CASSAZIONE – Processo Dell’Utri

 

Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 9 maggio 2014, n. 28225

RITENUTO IN FATTO

1. L’11 dicembre 2004 il Tribunale di Palermo dichiarava Marcello Dell’Utri colpevole dei reati a lui contestati (artt. 110, 416 c.p.; artt. 110, 416-bis c.p.) e lo condannava alla pena di nove anni di reclusione, oltre alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena. Disponeva, inoltre, che, a pena, espiata, Dell’Utri venisse sottoposto alla libertà vigilata per due anni. Lo condannava (in solido con il coimputato Gaetano Cinà) alla rifusione delle spese e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili Provincia Regionale di Palermo e Comune di Palermo da liquidarsi in separato giudizio, rigettando le richieste di pagamento di provvisionali immediatamente esecutive.

2. Le imputazioni oggetto della sentenza di condanna erano così formulate:

capo a): per il periodo decorso da epoca imprecisata fino al 28 settembre 1982, concorso eventuale (o c.d. esterno) nella associazione per delinquere ex art. 416, commi 1, 4 e 5 c.p., denominata “cosa nostra”, mettendo a disposizione della stessa l’influenza e il potere derivante dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, in tal modo partecipando al mantenimento ed al rafforzamento, oltre che alla espansione della associazione medesima: ciò attraverso la partecipazione a incontri con esponenti anche di vertice di cosa nostra, e intrattenendo, tramite essi (ossia tramite Bontade Stefano, Teresi Girolamo, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Mangano Vittorio, Città Gaetano, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele e Riina Salvatore), rapporti continuativi con l’associazione e, quindi, determinando nei capi di “cosa nostra” la consapevolezza della assunzione di responsabilità, da parte del Dell’Utri medesimo, di assumere condotte volte ad influenzare, a vantaggio della associazione per delinquere, soggetti operanti nel mondo istituzionale e imprenditoriale;

con le aggravanti dell’essere l’associazione armata e del numero dei partecipanti superiore a dieci;

b): per il periodo trascorso dal 28 settembre 1982 ad oggi, concorso esterno nell’associazione mafiosa “cosa nostra” (art. 416-bis commi 1, 4, 6, c.p.), con condotte analoghe a quelle descritte sopra; con le aggravanti dello “scorrere in armi” e del finanziamento delle attività del sodalizio con il provento dei delitti.

3. Il 29 giugno 2010 la Corte d’appello di Palermo, in riforma della decisione di primo grado, appellata dall’imputato e, incidentalmente, dal Procuratore della Repubblica di Palermo, così statuiva:

dichiarava assorbita l’imputazione di cui al capo a) in quella di cui al capo b);

assolveva, perché il fatto non sussiste, Marcello Dell’Utri, limitatamente alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 e, per l’effetto, riduceva la pena a sette anni sette di reclusione.

Confermava, nel resto, la sentenza appellata.

Condannava Dell’Utri alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili Provincia Regionale di Palermo e Comune di Palermo.

4. Il 9 marzo 2012 la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, investita dei ricorsi del Procuratore generale presso la Corte d’appello e di Marcello Dell’Utri avverso la sentenza d’appello, dichiarava inammissibile il ricorso del Procuratore Generale e annullava, nei limiti di seguito precisati, la sentenza impugnata nel capo relativo al reato del quale l’imputato era stato dichiarato colpevole, rinviando, per nuovo giudizio su di esso, ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.

5. L’ambito del devolutum riguardava tre profili.

5.1. Innanzitutto spettava al giudice del rinvio esaminare nuovamente e fornire una diversa motivazione in ordine alla configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, anche nel periodo di assenza dell’imputato dall’area imprenditoriale “Fininvest” e società collegate (periodo intercorso, secondo la sentenza impugnata, tra il 1978 e il 1982). Il relativo vuoto argomentativo, tradottosi in un vizio della motivazione, doveva essere colmato con la specifica indicazione di quale fosse stato il comportamento, nel suddetto lasso di tempo, da parte di Dell’Utri, non potendosi dare ingresso a presunzioni basate sulla bontà dei rapporti di amicizia con Berlusconi. Tali rapporti, infatti, non potevano, da soli, provare il perdurare della intromissione di Dell’Utri in affari penetranti per la vita individuale dell’imprenditore dal quale si era allontanato in assenza della precisazione della causale delle concrete modalità del concorso nei versamenti, che la sentenza rescindente riteneva effettivamente avvenuti, anche ad opera di terzi, a partire dal 1978.

