GLI INFILTRARTI DI STATO

 

 

 

Paolo, il carabiniere infiltrato nella ‘ndrangheta


Le confidenze all’agente belga infiltrato: “San Luca è la mamma della ’ndrangheta”


 

Il 1° infiltrato nella ‘ndrangheta: “Vita dura, colpa di leggi e pm”

Si chiama Angelo Jannone. Oggi è consulente aziendale, docente di criminologia e scrittore. Ma in passato è stato comandante della compagnia dei carabinieri di Corleone dal 1989 al 1991. Ha lavorato fianco a fianco con Giovanni Falcone. In Calabria ha inferto duri colpi alle cosche, prima di passare al Ros di Roma. Jannone è stato anche uno dei primi infiltrati all’interno delle famiglie mafiose e dei narcos. Agendo sotto copertura all’interno di organizzazioni di narcotrafficanti colombiani legati a camorristi e ‘ndrine ha permesso un maxi sequestro di cocaina e l’arresto di oltre 40 persone tra Napoli, Milano, Roma, Amsterdam e il Venezuela. Dopo la vicenda di Jimmy, l’agente sotto copertura dell’operazione “New Bridge”che negli scorsi giorni ha portato a decine di arresti tra Italia e Stati Uniti, AffariItaliani.it gli ha chiesto di raccontare la sua esperienza da under cover.

Angelo Jannone, lei è stato tenente colonnello dei Carabinieri e si è trovato a fare l’infiltrato. Com’è arrivato a svolgere attività sotto copertura?
Intanto un plauso allo SCO ed all’agente Jimmy per la splendida operazione. Normalmente un ufficiale non si infiltra perché deve dirigere le indagini. Personalmente ho diretto varie indagini che prevedevano anche l’impiego di infiltrati. In quel caso, però, non avevo a disposizione la figura giusta. Serviva un pugliese. Iniziai con l’idea di sganciarmi non appena fossimo riusciti a creare la struttura necessaria. Ma oramai si era creato un certo legame. I criminali volevano parlavano solo con me. Così sono dovuto arrivare fino alla fine.

Quali caratteristiche bisogna avere per essere in grado di infiltrarsi nella criminalità organizzata?
Bisogna essere attenti, metodici, ma al tempo stesso creativi e profondi conoscitori di quel mondo. Si deve saper ragionare come ragionano i mafiosi. Si deve essere in grado di sopportare un’incredibile dose di stress. Non esiste una scuola specifica per “infiltrati”, ma non è un caso che per esempio che nei Reparti Speciali, come Ros, Scico o SCO, si selezionano solamente persone con certe caratteristiche attitudinali.

Agendo da infiltrati si rischia di sconfinare in rapporti troppo stretti con i criminali?
Il rischio c’è, ma proprio per questo è importante che l’infiltrato sia una persona preparata e in grado di svolgere il proprio compito senza mai dimenticare che sta solo recitando una parte. Da un certo punto di vista i rapporti umani aiutano nel lavoro dell’infiltrato, basta riconoscerne i confini. Certo, all’inizio vi sono stati soprattutto errori interpretativi, anche perché i primi corsi in Italia venivano tenuti da agenti della Dea (Drug Enforcement Administration, ndr) che insegnavano metodiche adatte al quadro normativo statunitense, ma non a quello italiano. Molti dei primissimi infiltrati italiani si sono cacciati nei guai perché ricevevano indicazioni non compatibili con la nostra normativa.

Quanto si rischia a fare l’infiltrato?
Il rischio c’è, soprattutto durante l’attività sotto copertura. Lì non puoi permetterti cali di attenzione perché se vieni scoperto è finita. Ma, conclusa l’indagine, i rischi si riducono notevolmente. Questo perché, soprattutto nel riciclaggio e nel narcotraffico le organizzazioni criminali hanno una vision da azienda. Per loro perdere un carico o subire arresti a causa di un infiltrato costituisce un “rischio d’impresa”. Sanno che può accadere e quando accade non pensano a vendicarsi ma a gestire i processi. Semmai chi rischia di più è che ti ha presentato, chi si è fidato di te e ha garantito per te non accorgendosi che eri un agente sotto copertura. Pensi al film Donnie Brasco: non è un caso se alla fine Cosa Nostra “giustizia” Al Pacino, il fiduciario, e non Johnny Depp, l’infiltrato.

