Paolo, il carabiniere infiltrato nella ‘ndrangheta

 

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Un recente articolo di Repubblica che riporta la testimonianza di un carabiniere del Ros, infiltrato nella ‘ndrangheta, noto con il nome in codice di“Paolo”, rivela un aspetto poco noto dell’operato delle forze dell’ordine italiane: l’infiltrazione di agenti nelle organizzazioni criminali per smantellare i clan e neutralizzare le attività illecite.

In particolare, Paolo ha raccontato di essere stato per due anni infiltrato in un clan di ‘ndrangheta, la potente organizzazione criminale calabrese con ramificazioni in tutto il mondo.
Grazie alla sua operazione sotto copertura, è stato possibile smantellare il clan e arrestare i suoi membri, mettendo fine alle attività illecite che ne costituivano il motore economico.
Il racconto di Paolo getta luce su un aspetto poco noto delle organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta: la loro capacità di gestire attività economiche complesse, che spaziano dalla gestione di traffici di droga e armi alla riciclaggio di denaro sporco, dall’estorsione alle frodi finanziarie.
Secondo Paolo, il clan di ‘ndrangheta a cui è stato infiltrato aveva manager in tutto il mondo, in grado di moltiplicare i milioni ricavati dalle attività illecite.

Ma come è possibile che organizzazioni criminali così complesse riescano ad operare in modo così efficiente e sfuggano alle forze dell’ordine per anni, se non decenni? La risposta sta nella loro capacità di mimetizzarsi, di infiltrarsi nei tessuti sociali ed economici delle comunità in cui operano, di controllare i poteri locali e di godere della protezione di un sistema di complicità che coinvolge anche le istituzioni.
Per questo motivo, l’infiltrazione di agenti sotto copertura rappresenta uno strumento prezioso per smantellare le organizzazioni criminali, perché consente di penetrare il loro mondo e di scoprire le loro attività illecite.
Tuttavia, come ha ammesso lo stesso Paolo, si tratta di un’operazione rischiosa e complessa, che richiede una grande preparazione e un’ottima conoscenza del territorio e delle dinamiche sociali.
In ogni caso, l’esperienza di Paolo dimostra che la lotta alla criminalità organizzata richiede una strategia multifronte, che comprenda non solo l’azione diretta delle forze dell’ordine, ma anche la prevenzione, l’educazione e il coinvolgimento delle comunità locali. Solo in questo modo sarà possibile contrastare efficacemente le organizzazioni criminali e proteggere la legalità e la sicurezza dei cittadini.

 

 

 

Parla il carabiniere infiltrato: “La ‘ndrangheta ha manager in tutto il mondo”

 

“Ho visto come moltiplicano i milioni”

Se il suo nome si potesse rivelare, rimarrebbe in cronache e annali, asserisce Alessia Candito di Repubblica nel suo articolo dove viene riportata una intervista ad un militare dell’Arma che per diverso tempo è riuscito a monitorare dall’interno le dinamiche della ‘ndrangheta, una delle più potenti organizzazioni criminali al mondo.
Hanno manager in tutto il mondo, ho visto come moltiplicano i milioni”, dichiara alla giornalista. “Paolo” è un infiltrato, il primo italiano che sia riuscito a “bucare” un clan di ‘ndrangheta, e il suo nome reale deve necessariamente rimanere segreto. È un carabiniere del Ros, e di certo non è la sua prima esperienza sotto copertura.

LA STORIA DI UN CARABINIERE DEL ROS CHE SI È INFILTRATO IN UNA ’NDRINA CALABRESE: “CI SONO SOGGETTI CON CAPACITÀ MANAGERIALI INIMMAGINABILI E CONTATTI IN TUTTO IL GLOBO. STANNO A BOVALINO E QUATTRO GIORNI DOPO TE LI RITROVI IN SUDAMERICA, POI DI NUOVO A BOVALINO AL BAR. E MUOVONO MILIONI – HO VISTO MOVIMENTARE UNA TRENTINA DI MILIONI GRAZIE A UN CIRCUITO CRIMINALE CINESE, UNA SORTA DI MONEY TRANSFER CLANDESTINO. I SOLDI VENIVANO RITIRATI E CINQUE MINUTI DOPO ERANO DISPONIBILI IN UN PAESE LATINO AMERICANO – I CLAN TI METTONO ALLA PROVA, VERIFICANO TUTTO QUELLO CHE DICI O RACCONTI”


Estratto dell’articolo di Alessia Candito per “la Repubblica”

Se il suo nome si potesse rivelare, rimarrebbe in cronache e annali. Ma “Paolo” è un infiltrato, il primo italiano che sia riuscito a “bucare” un clan di ’ndrangheta e il suo nome reale deve rimanere segreto.
Si sa e si può dire che è un carabiniere del Ros, che ha esperienza in Italia e all’estero e che quella appena conclusa non è la sua prima operazione coperta. […] per anni ha raccolto informazioni su movimenti finanziari, traffici, latitanze «inclusa quella di Rocco Morabito», ma soprattutto su rapporti e contatti. Imprenditori insospettabili inclusi.
Un tesoro di informazioni divenute essenziali per la maxi inchiesta “Eureka”, che la scorsa settimana ha portato a più di duecento arresti in tutta Europa. […]

Chi era Paolo? Per quanto tempo è diventato lui?

«Due anni e mezzo circa. Ero un insospettabile legato a contesti criminali, utile a risolvere problemi grazie a rapporti, contatti e ganci in Italia e all’estero. […]».

Non ha mai ha avuto paura che la copertura saltasse?

«Tutto è stato pianificato, ma bisogna fare attenzione a qualsiasi cosa. I clan ti mettono alla prova, verificano tutto quello che dici o racconti, le persone che sostieni di conoscere, le circostanze».

Dopo aver indagato per anni sulla ’ndrangheta, che effetto fa trovarsi dentro?

«È molto più pericolosa e ramificata di quanto si possa immaginare».

Com’è possibile che paesini della Locride di poche migliaia di anime siamo al centro di traffici mondiali e transazioni milionarie?

«Non devono ingannare. Non tutti sono allo stesso livello, ma ci sono soggetti con capacità manageriali inimmaginabili e contatti in tutto il globo. Stanno a Bovalino e quattro giorni dopo te li ritrovi in Sudamerica, poi di nuovo a Bovalino al bar. E muovono milioni».

Lo ha visto con i suoi occhi?