La significatività e concludenza del comportamento asseritamente tenuto da Dell’Utri a proposito della c.d. “messa a posto delle antenne” in epoca successiva al 1980 non era sorretta da adeguata motivazione e da un quadro probatorio di univoca concludenza. Tale iniziativa, secondo l’assunto accusatorio, veniva, infatti, a collocarsi in un periodo nel quale, già da un apprezzabile lasso di tempo (dagli inizi del 1978), l’imputato aveva interrotto i rapporti professionali (anche se non amicali) con l’area imprenditoriale che faceva riferimento a Berlusconi, per essere assunto, su sua iniziativa, da un altro imprenditore, Filippo Rapisarda, alle cui dipendenze avrebbe lavorato per circa tre anni, ossia fino a tutto il 1980. La Corte di Cassazione censurava l’incompletezza della motivazione relativa a tale vicenda, caratterizzata da una mera ricognizione del fatto e dalla omessa specificazione del comportamento che, in relazione alla esecuzione dell’accordo favorito alcuni anni prima, Dell’Utri avrebbe materialmente continuato (o meno) a tenere, nel ruolo di agevolazione della esecuzione della parte patrimoniale dell’accordo.

Rilevava, inoltre, che i giudici di merito non avevano precisato quale sarebbe stata, nel concreto, l’attività posta in essere dall’imputato, nella direzione della agevolazione e del rafforzamento del consorzio mafioso. Invero, dalle dichiarazioni rese sul punto da Di Carlo – principale fonte dichiarativa dell’accusa – emergeva genericamente un interessamento di Dell’Utri sulla questione, mentre da quelle del collaboratore di giustizia Galliano – privilegiate sul punto dalla Corte d’appello – risultava l’assenza di pagamenti da parte di Berlusconi in favore di “cosa nostra” per la messa a posto delle antenne, essendo tenuti a provvedervi autonomamente, semmai, i titolari degli impianti locali (cfr. pag. 110).

5.2. In secondo luogo il giudice del rinvio doveva verificare la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso con riferimento al periodo 1983-1992, decorrente dal ritorno di Marcello Dell’Utri in “Publitalia”. Da un punto di vista oggettivo veniva ritenuta provata la prosecuzione dei pagamenti da parte di Berlusconi a “cosa nostra” negli anni ’80 sulla base della causale del patto di protezione con la mafia. Al riguardo si trattava di stabilire soltanto se si fosse trattato di una prosecuzione senza soluzione di continuità, pur dopo l’allontanamento di Dell’Utri, ovvero di una ripresa dopo un’interruzione.

La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione riteneva, invece, sussistente un vizio di carenza della motivazione e di manifesta illogicità con riguardo alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso relativamente al suddetto lasso temporale (cfr. f. 127).

Le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, unitamente ad eventi oggettivi, quali gli attentati subiti da Berlusconi nel suddetto periodo di tempo, dimostravano «elementi di una certa torsione o avvitamento dei rapporti fra le parti interessate, all’interno dei quali quei pagamenti avrebbero dovuto essere… nuovamente interpretati e valutati» (cfr. f. 121 della sentenza di annullamento).

In particolare veniva rilevato una carenza di motivazione in ordine ai seguenti aspetti.

L’attentato alla villa di via Rovani subito da Berlusconi nel novembre 1986 aveva ingenerato nell’interessato la convinzione che fosse opera di “cosa nostra” e, invece, dubbi iniziali in Dell’Utri circa l’effettiva paternità dell’azione.