Quanto si resta segnati da un’attività come questa?
Lo stress è altissimo. Devi essere concentrato 24 ore su 24. Magari sei a casa con tua moglie e i tuoi figli e ricevi una telefonata da loro, sul telefono da “infiltrato”. Devi ricordarti che in quel momento devi smettere di essere chi sei ed essere qualcun altro. devi cambiare tono voce e modo di parlare. E tutto questo alla fine può segnarti. Per questo avevo suggerito tempo fa di sottoporre a visite psicologiche tutti gli agenti sotto copertura, al termine di ogni indagine.

L’operazione degli scorsi giorni ha dimostrato che ormai le redini del narcotraffico internazionale sono in mano alla ‘ndrangheta?
Sorrido perché questa storia viene ripetuta ciclicamente. In realtà la ‘Ndrangheta ha preso le redini del narcotraffico già dai primi degli anni ’90, controllando le principali “piazze europee”. Già in quell’epoca la famiglia Mazzaferro, ad esempio, riceveva svariate tonnellate di cocaina in conto vendita dai colombiani, come accaduto qualche anno dopo per la famiglia Scali, sempre di Giojosa. E Cosa Nostra, in quel settore, era “finita” già da ben prima delle stragi. Ha vissuto i suoi momenti d’oro con la Pizza connection, con le raffinerie di eroina in Sicilia e con i rapporti eccellenti con i cartelli colombiani tenuti dalle famiglie Caruana-Cuntrera. Ma da tempo i cartelli colombiani non esistono più. I boss colombiani si sono trasformati in grandi broker internazionali ed a tirare le fila sono le grandi organizzazioni in grado di gestire le rotte del narcotraffico verso le due maggiori destinazioni, Europa e Stati Uniti. Un potere enorme è in mano ai cartelli messicani, come i Las Zetas, con cui l’‘ndrangheta ha stretto rapporti da tempo. Colombiani e messicani hanno eccellenti rapporti soprattutto con le famiglie della costa Jonica Reggina. Si tratta di famiglie con una storia da contrabbandieri internazionali di tabacchi che nei decenni hanno sviluppato un know how nelle relazioni internazionali e sono considerati altamente affidabili. La ‘ndrangheta è potente perché è, tra virgolette, seria, credibile e affidabile.