«Ho visto movimentare una trentina di milioni grazie a un circuito criminale cinese, una sorta di money transfer clandestino. I soldi venivano ritirati e cinque minuti dopo erano disponibili in un Paese latino americano».

Ha mai avuto la sensazione che ci fosse una regia più grande dietro l’azione dei singoli clan?

«La ’ndrangheta è unitaria, c’è sempre una sorta di mutuo soccorso fra le diverse famiglie». […]


POLIZIA DI STATO – Intervista ad un agente di polizia sotto copertura – VIDEO


 

NDRANGHETA

 

Vita di un agente sotto copertura – VIDEO

Dopo l’operazione antimafia “New Bridge” che ha portato all’arresto di 26 persone tra Italia e Stati Uniti, parla un agente sotto copertura che ha partecipato a numerose operazioni di contrasto al traffico di droga e di armi. Lo strapotere dei cartelli sudamericani, il ruolo della ‘ndrangheta e le difficoltà di lavorare con un’altra identità, nel’intervista di Mario Forenza –

Fiumi di denaro e droga dalla Colombia: agente sotto copertura fa scoprire il riciclaggio del narcotraffico

 

Operazione della Guardia di finanza di Trento in collaborazione con l’Interpol: arrestate 42 persone e sequestrati beni per 20 milioni di euro

Parte del denaro sequestrato

42 indagati e sequestri per quasi 20 milioni di euro. È l’operazione conclusa dalla Guardia di finanza di Trento e della squadra di polizia giudiziaria della Procura Distrettuale di Trento, in collaborazione con l’Agenzia Europol. Eseguita l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti di 42 soggetti, di cui 5 all’estero (Colombia e Spagna) e il sequestro di oltre 18,5 milioni di euro.
L’indagine vede complessivamente il coinvolgimento di 47 soggetti, di cui 26 di nazionalità estera (Colombia, Marocco, Albania e Siria), ritenuti a vario titolo responsabili di aver partecipato o concorso a un’articolata associazione per delinquere a carattere transazionale, dedita al riciclaggio di denaro derivante dal traffico internazionale di sostanze stupefacente in favore dai cartelli sud americani.
Un agente sotto copertura si è infiltrato nella rete di broker internazionali serventi i cartelli sud americani che – nel quadro di un accordo illecito preesistente che coinvolgeva i rappresentati della criminalità organizzata siciliana, calabrese e altre strutture criminali organizzate, grazie a una ramificata rete di collaboratori e facilitatori – erano dediti al riciclaggio internazionale dei proventi derivanti dal traffico di sostanze stupefacenti sul territorio nazionale.
Nel corso delle investigazioni è emerso che i clan colombiani e messicani, che cedevano a credito sostanze stupefacenti alle organizzazioni criminali nazionali, per far fronte alla necessità di far rientrare in Sud America il prezzo dello stupefacente si avvalevano di una specifica “rete di broker” internazionali, allo scopo di riciclare il denaro e convertirlo sotto forma di beni e servizi.
La metodologia di riciclaggio scoperta può essere sintetizzata così: i “cartelli sud-americani” cedevano a credito partite di cocaina a sodalizi criminali operanti in Italia i quali, dopo l’attività di spaccio, incassavano denaro contante che veniva successivamente consegnato ai “money collectors” (detti anche “corrieri”); questi ultimi, tramite una cosiddetta operazione di “money pick up”, trasferivano a loro volta le somme ai “money mule” (detti anche “prelevatori”); il denaro, dopo il deposito su dei conti correnti, veniva bonificato (in dollari) a favore di aziende, precedentemente individuate dalla “rete” di supporto dei cartelli, dislocate in diversi paesi del mondo, tra i quali Stati Uniti, Cina, Hong Kong e Turchia, operanti nel settore della commercializzazione di prodotti elettronici (specie di telefonia) e beni di lusso (orologi etc.). Queste società procedevano quindi alla spedizione dei prodotti verso i clienti sud americani, i quali pagavano (in pesos) il prezzo dei prodotti direttamente alla “rete dei broker” di supporto ai cartelli colombiani, così permettendo a questi ultimi, con la consegna delle somme alle consorterie criminali, di ottenere il denaro, oramai ripulito, in moneta locale. 31.5.2023 RAVENNA TODAY

 


Agenti sotto copertura si infiltrano nelle chat pedoporno: arresti e perquisizioni in tutta Italia

 

L’indagine anti pedopornografia ha interessato tutto il territorio nazionale e portato a tre arresti. Tra gli indagati anche quattro minori accusati di detenzione e diffusione di contenuti pedopornografici.

 

Una vasta operazione antipedofilia è in corso dalle prime ore di oggi in tutta Italia volta a smantellare una rete di utenti che si scambiava abitualmente materiale pedopornografico anche attraverso chat create appositamente con una nota piattaforma di messaggistica che garantisce l’anonimato degli utenti.

L’indagine, che si è avvalsa di agenti sotto copertura infiltrati tra la rete online creata dai pedofili, ha portato nelle scorse ore a tre arresti e oltre una decina di perquisizione in vari città italiane da nord a sud.
Nel dettaglio, oltre alle tre ordinanze di custodia cautelare, la polizia ha eseguito anche dodici decreti di perquisizione a carico di altrettanti indagati, di cui quattro non ancora maggiorenni, e sequestrando migliaia di file che dovranno essere ora esaminati. Tutti gli indagati devono rispondere delle accuse di detenzione e diffusione di contenuti pedopornografici.
I tre arresti sono avvenuti in Campania, Calabria e Lombardia ma l’indagine ha coinvolto persone residenti anche in Abruzzo, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Piemonte, Sicilia e Veneto.
L’indagine, diretta dalla Procura di Torino – Gruppo Criminalità Organizzata e Reati Informatici e coordinata dal Centro Nazionale di Contrasto alla Pedopornografia Online (Cncpo) del Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni di Roma, infatti ha interessato tutto il territorio nazionale.
Attraverso un’attività sotto copertura svolta nell’ambito del contrasto alla diffusione di materiale pedopornografico attraverso la rete, gli agenti di polizia sono entrati in contatto con gli utenti che, apertamente, sulla chat di gruppo, dichiaravano di possedere o pubblicavano materiale pedopornografico, proponendo di scambiarlo con altre persone.
Le tracce informatiche hanno permesso poi di individuare i partecipanti della chat e sopratutto l’amministratore di un canale dove reperire materiale con una iscrizione e pagamento di 25 euro. L’uomo, residente in Calabria, è tra gli arrestati con l’accusa di commercio di materiale pedopornografico aggravato per aver utilizzato strumenti volti a impedirne l’identificazione. Oltre numerosi supporti informatici, gli sono state sequestrate carte di debito/credito e un portafoglio elettronico. Antonio Palma 11 Ottobre 2022 FANPAGE