Dalle dichiarazioni di Galliano risultava che, nel corso di un incontro con mafiosi nel 1986, il collaboratore aveva sentito Cinà lamentarsi e dire che non voleva più recarsi a Milano a riscuotere, per conto di “cosa nostra”, le somme da Dell’Utri, dato quest’ultimo era divenuto con lui scostante. Di tale situazione di stallo era stato informato Salvatore Riina, fino a quel momento all’oscuro di tutto, ed il capo mafioso aveva deciso di replicare al detto atteggiamento con iniziative intimidatorie (effettivamente poste in essere nel 1987) sì da ottenere, da un lato, la riconsiderazione della posizione di Cinà presso Dell’Utri e, dall’altro, il raddoppio della somma versata da Berlusconi, per il tramite di Dell’Utri, in cambio della protezione.

Nel corso della conversazione telefonica intercettata nel dicembre 1986 Cinà commentava con Alberto Dell’Utri (fratello dell’imputato) il comportamento di Marcello Dell’Utri che era solito farlo aspettare o addirittura sparire per evitarlo.

Con riferimento al periodo 1984-1985, Calogero Ganci riferiva, per averlo appreso dal padre Raffaele, capo-mandamento, delle lamentele esternate a Cinà da parte di Dell’Utri. Quest’ultimo, nell’effettuare i pagamenti, si era detto “tartassato” dai fratelli Pullarà, uno dei quali era diventato il reggente della “famiglia” mafiosa del Gesù al posto di Bontade, dopo la uccisione di quest’ultimo. I Pullarà avevano iniziato a riscuotere le somme, prima percepite da Bontade, ma poi erano stati estromessi da Rina che aveva affidato il relativo incarico a Cinà.

Il collaboratore di giustizia Anzelmo riferiva circostanze in buona parte analoghe a quelle descritte da Calogero Ganci e Galliano.

Gli attentati di matrice mafiosa, posti in essere nel 1990 ai danni dei magazzini “Standa” di Catania appartenenti a “Fininvest” (svalutati dalla Corte territoriale) andavano sottoposti a nuova valutazione alla luce dei rilievi difensivi circa il fatto che essi potevano rappresentare l’espressione di un rapporto tra Berlusconi e la mafia non più regolato da un patto di reciproco interesse (sia pure necessitato per il primo) e costituire, di riflesso, l’espressione (non rileva se quale causa o effetto) di un rapporto di Dell’Utri con “cosa nostra” non più convergente nel perseguimento di comuni interessi. Su tale considerazione influiva anche il mutato assetto, all’interno di “cosa nostra”, degli equilibri esistenti all’epoca di conclusione dell’accordo del 1974, in quanto nel 1981 era intervenuta la morte violenta o per lupara bianca dei vertici mafiosi (Bontade e Teresi) che avevano concluso quell’accordo, di cui si erano anche resi garanti, ed era subentrata una direzione del sodalizio di stampo mafiosa assai più aggressiva, artefice, in seguito, della stagione stragista.

La Corte territoriale non aveva reso alcuna logica motivazione sui temi appena ricordati e aveva trascurato una compiuta analisi di quello che appariva un rapporto estremamente teso tra Dell’Utri, riluttante ai pagamenti, e i vertici mafiosi del dopo-Bontade: i Pullarà, descritti come fonti di vessazione dall’interlocutore, e, quindi, Riina autore di repliche perentorie e/o di attentati.

Alla carenza di motivazione sui profili in precedenza ricordati si accompagnava una manifesta illogicità dell’argomentazione con la quale la Corte territoriale aveva sostenuto che l’attentato alla villa di via Rovani non aveva avuto la capacità di mutare l’atteggiamento psicologico di Dell’Utri, dovendosi l’azione intendere solo come prassi della consorteria mafiosa, volta a non far allentare la tensione con la propria vittima, onde evitare che questa cessasse di pagare il prezzo delle estorsioni (cfr. p. 122 della sentenza di annullamento).

Qualificando Marcello Dell’Utri (che, secondo il racconto dei collaboratori, appariva recalcitrante e scostante nei pagamenti) come vittima da “tenere sulla corda” al pari di Berlusconi, sarebbe irrazionale affermare, al contempo, il concorso esterno dell’imputato Dell’Utri nell’associazione di stampo mafioso che esercitava quelle pressioni anche contro di esso.