Lo strumento dell’attività sotto copertura viene sfruttato a dovere in Italia?
Assolutamente no. E questo per una serie di fattori, culturali, di risorse, normativi e processuali. Le attività sotto copertura sono molto condizionata dal quadro normativo di riferimento. Nel sistema anglosassone l’esercizio dell’azione penale è facoltativo e l’infiltrazione full time è ampiamente possibile. Ma in Italia l’esercizio dell’azione penale è obbligatoria. Ed Il nostro sistema normativo a partire dal 1990 è tutto impostato sul principio del “differimento atti”. Cerco di spiegarlo con semplicità: formalmente tu quella cocaina che ricevi, o compri, durante l’attività di infiltrazione è come se la stessi sequestrando. Solo che formalizzerai il sequestro in un momento successivo, quando verrà meno l’esigenza investigativa e di copertura. Prima del 1990 un carabiniere o un poliziotto poteva infiltrarsi, ossia entrare in confidenza e carpire la fiducia di un organizzazione criminale. Ma di fronte ad una partita di droga era obbligato ad intervenire arrestando e sequestrando. Altrimenti commetteva un reato. Nel 1990, quindi, fu introdotta la prima normativa di settore che permetteva, a condizioni molto restrittive e tra mille dubbi interpretativi, di spostare in avanti il momento dell’arresto o del sequestro e non far saltare la copertura. Ma i limiti erano ancora troppi. Si diceva, ad esempio che l’infiltrato non fosse autorizzato ad utilizzare documenti falsi perché la legge non lo prevedeva ed era reato. O non poteva partecipare ad una cessione di droga perché reato. Ma allora se, ad esempio, un trafficante chiedeva di accompagnarlo ad una consegna di droga l’infiltrato cosa doveva fare? Di qui nascevano mille problemi, spesso anche giudiziari. Con un “no” finiva tutto. Con un “sì” si guadagnava la fiducia dei criminali e si portavano avanti le indagini. Ma l’ufficiale di polizia giudiziaria, anche se infiltrato, in Italia, non può chiudere gli occhi: deve qualificarsi e procedere all’arresto. Questa normativa, soprattutto nelle sue prime versioni, ha creato una marea di problemi, anche perché le nostre Procure e anche i singoli Pubblici Ministeri sono tante repubbliche a parte. Ci siamo trovati con tanti agenti sotto copertura indagati e processati per delle cavolate. Si era giunti a dire all’infiltrato: “Tranquillo, devi prima essere indagato poi in giudizio faremo valere la scriminante speciale”. Lei se lo immagina un carabiniere o un poliziotto che dopo aver rischiato la pelle deve prendere un avvocato, essere iscritto nel registro degli indagati e magari rischiare una condanna? Purtroppo è quanto accaduto. E magari con indagini sulle indagini, svolte da un’altra Procura che vanificano una certa elasticità interpretativa de magistrato che aveva diretto la prima indagine. È quanto accaduto soprattutto nella fase iniziale di applicazione della normativa speciale, con non poche aberrazioni. Un esempio su tutti il processo non ancora concluso, a carico del generale Ganzer e di altri uomini del ROS.

Insomma, non si viene proprio incentivati a utilizzare questo strumento?
Certamente no. Quanto accaduto agli esordi, ha fatto disaffezionare le forze di polizia a questo genere di attività, nonostante la profonda riforma della normativa che vi è stata solo nel 2010. Ora ci sono tantissime possibilità in più, prima inibite. Il problema è che tantissime forze di polizia giudiziaria forse non ne conoscono a fondo i contenuti e le enormi potenzialità operative.

Che cosa prevede la nuova normativa?
Ad esempio si può estendere il differimento del sequestro a qualunque corpo del reato, anche a documenti. C’è la possibilità di impiegare anche “esterni” alla polizia giudiziaria per i quali operano le stesse garanzie. Si può vendere o cedere, oltre che acquistare. Si pensi all’intermediazione o alla cessione di documenti falsi ad organizzazioni di trafficanti di esseri umani o a terroristi. Ma nel frattempo però la cultura dell’attività sotto copertura non si è sedimentata. Questo perché ad un certo punto un carabiniere, un poliziotto o un finanziere dice: “Ma chi me lo fa fare? Devo rischiare la vita e pure l’onore con un procedimento penale? Allora al diavolo voi, i trafficanti di droga e il sistema giudiziario italiano”.

I fondi per le forze dell’ordine non sono sempre adeguati. Esiste anche un problema di costi?
Sicuramente. Queste operazioni costano e il budget a disposizione è sempre più risicato. Si va avanti, in maniera tipicamente italiana, con una grande dose di creatività ed improvvisazione. Senza considerare che l’operatività si scontra spesso con la burocrazia. Alla fine della mia operazione da infiltrato mi sono sentito rifiutare una richiesta di rimborso di 300 euro per la fattura del fax della società di copertura che avevamo creato, perché la richiesta iniziale non chiariva che lo avremmo anche utilizzato. Mi sono cascate le braccia. Insomma, c’è tutto un coacervo di elementi che fa capire perché in Italia si ricorre poco a questo importante strumento di indagine. A tutto ciò si aggiunga che nella cooperazione internazionale, spesso ci si scontra con sistemi legali non facilmente conciliabili tra loro. Io stesso, per un’inezia, ho rischiato un’incriminazione in Olanda perché mi ero recato ad un secondo appuntamento richiestomi dai narcos, non “coperto” da rogatoria internazionale. Solo la flessibilità del Procuratore della Repubblica di Amsterdam mi ha salvato.