 


Cene con i boss, cinque cellulari e finte fidanzate: «Noi, infiltrati tra i criminali»

 

Vita (e rischi) degli agenti sotto copertura: i ruoli imparati a memoria, le mosse per avere la fiducia dei malviventi. «Ti mettono alla prova, vietato fallire»

 

«Ero a pranzo con questi sudamericani trafficanti di droga. Commentavano la notizia di un poliziotto colombiano infiltrato che era stato scoperto e “lasciato nella selva”, come dicono loro.
L’avevano sezionato in qualche boscaglia e piantato lì, appunto. Era vero? Era un avvertimento per i presenti? A me il video non l’hanno fatto vedere… Lì non puoi sbagliare. Per dire: non è che puoi diventare rosso! Niente domande, niente reazioni che potrebbero insospettirli.
Devi avere sangue freddo, devi perfino far finta di non capire cosa stanno dicendo. Sai che ti stanno studiando, ti stanno mettendo alla prova. E tu la prova la devi superare, per forza».

La vita degli agenti sotto copertura è così. Sono sempre sotto esame. Sempre costretti a muoversi come se camminassero sull’orlo del burrone. Sempre con un copione da recitare alla perfezione. Vietato sbagliare o dimenticare anche la più piccola battuta. Sono esseri simili ai replicanti di Blade Runner, gli undercover.
Contano su una identità che qualcuno ha costruito per loro e che imparano a memoria, e quando sono in missione dimenticano chi sono davvero. Conta soltanto chi devono essere.

Niky, per esempio: chiameremo così l’uomo di quel pranzo con i narcotrafficanti che parlavano del poliziotto fatto a pezzi. Lui è un agente della guardia di finanza di una città del sud e da più di dieci anni studia, conosce, agisce come undercover contro il traffico nazionale e internazionale di droga.
È il reato sul quale gli infiltrati di tutte le forze di polizia lavorano di più. Ma c’è anche il traffico di armi, il terrorismo internazionale, la tratta di esseri umani, la pedopornografia… Devi avere una grande dedizione per lo Stato e per il tuo lavoro, se metti a disposizione la tua vita per diventare un infiltrato fra gente che, se ti scopre, nella migliore delle ipotesi ti uccide senza farti soffrire troppo. Devi essere preparato, equilibrato, capace di non andare nel panico in situazioni di rischio estremo e paziente davanti a risultati che arrivano dopo mesi, più spesso anni.

«La parte più complicata e difficile è quella iniziale», ci dice Niky, «cioè agganciarli, conquistarsi la loro fiducia, superare la loro diffidenza. Io lavoro sul fronte dei sudamericani che vogliono aprire una porta d’ingresso della cocaina in Italia per poi smistarla in Europa.
Quasi sempre cercano soggetti “puliti” che possano aiutarli. Persone che lavorano nei porti, negli aeroporti, per esempio. E allora è lì che tu ti inserisci nel lavoro di indagine classica fatta fino a quel momento e prepari il terreno, li agganci, ma ripeto: la loro diffidenza è pazzesca, maniacale».

Preparare il terreno e agganciarli, come dice il nostro amico, non è cosa di poco conto. Perché vuol dire preparare e inscenare ruoli, connessioni, attività di lavoro, modi di comportarsi, e tutto questo richiede una preparazione lunghissima e meticolosa. Significa prima di tutto avere una identità di copertura: non hai più il tuo nome ma ti chiami come l’uomo inventato. Sei lui e devi recitare lui: hai in tasca un documento vero che viene creato assieme a una storia che deve essere assolutamente verosimile.
Hai un profilo facebook che risulterà aperto anni prima, hai magari una società tal dei tali che alla Camera di commercio risulta avviata tanto tempo fa, hai una email che ovviamente non può sembrare aperta ieri, hai una storia personale che potrebbe richiede la presenza di una fidanzata/amante (si chiede alle colleghe, in questo caso). E a volte ti tocca recitare anche gli stereotipi del caso: la bella ragazza che ti aspetta sulla macchina lussuosa mentre tu tratti un «affare» di droga, per dirne una. Devi sapere tutto dell’argomento che riguarda il tuo ruolo. Se sei un imprenditore del settore del legno devi avere una cultura sul legno, se ti spacci per istruttore di qualcosa devi esserlo davvero o quantomeno devi studiare moltissimo per sembrarlo veramente.

Naturalmente hai una casa che può diventare rifugio per quelli che stai cercando di incastrare. E, manco a dirlo: mentre sei sotto copertura metti in secondo piano — e a volte dimentichi per lunghi periodi — la famiglia, gli amici, la vita privata e gli interessi di sempre.
Contatti limitatissimi o nulli con chiunque, colleghi compresi. A parte il cosiddetto handler, che è la tua ombra anche se non sta lavorando accanto a te da infiltrato, è il tuo anello di connessione con il mondo (quello reale) e il team investigativo che ti segue sempre, ti copre, ti monitora a distanza e, se è il caso, interviene.

«Un undercover non è mai solo», è il mantra di Sergio, nome in codice di un servitore dello Stato che lavora da tantissimi anni per il Ros dei carabinieri come coordinatore degli agenti sotto copertura.
«Un undercover può contare sempre sull’handler, e poi sulla squadra che non deve mai perderlo d’occhio e, dove è possibile, lo tiene sotto controllo con le intercettazioni ambientali o con gli strumenti addosso all’agente. Ricordo una volta un trafficante colombiano che si è piazzato a casa del nostro agente per 15 giorni. Lì che fai? Non puoi certo chiamare tua moglie e dirle che non torni a casa.
I contatti con la famiglia in quel caso li ha tenuti l’handler che incontrava l’undercover quand’era possibile mentre il nostro infiltrato raccontava al suo ospite di una relazione finita con una ex convivente e si presentava a cena con l’amante, cioè una marescialla».

E a proposito di chiamate: niente telefonini o numeri reali. Solo cellulari di servizio con la rubrica costruita a tavolino come tutto il resto. Sergio racconta di quella volta che i suoi uomini si finsero imprenditori di una società di import/export: hanno studiato ogni cavillo delle regole commerciali per essere esperti credibili e si sono presentati al mondo con le marescialle a fingersi segretarie dell’ufficio.