I numerosi elementi problematici in precedenza evidenziati e concernenti essenzialmente i comportamenti riluttanti di Dell’Utri verso “cosa nostra”, nonché gli attentati realizzati ai danni di beni privati e inerenti all’attività imprenditoriale di Berlusconi, richiedevano una valutazione e una motivazione non solo parcellizzate ma anche – salvo un apposito e rinnovato ragionamento dimostrativo del contrario – unitarie e complessive, tali cioè da dare il senso compiuto, sul piano argomentativo, di elementi probatori e normativi apparentemente contrapposti. Da un lato, la registrazione di una condotta, da parte di Dell’Utri, che si risolveva, oggettivamente, in un arricchimento di “cosa nostra”, ma che, negli anni ’80 appariva divenuta riottosa e recalcitrante, oltre che punteggiata da recriminazioni e atteggiamenti ostruzionistici nei riguardi degli esponenti o emittenti del sodalizio e, inoltre, in un contrappunto alquanto equivoco con gli attentati anche dinamitardi dalla evidente carica intimidatoria. Dall’altro lato, il rigore della prova del dolo diretto che non ammette presunzioni e richiede che, anche in ordine ai comportamenti appena rievocati, possa darsi una spiegazione compatibile e in linea con la tesi dell’avere dell’Utri accettato e perseguito l’evento del rafforzamento del sodalizio mafioso, recando un contributo alla realizzazione del programma comune.

È, infatti, evidente che se la prova di tale finalizzazione può essere ed è, in genere, di carattere essenzialmente logico, non per questo essa può essere inferiore allo standard richiesto per superare il ragionevole dubbio e, ancor meno, può essere ritenuta acquisita negando o misconoscendo la valenza di emergenze che si connotano, all’apparenza, come segni del contrario e, cioè, di una possibile caduta della precedente unitarietà di intenti.

Il ragionamento seguito dalla Corte territoriale appariva insufficiente: infatti, anziché motivare sulle cause di certe “prese di distanza” da parte di Dell’Utri nei confronti di “cosa nostra”, anche in costanza degli attentati, la sentenza cassata si soffermava sulle conseguenze delle prime e dei secondi e sulla asserita significatività della ripresa di contatti tra le parti, “nonostante” quegli eventi.

5.3. All’esito di una nuova valutazione, da parte del giudice del rinvio, degli elementi acquisiti, potevano porsi tre alternative con riferimento all’apparente interruzione degli stretti rapporti precedentemente instaurati da Marcello Dell’Utri con Silvio Berlusconi: a) il passaggio di Dell’Utri alle dipendenze di Rapisarda poteva essere espressione della cessazione della permanenza del reato fino a quel momento consumato, con evidenti riflessi sul computo del termine prescrizionale; b) poteva, al contrario, risultare compatibile con il costrutto accusatorio alla stregua di un diverso iter argomentativo, e) poteva, infine, ritenersi, in presenza di elementi probatori effettivamente dimostrativi in tal senso, che alla manifestazione della cessazione del reato permanente avesse fatto seguito una ripresa della condotta illecita costituente violazione degli artt. 110, 416-bis c.p., da valutare in una relazione di “continuazione” ex art. 81 c.p., con quella precedente e cessata una prima volta.

Le ipotesi formulate ai precedenti punti b) e c) erano destinate ad incidere in pejus sui termini della prescrizione, decorrenti dall’ultima delle condotte dell’imputato, motivatamente ritenute dal giudice manifestazione della protrazione della condotta illecita sia sotto l’aspetto oggettivo che sotto quello soggettivo (cfr. f. 119 della sentenza del 9 marzo 2012).

6. La Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione riteneva, invece, provato in tutti i suoi elementi costitutivi, fino al 1978, il delitto di cui agli artt. 110 e 416 c.p. la cui configurabilità dogmatica sia sotto il profilo del concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso che sotto quello del concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso non era stata contestata neppure dalla difesa. Sul punto, pertanto, si è formato il giudicato interno.

Costituiva espressione del concorso esterno da parte dell’imputato nella associazione criminale denominata “cosa nostra”, facente capo, nella metà degli anni ’70, anche a Bontade e Teresi, il comportamento tenuto da Marcello Dell’Utri, consistito nell’avere favorito e determinato – avvalendosi dei rapporti personali di cui già a Palermo godeva con i boss (vedi dichiarazioni di Di Carlo citate retro a pag. 25, con rinvio a pag. 262 sent. imp.) e di un’amicizia in particolare che gli aveva consentito di caldeggiare la propria iniziativa con speciale efficacia presso quelli – la realizzazione di un incontro materiale e del correlato accordo di reciproco interesse, tra i boss mafiosi (nella loro posizione rappresentativa) e l’imprenditore amico (Silvio Berlusconi).