Qual è il livello delle indagini antimafia in Italia?
Il livello di professionalità della polizia giudiziaria italiana è molto apprezzato in tutto il mondo. E tutto sommato anche gli strumenti normativi di investigazione e contrasto a disposizione sono adeguati. Il problema è che fa acqua il processo penale. Abbiamo voluto scimmiottare il processo americano, ma alla fine è venuto fuori un mostro che non è né carne né pesce. Il risultato? Le verità processuali spesso sono lontanissime da quelle reali. Tanto valeva tenersi il vecchio processo inquisitorio. Vanno ridefiniti ruoli e confini. L’esperienza mi ha insegnato che le indagini ed i processi funzionano bene solo quando affidate a strutture di eccellenza in grado di sfruttare al meglio tutti gli strumenti investigativi. Le indagini funzionano male quando si fa tanto rumore. Nicola Gratteri, per esempio, è un’eccellente magistrato perché a differenza di altri sa valorizzare il ruolo della polizia giudiziaria. Il pm non si deve sostituire alla polizia giudiziaria, ma essere il garante della legalità nella fase investigativa guardando alla fase dibattimentale ed al risultato finale: far condannare i colpevoli e assolvere gli innocenti.

Secondo lei il ruolo dell’infiltrato è considerato nella maniera giusta in Italia?
Spesso si crea un cortocircuito mediatico giudiziario sbagliato. I pm guardano le strutture investigative d’eccellenza con ammirazione da una parte ma con sospetto dall’altra. Purtroppo quando superi delle norme facendo attività sotto copertura non esiste un “eccesso colposo”. Non hai la legittima difesa. E il punto è che non è sempre chiaro quando queste norme si sforano. Si è in balia di una giurisprudenza oscillante e dell’interpretazione, a volte maliziosa del singolo magistrato che può essere del tutto diversa dall’interpretazione di un altro suo collega. E in un secondo puoi ritrovarti da eroe ad indagato per narcotraffico. E lì si scatena l’opinione pubblica, il mondo dei social network, del web 2.0, specie di quelli che pensano che tutto ciò che dicono i magistrati sia il vangelo. E agenti valorosi si possono veder scambiati per corrotto e collusi, senza neanche il beneficio del dubbio.

Lei ha definito gli agenti sotto copertura ed i carabinieri e poliziotti di cui parla nel suo ultimo libro degli “eroi silenziosi”. Quanto dà fastidio a un eroe silenzioso vedere magari un magistrato che, dopo aver condotto immagini di grande impatto mediatico, si candida in politica?
Dà tanto fastidio perché è una delle anomalie tutta italiana. L’indipendenza non deve essere solo un fatto sostanziale ma anche di percezione. Personalmente non mi sono mai trovato a fare servizio dove sono nato e cresciuto. È già anomalo che i magistrati, i controllori supremi della legalità, spesso prestino servizio nella città dove sono nati, vissuti e cresciuti, dove hanno amici, compari e familiari. E ciò non può che compromettere l’indipendenza tuo operato. Se poi il passaggio successivo è la politica allora è tutto il sistema che perde di credibilità. Non a caso pur essendo i magistrati per due terzi giudicanti e per un terzo inquirenti, la proporzione si inverte nell’Anm e, di riflesso, nella loro rappresentanza in seno all’organo di autogoverno, il CSM. Ciò denota che la medianicità del loro operato ha un risvolto elettorale ed un peso ai fini del potere anche in seno alla stessa magistratura. Per questo io sono solito dire quando sento parlare di magistratura politicizzata che in realtà la magistratura a volte è politica.