Situazioni di rischio non previsto? «Una volta decidemmo di far sequestrare in Spagna 200 chili di coca destinati in Italia.
Volevamo allontanare i sospetti sugli italiani e avevamo in quel momento un nostro infiltrato con due dei cattivi, a Milano.
Erano due argentini, un uomo e una donna. All’improvviso i finanziatori dell’importazione finita male, un napoletano e un foggiano, convocarono gli argentini e il garante del trasferimento della droga in Italia, cioè il nostro agente.
L’hanno praticamente sequestrato. Per fortuna avevamo ambientali in casa e abbiamo capito quello che stava succedendo. Li abbiamo agganciati e seguiti da Milano a Roma con l’ansia di perderli… Sono andati in un ristorante a incontrare gli italiani. Li vedevamo gesticolare, stava succedendo qualcosa ma non sapevamo cosa: troppo rischioso, siamo intervenuti e li abbiamo arrestati durante il pranzo».

Insomma: una faticaccia. Stressante e pericolosa. Ma che quasi sempre porta a buoni risultati. Migliaia di chili di droga tolta dalle mani della criminalità organizzata, fiumi i denaro sottratti a operazioni di riciclaggio, carichi di armi bloccate e reti di terroristi e di pedofili scoperte grazie a chi si insinua nelle loro comunicazioni telematiche.

Luca, agente sotto copertura per lo Sco della Polizia di Stato, ha più di 30 anni di servizio e parla spesso con giovani che vogliono seguire la sua stessa strada: «Gli dico sempre che noi siamo attori. Ci dicono “ciak, si gira” e dev’esser buona la prima per forza. Non puoi rifare la scena».

Lui è il primo undercover riuscito a documentare (con telecamere e microspie) la complicità fra alcune Ong e i trafficanti libici di esseri umani (è ancora in corso il processo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina). Si è fatto assumere da una di quelle Ong come addetto alla sicurezza e al soccorso migranti ed è rimasto per più di due mesi sulla nave. Ha il brevetto da istruttore soccorritore ma anche lì: hanno voluto metterlo alla prova. «Mi hanno fatto lanciare in mare per simulare un soccorso a 30 miglia dalla costa libica, acqua nera profonda. Ho visto come tirava la corrente, ho fatto i calcoli… Mi sono lanciato, li ho visti allontanarsi e pensavo: avranno capito? Mi lasciano qui? La corrente mi ha portato via ma sono venuti a riprendermi dopo mezz’ora. Prova superata!».

Se sei nei panni di criminali devi entrare nella loro mente, devi ragionare come loro, anche se il tuo cuore è da poliziotto. Devi esser freddo e, se serve, devi saper improvvisare. Luca racconta di quella volta che non l’hanno scoperto per un soffio. Improvvisazione, appunto.
Un colpo da maestro. «Avevo uno zaino pieno di attrezzatura investigativa» racconta, «che non doveva vedere nessuno e che stavo spostando. Ricoprivo il ruolo di un ufficiale della marina ed ero, anche in quel caso, su una nave. Nessuno di noi sapeva che a un certo punto la procedura prevedeva il controllo dei passeggeri. Davanti ai due che volevano farmi aprire lo zaino pensavo: e adesso che faccio? Ho realizzato in un secondo che dovevo distogliere l’attenzione dallo zaino. Così ho fatto lo sbruffone. Ho detto: sì, sì, apro, non c’è problema, ma forse è il caso che lasciamo perdere; sapete che devo andare dal comandante, vero? Facciamo che faccio finta di non aver sentito. Quei due si sono guardati come per dire: mo’ che facciamo con questo? Ho messo lo zaino in spalla, arrogante. E sono andato».
Maestria, appunto. Luca appoggia sul tavolo cinque telefonini: cinque! E scherza: «Chi sono io oggi? Ah, già… Mario», e ne prende uno. «È stressante, sì», torna serio. «È una cosa che ti consuma, è destabilizzante. Ma alla fine di ogni operazione è anche una soddisfazione bellissima. E non lo cambierei con nessun altro lavoro al mondo». di Giusi Fasano CORRIERE DELLA SERA 7.1.2023 


La CRIMINALITA’ ORGANIZZATA


L’agente sotto copertura

 

Con l’entrata in vigore della “legge spazza corrotti” (legge 3 del 9 gennaio 2019, dal titolo “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche’ in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”) verrà  ampliato il range operativo in materia di operazioni speciali sotto copertura delle forze di polizia, un insidioso strumento investigativo che vale la pena riassumere, brevemente,  nelle sue tante sfaccettature.
In un pregresso approfondimento avevamo trattato alcuni aspetti della sociologia della comunicazione come strumento d’indagine, da qui analizzando alcune tematiche a questa correlate nello scenario delle intercettazioni tattiche  di comunicazioni, fino a trattare l’ utilizzabilità dei tanti frammenti audio video che, con l’avvento delle nuove tecnologie e dei devices elettronici a portata di taschino, sono state riconosciute dalla giurisprudenza quali memorizzazioni foniche di un fatto storico ex art. 234 c.p.p.
Erano stati, anche, offerti alcuni spunti di riflessione riguardo la più recente giurisprudenza sulle immagini, fino all’introduzione del concetto di agente attrezzato per il suono e dell’agente sotto copertura.

 

Sommario
1. Undercover e società moderna
2. Formazione degli agenti sottocopertura, “la menzogna” ed il distress
3. L’agente sotto copertura nella legislazione italiana
4. L’istituto dell’undercover comparato nelle altre realtà internazionali
5. Il contrasto alla corruzione nella Pubblica Amministrazione
6. La riforma dell’undercover con la L. 9 gennaio 2019, n. 3
7. Infiltrato ed agente provocatore: la focale della Corte EdU 