L’imputato risultava avere svolto un ruolo di “mediazione” nel creare il canale di collegamento o, se si vuole, di comunicazione e di transazione che doveva essere parso, a tutti gli interessati e ai protagonisti della vicenda, fonte di reciproci vantaggi per i due poli: il vantaggio, per l’imprenditore Berlusconi, della ricezione di una schermatura rispetto ad iniziative criminali (essenzialmente sequestri di persona) che si paventavano ad opera di entità delinquenziali non necessariamente e immediatamente rapportabili a “cosa nostra” o, quanto meno, all’articolazione palermitana di “cosa nostra” di cui veniva, in quel frangente, sollecitato l’intervento, e quello di natura patrimoniale per la stessa consorteria mafiosa.

Questa aveva cioè, grazie alla iniziativa di Dell’Utri che si era posto come (trait d’union, siglato con l’imprenditore un patto, all’inizio non connotato e tantomeno sollecitato da proprie azioni intimidatorie, oltre che finalizzato alla realizzazione di evidenti risultati di arricchimento: un patto che, peraltro, risentiva di una certa, espressa (v. colloqui citati a pag. 241 della prima sentenza d’appello) propensione dell’imprenditore Berlusconi a “monetizzare”, per quanto possibile, il rischio cui era esposto.

La condotta dell’agente riguardante il periodo compreso fra il 1974 e la fine del 1977 aveva costituito un antecedente causale quantomeno della conservazione, se non del rafforzamento del sodalizio criminoso “cosa nostra”, posto che tale sodalizio si fonda notoriamente sulla sistematica acquisizione di proventi economici che utilizza per crescere e moltiplicarsi e anche per il mantenimento della sua stessa “forza lavoro” e, quindi, dell’organizzazione attraverso la quale opera e si rafforza. L’accordo di protezione mafiosa propiziato da Dell’Utri, con il sinallagma dei pagamenti sistematici in favore di “cosa nostra”, s’inseriva in un rapporto di causalità nella realizzazione dell’evento del finale rafforzamento di “cosa nostra”. Esso costituiva un evento capace di contribuire all’avvio della compressione del bene giuridico tutelato dalla norma contestata, ossia l’ordine pubblico, che è vulnerato per il solo fatto che un’associazione mafiosa sia posta in condizioni di estendere ed estenda la propria area di illeciti affari sul territorio, anche sostituendosi ai poteri istituzionali, nella garanzia della difesa dei beni fondamentali (libertà, vita) di taluni cittadini.

Fino a quando il concorrente esterno protragga volontariamente l’esecuzione dell’accordo che egli ha propiziato e di cui quindi si fa, di fatto, garante, presso i due poli dei quali si è detto, si manifesta il carattere permanente del reato che ha posto in essere, evenienza che la giurisprudenza riassume nella locuzione secondo cui la condotta partecipativa esterna si esaurisce con il compimento delle attività concordate.

La Quinta Sezione Penale di questa Corte argomentava che, nel caso in esame, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa può dirsi iniziato con la realizzazione dell’accordo mafia-imprenditore. Esso era destinato a cessare quando e se fossero cessati i comportamenti tenuti dall’imputato in esecuzione dell’accordo stesso. Restava, comunque, impregiudicata l’analisi dell’atteggiamento psicologico del reato.

7. Il 25 marzo 2013 la Corte d’Appello di Palermo, in sede di rinvio, tenuto conto dell’assoluzione irrevocabile pronunciata dalla Corte d’Appello con la sentenza del 29 giugno 2010 con riferimento alle condotte contestate per il periodo successivo al 1992, assorbito il reato di cui al capo a) in quello di cui al capo b) e avuto riguardo alle condotte contestate fino al 1992, rideterminava la pena inflitta all’imputato in sette anni di reclusione.