di Lorenzo Lamperti AFFARI ITALIANI


 

“Noi, poliziotti infiltrati tra i criminali”

 

Dottor Luigi Bovio, quanti agenti sotto copertura ci sono in Italia? “Nella polizia alcune decine, che hanno dai 25 ai 50 anni circa – risponde il vice questore dello Sco, che coordina gli agenti di polizia sotto copertura –. La maggioranza sono uomini”.

In Italia si sfruttano poco gli infiltrati. Questo perché serve un addestramento complicato o gli agenti hanno paura delle conseguenze giudiziarie? “Negli anni scorsi il ricorso a questo tipo di indagine non è stato eccessivo, ma noi ci puntiamo parecchio. Vogliamo rilanciare le attività sotto copertura, in ogni campo”.

Quali altri reati potranno essere perseguiti con l’uso di agenti sotto copertura? “Quelli nella pubblica amministrazione”.

In questo momento quante operazioni sono in corso? “Sette, otto. Spingiamo molto su queste attività, principalmente contro droga e immigrazione clandestina”.

Qual è l’identikit del perfetto agente sotto copertura? “Una persona sveglia ed empatica, mai ansiosa. Deve saper affrontare le avversità improvvise con calma ed entrare in sintonia con le persone creando un legame. Curiamo molto l’aspetto psicologico: sia al momento della selezione, sia nel corso delle operazioni, ma soprattutto dopo. Alcune azioni sono impegnative e serve un lungo supporto. Ci affidiamo anche ad agenti stranieri della polizia italiana”.

Chi, invece, viene respinto nei test selettivi? “La maggior parte: persone che non dimostrano duttilità. Dobbiamo fronteggiare criminali, nati per strada, che uno ‘sbirro’ lo riconoscono da un chilometro di distanza e non possiamo mandare chiunque allo sbaraglio”.

Il garante, che fa entrare l’infiltrato nel giro criminale, può essere difeso o è ‘condannato a morte’ alla fine dell’operazione? “Noi cerchiamo di strutturare l’operazione in modo che non emerga il ruolo dell’agente sotto copertura, anche a livello giuridico. Quando effettuiamo gli arresti, catturiamo pure l’infiltrato. In alcuni contesti, però, non si riesce a fingere e il clan capisce qual è l’anello debole della catena che è stato tratto in inganno: così lo tuteliamo perché si trova in pericolo”.

Un infiltrato anti pusher deve seguire lezioni teoriche sulla droga, sulla composizione chimica e sul mercato degli stupefacenti? “Certo e costruiamo una sua biografia dimostrabile. L’agente deve trasformarsi in un pusher anche se non ha mai usato stupefacenti”.

Come si insegna a mentire? “È una dote naturale, difficile da insegnare. Bisogna avere la capacità di muoversi in un ambiente criminale: uno è facilitato se ha già avuto contatti, come è capitato a me, per esempio coi piccoli delinquenti delle scuole. Se riesci a farti affidare dal trafficante una partita di droga da centinaia di migliaia di euro, è perché sei entrato nella testa del narcoboss”.

Lei ha mai partecipato a un’operazione sotto copertura?“Sì, ma in maniera indiretta. Le sensazioni? L’adrenalina va a mille. In quell’occasione abbiamo alzato il livello dei blitz anti droga, sequestrando una grande quantità di sostanze stupefacenti e arrestando individui apicali del clan”.

Quante operazioni un agente può affrontare in carriera? “Per lo stress fare l’agente sotto copertura a vita non è consigliabile”.

Qual è il budget per ogni operazione? “Si va da un minimo di qualche centinaia di euro, poi si cerca di limitare al massimo i soldi persi, per esempio, nell’acquisto di droga”.