Il fascino delle “légendes”, storie di copertura degli agenti segreti

La storia, attuale ma non troppo, di Maria Adela-Olga, spia russa che lasciò l’Italia nel 2018, ha riacceso l’interesse, anche romantico, del pubblico verso questa forma antica quasi quanto l’essere umano di spionaggio, cioè la raccolta informativa a mezzo agenti infiltrati in territorio amico e non.
Più di recente, nella storia delle due guerre mondiali, hanno agito agenti segreti sotto copertura, donne e uomini. Si trovano nei documenti desecretati di vari archivi nazionali, soprattutto di Londra e Washington. Coperture: le più svariate e fantasiose. Alcune ben riuscite; altre no.
La copertura può servire per avere informazioni utili ma anche per somministrarne di false ove occorra. L’infiltrazione di un agente può infatti avere un duplice scopo.
In guerra forse la più famosa fu quella, nel luglio 1943, organizzata dall’intelligence britannica, per coprire la vera data dello sbarco alleato in Sicilia. Menti brillanti di una speciale sezione dell’intelligence fecero assumere a una persona morta una falsa identità, utilizzandolo come agente provocatore; la corredarono di falsi documenti “top secret” sulle date di sbarco, e in quali luoghi, e ne fecero ritrovare il cadavere dai tedeschi, che ritennero di aver fatto casualmente una importante scoperta frutto, invece, di una brillante azione di controinformazione. I documenti d’archivio inglesi narrano che i nazisti caddero nel tranello.
La copertura spesso più usata, soprattutto in momenti non di conflitto, ma di relativa calma, è sempre stata quella di un’impresa commerciale (esattamente come per la citata Maria Adela, venditrice di gioielli), o di agenzie di stampa delle quali però quasi sempre si è conosciuto il vero lavoro, appunto non solo giornalistico.
A Teheran, negli anni 1975-1986 il bravo corrispondente della Pravda parlava un ottimo farsi oltre all’arabo, e circolava in tutti i ricevimenti occidentali e non. Tutti i diplomatici ben sapevano che apparteneva al Kgb. Non si conoscevano, però, gli altri suoi collaboratori – salvo forse i servizi segreti, e non, dello Shah.
Il problema degli agenti sotto copertura è molto delicato, specialmente in Italia. Non illudiamoci di non aver mai avuto persone che raccoglievano informazioni per i nostri Servizi. Queste, però, non erano in organico nei ruoli amministrativi o militari. Un esempio noto: Francesco Pazienza, ingaggiato alla fine del 1979 dal generale Giuseppe Santovito come consulente del Sismi, in Francia, cioè un informatore ad alto livello, con un nome in codice, Miro. A dire del Pazienza stesso, non fu una esperienza positiva, almeno per lui e non solo, e finì presto, per molte ragioni. Erano certo tempi diversi.
Quale dovrebbe essere il punto fondamentale della svolta che si vuole imprimere nel quadro di una necessaria rivisitazione della legislazione concernente la nostra Agenzia per la Sicurezza esterna (Aise) riguardo a questo modo di operare? Un problema che mai è stato sfiorato in precedenza, almeno ufficialmente. Nell’Agenzia per la Sicurezza interna (Aisi), il metodo degli infiltrati è stato ampiamente usato nella lotta al terrorismo e alla mafia.
Nei vari e lunghi dibattiti parlamentari che hanno preceduto l’approvazione delle leggi 801/1977 e 124/2007, nonché della cosiddetta manutenzione della seconda con la133/2012 (la legislazione che governa attualmente le Agenzie), mai è stato sfiorato il problema di autorizzare personale di ruolo in Aise ad agire da infiltrato con una buona copertura, anche se possibilmente inattivo per molto tempo, attuando quella penetrazione informativa, come ben ricordato da Gabriele Carrer nel suo articolo del 7 settembre.
Non avendo una tradizione operativa nel settore, sarà complesso arrivare a una soddisfacente e chiara regolamentazione del problema in breve tempo; una regolamentazione che preveda per i funzionari dell’Aise la possibilità di impegnarsi in un terreno sul quale, almeno così sembra, non abbiamo esperienza consolidata, dando loro le necessarie garanzie funzionali.
Ben riconoscendo che le serie televisive partono da fatti veri, trattandoli in modo romanzato, bisogna sapere che nella serie francese Le Bureau des Légendes compare più volte il logo della Direction Générale de la Sécurité Extérieure (Dgse – corrisponde alla nostra Aise). Ai tempi durante i quali si stava girando la serie, corse voce che l’istituzione non ne fosse molto contenta, ma poi la stessa decise di dare “una mano” tecnica, in modo che non ci fossero situazioni non credibili, che avrebbero anche potuto, al limite, screditare con il pubblico la stessa Dgse. E infatti il logo ufficiale della Dgse compare spesso nel film. Occorre peraltro notare che quella istituzione si avvale di personale esperto nel settore da molto tempo.
Non è facile creare buone credibili coperture che durino nel tempo e che necessitano, a volte, anni per radicarsi e soprattutto servono menti sopraffine per delinearle.
È vero che attualmente la parte tecnologica dell’intelligence sembra avere il sopravvento sulla Humint, l’intelligenza umana, ma possiamo ben ricordare che spesso, soprattutto in un quadro mediorientale-centroasiatico, è stata la mente umana, anche se aiutata dalla tecnologia, a ottenere brillanti risultati, laddove per tradizione o scarsa conoscenza di mezzi attuali o anche per umana prudenza, le direttive operative per Isis o Daesh o similari organizzazioni sono spesso veicolate a voce o con striminziti foglietti spesso indecifrabili a chi non è della partita.
L’intelligence italiana, che ha peraltro ottimi operatori, deve fare un passo avanti nella modernizzazione, organizzando ancora meglio la propria rete informativa, ricorrendo anche ai sistemi antichi sempre validi. Sembra una contraddizione i termini ma non lo è. Questo concetto sembra ormai essersi ben radicato là dove si fa intelligence.

 


L’agente sotto copertura nel DDL anticorruzione

 

Il disegno di legge intitolato “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione” (c.d. ddl “spazzacorrotti”), approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 6 settembre, propone di introdurre nel nostro ordinamento la figura dell’agente sotto copertura, o agente infiltrato, anche per i delitti di corruzione.
Nell’affrontare questo tema si terrà conto della bozza del testo del disegno di legge, non essendo stata ancora diffusa la versione formalizzata dal Consiglio dei Ministri.
 
Lo spirito del progetto di legge

In generale, le proposte del disegno di legge mirano a rafforzare la normativa già esistente per il contrasto alla corruzione al fine di debellare questo fenomeno e accrescere la credibilità e la competitività del nostro Paese sul piano internazionale.

