrebbe aperto nuovi scenari’ in relazione alla ‘crisi dei rapporti di Cosa Nostra con i referenti politici tradizionali’ e al possibile collegamento fra ‘la stagione degli atti di violenza’ e l’occasione di ‘incidere sul quadro politico italiano’. Invero, gli elementi acquisiti nel presente procedimento consentono di affermare che l’uccisione del giudice Paolo Borsellino, inserita nell’ambito di una più articolata strategia stragista unitaria, sia stata determinata da Cosa Nostra per finalità di vendetta e di cautela preventiva”.

Processo “trattativa”: la Cassazione, assolti con formula piena

Con la sentenza emessa il 27 aprile 2023, la Cassazione ha confermato le assoluzioni decise nel 2021 e ha fatto anche un passo oltre, cambiando la formula dell’assoluzione perché, mentre in appello i carabinieri erano stati assolti in quanto le loro azioni “non costituivano reato”», con questa sentenza sono stati completamente scagionati, perché la Cassazione ha stabilito che “non hanno commesso il fatto”.
In appello la formula era stata usata soltanto per Dell’Utri. L’accusa ai boss mafiosi coinvolti è invece finita in prescrizione, perché la Cassazione ha modificato il reato che gli era contestato, scegliendone uno meno grave: dalla minaccia al Corpo politico dello Stato si è passati alla tentata minaccia, reato per il quale erano già trascorsi i termini per la prescrizione.
La sentenza emessa dalla sesta sezione, non ha accolto le istanze del procuratore generale, che aveva chiesto un appello bis per gli ex vertici del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno.

E ora?

E ora i definitivi orfani della “trattativa” di cosa si occuperanno?
Qualcuno chiederà scusa?
Assisteremo a nuovi talk show televisivi di approfondimento che smentiranno quanto sostenuto sino ad ora?
Di certo c’è solo il fatto che, chiuso finalmente il capitolo “trattativa”, ora più che mai è necessario trasformare in monito le parole di Paolo Borsellino che sabato 18 luglio 1992 disse alla moglie Agnese “che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere” e di trasformare in indagine quanto, invece, in un momento di sconforto, disse a proposito della Procura di Palermo, che definì un “nido di vipere” oltre dare nuovo vigore a quel dossier “mafia-appalti” archiviato troppo in fretta e sul quale, il 14 luglio 1992 durante una riunione in Procura, Borsellino aveva rilevato il presunto “mancato respiro dell’indagine”.

30.4.2023 QdS Roberto Greco


DOSSIER Trattativa Stato-Mafia – La Cassazione demolisce le accuse