Accade spesso che le azioni falliscano? “Ultimamente vanno tutte a buon fine: alcune volte si riesce a colpire esattamente il bersaglio, altre volte quasi. Quando si fallisce le cause sono due: il criminale guardingo nota qualcosa e non si confida più con l’infiltrato, oppure all’agente viene chiesto di superare un certo limite legale e umano”.

Come uccidere una vittima, per provare la propria affiliazione a un clan mafioso? “In quel caso l’operazione si blocca”.

Il film cult ‘Donnie Brasco’ ha fatto bene al vostro sistema? “I delinquenti sapevano anche prima che esistevano gli ‘under cover’, quel film ci ha fatto semplice pubblicità. Joe Pistone (interpretato da Johnny Depp, ndr) è stato il primo agente Fbi sotto copertura, è un mito. Siamo in contatto e presto collaboreremo con lui, organizzando seminari per i nostri agenti. A quel livello di indagine ci sono situazioni complicate da gestire”.

State operando adesso a quel livello? “Non posso rispondere”.


Una vita sotto copertura

Panorama ha incontrato uno degli “undercover” della Polizia che da anni vive infiltrato nella rete dei narcotrafficanti

Ragionano come i narcotrafficanti ma non infrangono le regole della legalità: sono gli agenti sotto copertura della Polizia di Stato. Uomini e donne guidati da uno dei più esperti dirigenti del Servizio Centrale Operativo (Sco). Panorama, in esclusiva, ha potuto intervistare il pioniere degli undercover. L’abbiamo incontrato in una località segreta, armati solo di taccuino e penna: perché la prudenza non è mai troppa quando si affronta un tema come la lotta ai trafficanti di droga; perché, per la prima volta, mostra il volto senza travestimento a un giornalista; perché è infiltrato nelle maglie dell’organizzazione criminale. Lui, nome di fantasia, sembra un attore di un film americano: la sua età non traspare e neppure la cadenza rivela sua vera appartenenza, se è nato al Nord o al Sud. Come un camaleonte è stato addestrato a cambiare pelle per salvare la sua. «Sono stato infiltrato in almeno dieci importanti operazioni di Polizia» dice Jack, da due anni allo Sco. «Ho perso il conto di quanti narcotrafficanti abbiamo catturato, anche uomini al di sopra di ogni sospetto, colletti bianchi che lucrano con la droga o spietati spacciatori; abbiamo sequestrato tonnellate di stupefacenti. È sempre la prima volta però, perché ogni missione è diversa dall’altra: non sai mai come potrebbe finire».  
Parla con calma, senza emotività. «Ci vuole molta professionalità… Ho imparato a comportarmi in modo freddo, lucido, risoluto» dice. Non deve mai sembrare sbirro, neppure quando racconta «cose» da sbirro. E con la paura come la mettiamo? «Ti fa commettere errori. Non sono Batman e devo sapermi fermare, laddove lo ritenessi opportuno». Perché un poliziotto rischia la vita per un normale stipendio e senza incentivi di carriera? Perché affronta un’esistenza complicata, ai margini della società, quasi come un clochard? Accade raramente che un undercover frequenti night club in compagnia di belle donne, ristoranti stellati, hotel di lusso. «Magari…». Per un attimo sorride. «Guardi, il grimaldello è stata la riforma della legge sulla droga. E poi non sopporto che questi criminali possano sentirsi degli intoccabili e farla franca. Un giorno mi sono detto: se non si riuscisse ad arrestarli con l’attività investigativa classica e si potesse farlo sotto copertura, ben venga».  
Il contatto diretto con il trafficante di stupefacenti dà risultati più immediati; e negli ultimi dieci anni si sono fatti tutti furbi, al telefono si scoprono solo le corna. «Al telefono, del resto, non si registrano nitidamente i reati, tutto è più complesso. Ci sono, poi, tanti sistemi per comunicare: WhatsApp, la Chat, Facebook, Black Berry» continua Jack. Quando il Servizio Centrale Operativo decise di alzare il livello della lotta alla criminalità puntando sulla strategia dell’agente sotto copertura, chiamò Jack: lui, che aveva già dimostrato le prerogative indispensabili per questa attività investigativa, cominciò a formare altri poliziotti.