Le misure maggiormente significative, ma non per questo innovative, consistono nell’aumento di pena per il reato di corruzione nell’esercizio delle funzioni (art. 318 c.p.); nel rafforzamento della misura della interdizione a contrarre con la Pubblica Amministrazione (c.d. “daspo” contro ai corrotti) già prevista nell’attuale art. 32 ter c.p.; nella introduzione di pene miti e di “clausole di non punibilità” per chi denuncia i corrotti o fornisce prove di reati di corruzione; nella confisca dei beni anche in caso di amnistia o prescrizione, se si è stati condannati almeno in primo grado; nella perdita dell’anonimato per chi fa donazioni a partiti, fondazioni o altri organismi politici; e, non da ultimo, nella possibilità di utilizzare agenti sotto copertura anche per i reati di corruzione.

L’agente sotto copertura e l’agente provocatore: possibili differenze

L’agente sotto copertura, o infiltrato, è un appartenente alla polizia giudiziaria che penetra in una organizzazione criminale, partecipando alla commissione di qualche reato, per acquisire elementi di prova nell’immediatezza del fatto o nel momento in cui l’attività criminosa è in corso di esecuzione.

Entro determinati limiti, la sua attività è giustificata o, più tecnicamente, scriminata dall’art. 51 del codice penale ai sensi del quale “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità”. Norma che deve però essere letta contestualmente alla disposizione di cui all’art. 55 c.p. che punisce chi eccede colposamente nell’esercitare un proprio diritto o adempiere ad un dovere legittimamente imposto.

Non appare sempre chiara la distinzione tra l’infiltrato e l’agente provocatore, colui cioè che istigando od offrendo l’occasione, provoca la commissione di reati al fine di coglierne gli autori in flagranza o, comunque, al fine di farli scoprire e punire. Quest’ultima figura mal si concilia con i principi che governano il nostro ordinamento sia perché la finalità di scoprire gli autori del reato non rappresenta né una giustificazione, né una scusante per la commissione di reati da parte di agenti di polizia sia perché l’autorità giudiziaria ha l’obbligo di perseguire i reati consumati, ma non di suscitare azioni criminose ancorché finalizzate a ragioni di giustizia.

Per questi motivi, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha precisato che l’attività dell’agente provocatore è ammissibile nelle sole ipotesi in cui la sua opera si limita alla osservazione, al controllo e al contenimento delle altrui condotte criminose, o, comunque, non suscita nuovi propositi criminosi, ma offre soltanto l’occasione di acquisire elementi di prova e scoprire reati che sono già stati commessi. L’infiltrato non può in alcun modo suscitare in altri un proposito criminoso o concorrere alla sua concreta realizzazione.

Sulla base di questa definizione le due figure sembrano coincidere ed è forse per questa ragione che sovente i termini di “agente sotto copertura” e “agente provocatore” vengono considerati e utilizzati in maniera sinonimica.

In definitiva, che lo si chiami nell’uno o nell’altro modo, l’agente deputato a indagini di questa natura non è punibile se si limita ad osservare, controllare e contenere i comportamenti illeciti altrui con la conseguenza che al di fuori di questo perimetro la sua attività potrebbe essere qualificata in termini di reato, salvo espressa indicazione normativa.

Previsioni normative

Ad oggi, il legislatore giustifica l’attività sotto copertura in determinati settori. A titolo esemplificativo: disciplina delle sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 97, d.P.R. n. 309/1990), contrasto al terrorismo (art. 4, l. n. 438/2001), criminalità organizzata transnazionale (art. 9, l. n. 146/2006) e sicurezza (artt. 17-29, l. n. 124/2007).

La materia delle operazioni sotto copertura è stata riorganizzata con l’art. 9 della l. 16 marzo 2006, n. 146 e successive modificazioni. Questa disposizione esclude la punibilità per “gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle proprie competenze, i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova” in ordine, ex plurimis, ai reati di estorsione, sequestro di persona, usura, riciclaggio, ai delitti concernenti armi, munizioni, esplosivi, ai delitti in materia di immigrazione, di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, ecc., i quali pongono in essere le seguenti attività: dare rifugio o prestare assistenza agli associati, acquistare, ricevere od occultare denaro, armi, documenti, sostanze stupefacenti o psicotrope, beni ovvero che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza.

L’art. 5 del disegno di legge in esame aggiunge alle operazioni appena elencate la possibilità di accettare l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità; corrispondere denaro o altra utilità in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri; promettere o dare denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio o sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio o per remunerarlo.

La norma è stata salutata come attesa attuazione della Convenzione ONU di Merida adottata dalla Assemblea Generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4 e ratificata dallo Stato italiano con l. 3 agosto 2009, n. 116.

L’art. 50 della Convenzione ONU auspica infatti che gli Stati aderenti, per combattere efficacemente la corruzione, “nei limiti consentiti dai principi fondamentali del proprio ordinamento giuridico interno, e conformemente alle condizioni stabilite dal proprio diritto interno”, adottino le misure necessarie e “altre tecniche speciali di investigazione, quali la sorveglianza elettronica o di altro tipo e le operazioni sotto copertura entro il suo territorio”.

Profili problematici

Salvo successive modifiche, così formulata, la disposizione sulle operazioni undercover potrebbe destare non poche perplessità in ordine alla responsabilità dell’agente infiltrato nella realizzazione degli stessi reati che dovrebbe svelare e alla tenuta della norma sul piano processuale.

Ed invero, costituisce parte integrante della fattispecie della concussione ex art. 317 c.p. la condotta dell’agente che promette denaro o altra utilità richiesti da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio; così come compone il reato di traffico illecito di influenze ex art. 346 bis c.p. la promessa o l’effettiva consegna di denaro o altra utilità sollecitati come prezzo della mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.

Ebbene, i reati di corruzione e concussione sono necessariamente plurisoggettivi nel senso che per la loro consumazione è essenziale che si instauri una dinamica di prestazione e controprestazione tra almeno due soggetti: chi chiede denaro o altre utilità, chi promette e/o consegna quel denaro o l’altra utilità.

I dubbi che scaturiscono dalla lettura del disegno di legge attengono al fatto che lo stesso agente sembra rappresentare la parte essenziale di quella dinamica e la sua attività potrebbe integrare fatti di reato rispetto ai quali, come indicato nell’incipit dell’art. 9 della l.n. 146/2006, dovrebbe “solo acquisire elementi di prova”.

In concreto, rispetto a quell’aula di tribunale con cui ogni legislatore dovrebbe confrontarsi, l’efficacia della norma potrebbe mostrarsi fragile perché se l’agente sotto copertura realizza una delle prestazioni che configurano il delitto di corruzione, concussione o traffico illecito di influenze, potrebbe risultare difficile sia stabilire se, senza la sua partecipazione, il reato sarebbe comunque giunto a giuridica esistenza, sia raccogliere prove autentiche secondo lo spirito della legge che il ddl mira ad integrare.

È vero che la norma punta ad attuare l’art. 50 della Convenzione di Merida ma proprio questa disposizione impone a ciascun Stato di considerare “i limiti consentiti dai principi fondamentali del proprio ordinamento giuridico interno e le condizioni stabilite dal proprio diritto interno”.  Pubblicato il 12/09/2018 di Ester Molinaro TRECCANI


Undercover operations: l’agente sotto copertura e l’agente provocatore

 

Le operazioni sotto copertura suscitano da anni l’attenzione non solo degli operatori del diritto, ma anche di registi e sceneggiatori. Siamo oramai abituati a vedere in film o serie tv questo tipo di operazioni di polizia. Cerchiamo di vedere, con le lenti del giurista, cosa sono e che cosa è consentito fare nel nostro ordinamento a chi effettua le undercover operations.

Innanzitutto, bisogna effettuare una fondamentale distinzione: l’agente sotto copertura o infiltrato, da un lato, e l’agente provocatore, dall’altro. Tale ripartizione si rende necessaria in quanto il primo è lecito e pienamente utilizzabile, mentre il secondo è ritenuto contra ius dalla Corte di Strasburgo[1]e, a cascata, dalla giurisprudenza nazionale.

Cerchiamo di capire il perché analizzando alcune differenze fra queste due figure.

In primo luogo, l’agente sotto copertura si colloca all’interno di un procedimento penale già avviato e, quindi, presuppone l’esistenza di una notizia di reato a monte del suo operato.

Il provocatore, invece, agisce prima e a prescindere dall’acquisizione di una notitia criminis.

Ne deriva che mentre l’infiltrato non fa altro che insinuarsi nel tessuto criminale osservando e disvelando un reato, l’agente provocatore dà origine a un reato che senza il suo intervento di istigatore non si sarebbe mai verificato nella realtà storica.

Oltre agli elementi che li differenziano, agente provocatore ed infiltrato hanno anche dei tratti comuni.

Ad esempio il contesto in cui agiscono, i c.d. reati di criminalità organizzata: entrambi costituiscono, infatti, l’insostituibile fattore umano indispensabile per capire quali siano le intenzioni di un’organizzazione criminale, nonché il relativo radicamento sul territorio, le gerarchie interne, la forma mentis ed il modus operandi degli affiliati.

In genere, ambedue queste figure utilizzano, com’è ovvio supporre, identità e documenti di copertura o fittizi e le operazioni in esame devono necessariamente essere svolte da agenti di p.g. o da loro ausiliari in specifiche operazioni di polizia e per specifici reati previsti ex lege.

Dal punto di vista normativo, il Legislatore ha iniziato ad interessarsi al tema nel 1990 e, segnatamente, con il T.U. in materia di stupefacenti ossia il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 che agli artt. 97 e 98 ha previsto le attività sotto copertura nelle indagini antidroga.

L’ambito operativo di questo tipo di strumenti investigativi è stato ampliato nel corso degli anni fino a ricomprendere: sequestro di persona a scopo di estorsione (L. 15 marzo 1991, n. 82), contrasto al traffico di armi (L. 7 agosto 1992, n. 356), usura e riciclaggio (L. 18 febbraio 1992, n. 172), reati di pedo-pornografia, prostituzione minorile, riduzione in schiavitù e turismo sessuale (L. 3 agosto 1998, n. 269), contrasto al crimine organizzato internazionale e transnazionale (L. 15 dicembre 2001, n. 438) e, infine, alcuni reati contro la p.a. (L. 9 gennaio 2019 n. 3).

Questa l’evoluzione normativa dell’istituto.

Inoltre, è da segnalare la riforma organica effettuata con L. 16 marzo 2006, n. 146 che all’art. 9 delinea compiutamente l’attuale disciplina delle operazioni sotto copertura.

L’attività dell’agente infiltrato deve, quindi, mantenersi allo stato di mero controllo, osservazione e contenimento dell’altrui condotta criminosa in quanto laddove sfociasse in istigazione a commettere delitti si trasformerebbe in quella dell’agente provocatore.

Cosa può fare l’infiltrato? Sicuramente non ha licenza di uccidere.

Le prerogative dell’agente sotto copertura sono tassativamente elencate all’art. 9, L. n. 146/2006 il quale chiarisce che dette condotte sono non punibili solo se effettuate nel corso di specifiche operazioni di polizia e al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti previsti.

In primis, l’infiltrato può omettere o ritardare gli atti di rispettiva competenza. Sugli agenti di p.g. incombe, infatti, l’art. 55 c.p.p. che esprime il concetto di ordine pubblico[2] e l’art. 328 c.p. sull’omissione di atti d’ufficio e, pertanto, se costoro non fossero facoltizzati a ritardare l’arresto non avrebbe senso alcuno l’operazione sotto copertura.

Gli agenti possono, inoltre, dare rifugio o comunque prestare assistenza agli associati ex art. 9, comma 1, lett. a), L. 146/2006.

Particolarmente delicata è la questione concernente un certo tipo di operazioni che gli è consentito svolgere: gli infiltrati acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego[3].

In altri termini: possono commettere reati, rectius azioni che se non fossero espressione di specifiche operazioni di polizia sotto copertura integrerebbero sic et simpliciter condotte meritevoli del disvalore delle fattispecie penali.

Con la legge c.d. “spazzacorrotti” (L. n. 3/2019) il Legislatore ha esteso il raggio d’azione dell’infiltrato[4] anche ad alcuni reati contro la p.a. di particolare allarme sociale (quali corruzione, induzione indebita, concussione, etc.).

A questo punto sorge spontanea un’altra domanda, e cioè se e fino a che punto l’agente provocatore e l’agente infiltrato siano scriminati.

La giurisprudenza ha chiarito che la loro condotta ‘‘è scriminata per adempimento del dovere solo se non si inserisca con rilevanza causale nell’iter criminis, ma intervenga in modo indiretto e marginale concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui”. [5]

Inoltre la giurisprudenza di legittimità ha affermato che non può farsi derivare dall’obbligo previsto “dall’art. 55 c.p.p., l’esclusione della responsabilità dell’agente provocatore, poiché è adempimento di un dovere perseguire i reati commessi, non già di suscitare azioni criminose al fine di arrestarne gli autori” (Cass. pen., sez. 4, 21 settembre 2016, n. 47056).