La scuderia degli undercover permette anche di risparmiare dal punto di vista economico. Per il piccolo spaccio, per esempio, si adotta una strategia collaudata, che permette in 60 giorni di arrestare 20 o 30 spacciatori che colonizzano la piazza: un intervento efficace eseguito da una decina di poliziotti dello Sco e della Scientifica; questi ultimi installano telecamere e microspie, al resto penserà l’undercover che avrà sempre le spalle coperte da un pugno di sbirri pronti a intervenire.  
Sono un team di professionisti, perché il limite che non si deve oltrepassare è sottilissimo e si rischia facilmente di bruciare l’operazione o di imbattersi nel reato penale. Chiediamo a Jack: quante volte si è trovato con le mani legate? «In molte occasioni avrei potuto fare di più, ma la legge non me lo consente. È come una linea Maginot: oltre non si può andare» dice l’agente abbassando lo sguardo come fosse una resa. «I poliziotti americani fanno moltissime operazioni sotto copertura perché la legge permette anche di provocare il reato, di vendere o cedere la merce» racconta. Dovrebbero dare la possibilità di trasportare gli stupefacenti per conto dei trafficanti, invece possono solo acquistarla. E se l’agente sotto copertura fosse costretto a una sniffatina di coca nel bel mezzo del rendez-vous? «Scherza? Il vero narcotrafficante non prende mai la cocaina perché se fosse un drogato non sarebbe credibile. Cerco sempre di evitare incontri al buio, feste e luoghi privati. Devo essere bravo a non trovarmi in certe situazioni perché mi propongo sempre come investitore e mai come consumatore». Alla domanda: si è mai trovato ad affrontare un incontro senza supporto tecnico e senza informare il regista dell’operazione (che è sempre il direttore dello Sco)? Jack si lascia andare a un racconto da film: «A differenza dei trafficanti bosniaci che sono scaltri, superbi, difficili da conquistare, quelli albanesi si lasciano affascinare dalla persona brillante che ostenta una ricchezza vistosa. Un giorno mi presento, al primo appuntamento, sfoggiando una Lamborghini rosso fiammante. E conquisto immediatamente la simpatia dello spacciatore albanese: la pedina che mi avrebbe portato dal capo dell’organizzazione criminale. Quando ce l’ho ormai in pugno, comincio a dettare le condizioni e a farlo sentire una nullità. Gli albanesi sono molto orgogliosi, quindi cerco di renderlo vulnerabile. Al terzo appuntamento, infatti, mi confessa che prima di vendere la droga deve chiedere il permesso al proprietario. Finché, senza preavviso, mi dice: “Vieni che ti porto dal capo”. A quel punto sono a un bivio: ho un risultato investigativo importante, ma non ho il supporto di copertura dei colleghi. Non posso rischiare di fare saltare l’operazione, l’istinto mi dice di andare.
Jack si ferma un secondo per creare maggiore suspense. «Mi sembra di vivere la scena di un giallo: mi portano in un luogo isolato dove si trova un capannone. E mentre il mio gancio si reca dal capo, mi accorgo che sono sorvegliato: basterebbe una telefonata o un gesto nervoso… e non vedrei più il sole. Quando torna lo spacciatore quasi mi esorta: “Il mio capo ti vuole conoscere”. Raggiungiamo il capannone e mi trovo di fronte a un bosniaco grande come una montagna che comincia a farmi un vero e proprio interrogatorio. Per fortuna la mia storia lo convince: dopo una settimana mi informano che avverrà la consegna della droga, ma all’appuntamento mi presento con i miei colleghi che fanno la retata».  Il fatturato del traffico di stupefacenti potrebbe risanare le casse dello Stato, la richiesta di droga è talmente elevata che tutte le organizzazioni criminali guadagnano ingenti somme di denaro senza farsi la guerra: «Una volta il giro dei trafficanti di droga era chiuso e infiltrarsi era impossibile. Adesso, invece, il sistema è talmente variegato che a noi fa gioco» spiega. «Più persone spacciano e più possibilità abbiamo per mimetizzarci nelle organizzazioni criminali. Chiaramente dipende dalla etnia: lo spacciatore nigeriano ha un modus operandi, quello magrebino ne ha un altro, l’albanese o lo slavo un altro ancora».
Nella galassia dei narcotrafficanti, kosovari, bosniaci e croati sono i più spietati, anche perché molti boss dello spaccio sono reduci di guerra. «Infiltrarsi nelle maglie di queste organizzazioni è una impresa impossibile. Sono determinati, praticano l’autarchia più assoluta» sottolinea Jack. «Se è vero che la droga accomuna i popoli, è anche vero che l’organizzazione criminale nigeriana batte le altre etnie perché è potente, dominante, spalmata soprattutto nelle piazze più ricche del Paese. Gli spacciatori nigeriani sono così tanti che è come affrontare con l’ombrello lo tsunami». I capi dei clan nigeriani usano i riti tribali juju per soggiogare i proseliti. Sono azioni violente: di recente un «adepto» è morto durante un rituale di iniziazione. «E aveva pure pagato 400 euro» precisa Jack.  
I boss nigeriani, giorno dopo giorno, conquistano fette rilevanti del mercato degli stupefacenti: qualcuno cerca di fare il salto di qualità, stringendo affari anche con gli spacciatori italiani. Se si volesse tracciare l’identikit del nigeriano presente nelle piazze di spaccio? «È un soggetto irregolare sul territorio, che vive in luoghi di fortuna, per cautela si rifornisce dai connazionali». Quindi scardinare e infiltrarsi nei clan nigeriani è come un labirinto. «Nonostante fossero gruppi criminali serrati, siamo riusciti, in alcuni casi, a penetrare anche a un livello superiore dell’organizzazione» sottolinea l’undercover.  
La vera difficoltà è abbattere il muro della diffidenza. E poi sono molto superstiziosi: prima di effettuare un trasporto di stupefacenti contattano lo sciamano che si trova in Nigeria. «Mi è capitato, mentre l’operazione era quasi conclusa, che il capo nigeriano fermasse la consegna della droga perché lo sciamano vietava la trattativa e la rimandava a tempi migliori» dice Jack. Anche la madre del capo riveste un ruolo importante nell’organizzazione criminale nigeriana, e ha un potere incredibile sul figlio. È lei che investe i proventi della droga in Nigeria, quasi sempre in immobili. «Siccome i nigeriani sono molto creduloni, se la mamma del trafficante di droga dovesse dire: “Non ti muovere che ho un presentimento”, spostano o addirittura sospendono l’affare. Mi è successo diverse volte».
La mafia nigeriana è in ascesa. E la Nigeria è la tratta alternativa sia per la cocaina che per l’eroina. Jack non ha dubbi: «L’ovulatore fa transitare ingenti quantità di stupefacenti». Alcune importanti operazioni, una per tutte Eiye -Calypso, a Cagliari, dimostrano che è ormai un sistema ramificato. Finché la Ndrangheta resterà la regina del grande business, perché fa tutto in proprio, dalla raffinazione al trasporto della droga e persino allo spaccio nelle zone controllate, mantenendo contatti diretti con i cartelli colombiani e importando qualsiasi carico di stupefacenti, nel mondo del narcotraffico prevarrà lo status quo. «La normativa non ci permette di infiltrarci nei cunicoli delle ndrine» sospira lo sbirro. «Ma mai dire mai». Jack saluta e si allontana.

PANORAMA 2019