Sinteticamente può, dunque, affermarsi che l’infiltrato è sempre scriminato, ma solo nel caso in cui compia le prerogative tassativamente tipizzate dall’art. 9, L. 146/2006.

Il provocatore, invece, non è espressamente scriminato, ma bisogna segnalare che non è sempre penalmente rilevante ciò che egli ponga in essere: bisogna analizzare caso per caso.

Ad esempio, è stata affermata dalla giurisprudenza la penale responsabilità di agenti provocatori i quali, in operazioni antidroga, non si erano limitati ad acquistare e detenere, bensì avevano venduto la sostanza stupefacente (Cass. pen., sez. 3, 15 gennaio 2016, n. 31415).

Si faccia un altro esempio. Poniamo il caso in cui un agente si finga un imprenditore e faccia una proposta corruttiva ad un politico. [6] Nel caso in cui quest’ultimo non accettasse nulla questio.

Nel caso in cui il politico abbia, invece, accettato l’offerta vi sarebbe la configurazione di un qualche reato? Indubbiamente no.

In particolare, né provocatore né provocato sono punibili in quanto, senza neanche dover scomodare il reato impossibile di cui all’art. 49, comma 2. c.p. per inidoneità della condotta, rientrano nel perimetro del famoso brocardo latino cogitationis poenam nemo patitur. [7]

Non sembra comunque compatibile con l’impostazione dello Stato di Diritto, democratica e liberale, quella di uno Stato intento ad istigare e saggiare sotto mentite spoglie l’onestà dei propri dipendenti pubblici, anche se ben potrebbe utilizzarsi questa tecnica di integrity testing ad esempio a livello giornalistico.

Per quanto concerne il profilo operativo, è necessario porre in evidenza alcuni aspetti essenziali di come si svolgono questo tipo di operazioni di polizia.

In primis, è indispensabile mantenere un costante monitoraggio dell’agente infiltrato per salvaguardarne l’incolumità durante la fase attiva del contatto con il crimine organizzato: anche con prossimità di forze pronte a soccorrere l’agente in caso di emergenza.

Di non poco momento è poi l’importanza di uno specifico addestramento dell’agente in questione.

Il riferimento è tanto ad una specifica preparazione a vivere in contesti criminali particolarmente pericolosi quanto e soprattutto ad una specifica formazione culturale: ad esempio, un infiltrato che voglia fingersi un imprenditore intenzionato a contrattare con la p.a., in indagini per reati corruttivi, necessita di indispensabili conoscenze tecniche e lessicali dell’ambiente nonché di contatti personali, disponibilità economiche, etc.

Quest’ultimo aspetto ci porta ad una questione problematica che riguarda in particolar modo le operazioni sotto copertura per reati contro la p.a.

Come può un agente di polizia fingersi, in modo credibile, un imprenditore che voglia aggiudicarsi un appalto, una concessione o un affidamento diretto di rilevante consistenza economica o addirittura di livello nazionale o europeo? Sembra oltremodo difficile costruire un passato fittizio di imprenditore con tanto di azienda avviata nel settore, da rifilare ad un pubblico ufficiale competente. [8]

Si pensi poi al caso in cui vari imprenditori costruiscano un sistema con il quale corrompono il pubblico funzionario che redige il capitolato di un appalto in modo da avere dei requisiti confacenti alle loro imprese (il c.d. “abito sartoriale” o su misura)[9] creando così una lobby che si spartisce ogni anno il medesimo appalto.

Come sarebbe credibile agli occhi di veri imprenditori un infiltrato la cui azienda in realtà non esiste!? La soluzione è offerta dalla stessa normativa in quanto le udercover operations possono essere svolte non solo da un agente di polizia giudiziaria tout court, bensì anche da un suo ausiliario.

Utilizzando un vero imprenditore o un vero appartenente ad un’organizzazione criminale, mafiosa o di narcotraffico, l’operazione diventa indubbiamente più efficace rispetto a quella di un agente di polizia al quale servirebbero innumerevoli e costosi corsi di formazione e passati virtuali di non sempre facile costruzione.

In conclusione, può affermarsi che mentre l’infiltrato costituisce un irrinunciabile strumento investigativo, soprattutto nell’azione di contrasto per certi tipi di reato, il provocatore è, invece, una figura troppo controversa per essere introdotta nel nostro ordinamento, almeno per il momento.

[1]                    Sul punto, “in the fight against crime cannot justify the use of evidence obtained as a result of police incitement”, cfr. Corte eur. dir. uomo, 9 giugno 1998, Teixeira de Castro c./Portugal; Corte eur. dir. uomo, 27 ottobre 2004, Edward & Lewis c./UK: il quale, ai sensi dell’art. 117 Cost., costituisce principio di diritto vincolante nel nostro ordinamento; a livello nazionale, Cass. pen., sez. 4, 21 settembre 2016, n. 47056.  

[2]                    Art. 55, comma 1, c.p.p.: “la polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale”.

[3]                    Preme sottolineare come queste prerogative, essendo tassative, non sono analogicamente interpretabili.

[4]                    Nel contratto di Governo al punto 15 era prevista l’introduzione dell’infiltrato e “la valutazione della figura dell’agente provocatore”: nella legge definitiva è poi confluito il solo infiltrato.

[5]                    Cfr., Cass. n. 10695/2008; n. 14677/2002; n. 11634/2000; n. 2890/1988; n. 10849/1975; n. 311/1969.

[6]                    Negli USA sono soliti utilizzare gli integrity testing effettuati in undercover operations o in inchieste giornalistiche, vedi P. Davigo, Il sistema della corruzione, Laterza, Bari, 2017, 62.

[7]                    Diversamente opinando si finirebbe per ripristinare la dottrina della colpa d’autore che si sviluppò nella Germania nazista attorno agli anni ’40 del secolo scorso in base alla quale si era colpevoli per la mera propensione al delitto.

[8]                    Così, F. Cardella, Corruzione e sistema mafioso, in Nova Itinera. Percorsi del diritto nel XXI secolo, Nuova scienza s.r.l., Roma, 2017, III, 11.

[9]                    Al riguardo, R. Cantone, E. Carloni, Corruzione e Anticorruzione. Dieci lezioni, Feltrinelli, Milano, 2018, 62

29.7.2019 IUSITINERE