Confermava, nel resto, la sentenza impugnata e condannava l’imputato al pagamento delle spese processuali e alla rifusione di quelle sostenute dalle parti civili Provincia Regionale di Palermo e Comune di Palermo.

8. Con riferimento alla configurabilità del delitto di concorso esterno in associazione per delinquere per il periodo 1978-1982, la Corte d’appello di Palermo osservava che, nonostante il passaggio alle dipendenze di Rapisarda, Dell’Utri non aveva mai interrotto i suoi rapporti con i soggetti intranei a “cosa nostra” (Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Gaetano Cinà, Vittorio Mangano) con cui aveva agito in precedenza. Peraltro, l’imputato aveva sempre negato di conoscere Teresi e Bontade, aveva escluso di avere avuto rapporti di amicizia con Mangano e aveva affermato di avere condiviso soltanto una comune passione per il calcio con Cinà.

Dell’Utri, dopo avere lasciato l’incarico di segretario personale di Berlusconi, aveva iniziato a lavorare, alla fine del 1977, per l’imprenditore Filippo Rapisarda che, in quegli anni, era a capo di uno dei maggiori gruppi immobiliari italiano che comprendeva: la “s.p.a. Bresciano”, di cui Dell’Utri veniva nominato amministratore delegato (cfr. dichiarazioni rese dall’imputato all’udienza del 26 giugno 1996); la “s.p.a. Cofire” (Compagnia fiduciaria di consulenze e revisione) di cui Dell’Utri era diventato consigliere; la “s.p.a. Inim” (Internazionale immobiliare), costituita dopo l’assunzione del concordato fallimentare della “Facchin e Gianni”, di cui Rapisarda era socio al 60% insieme con Francesco Paolo Alamia (socio al 30%) e tra i cui consiglieri vi erano Marcello e Alberto Dell’Utri.

8.1. I giudici territoriali, al fine di dimostrare la continuità dei rapporti iniziati con il “patto mafioso” del 1974, valorizzavano le dichiarazioni rese da Rapisarda il 5 maggio 1987, nell’ambito di separato processo celebratosi dinanzi all’Autorità giudiziaria milanese per il fallimento della “s.p.a. Bresciano”, e il 22 settembre 1998, nel corso del presente processo, davanti al Tribunale di Palermo (cfr. f. 325 ss.). Dalle stesse risultava che Rapisarda aveva assunto, nell’ottobre 1977, Marcello Dell’Utri – da lui conosciuto tra il 1975 e il 1976 tramite la cognata del prof. Giacomo Delitala – su richiesta di Cinà che aveva conosciuto insieme a Bontade e Teresi. Consapevole dello spessore mafioso del gruppo di Stefano Bontade cui apparteneva Cinà e timoroso delle conseguenze cui sarebbe andato incontro in caso di rifiuto, Rapisarda aveva assunto alle sue dipendenze Dell’Utri che, a detta di Cinà, aveva necessità di cambiare lavoro e di guadagnare maggiormente, attesa la situazione di crisi finanziaria in cui versava Berlusconi.

Dell’Utri confermava di essere stato accompagnato da Cinà presso Rapisarda che era rimasto “impressionato” dalla suddetta presenza. Ammetteva di avere parlato con Cinà della proposta di lavoro di Rapisarda e di essere stato consigliato dallo stesso Cinà di andare a lavorare per lui. Escludeva, peraltro, che Rapisarda lo avesse assunto su sollecitazione di Cinà. Confermava, infine, pur cercando di ridimensionarne portata e significato, il racconto di Rapisarda che aveva dichiarato di avere appreso dall’imputato che questi si era interessato di fare da mediatore tra Berlusconi e “cosa nostra” per garantire la protezione personale del gruppo mafioso all’amico imprenditore.

Il mantenimento dei rapporti di frequentazione con Cinà (condannato in questo processo per i delitti di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p.) non poteva, ad avviso della Corte territoriale, essere relegato alla sfera dei rapporti sconvenienti da un punto di vista etico, bensì assumeva una precisa valenza probante circa la permanenza nella consumazione del concorso esterno in associazione mafiosa.

8.2. Per argomentare la continuità delle condotte criminose poste in essere da Dell’Utri, la Corte d’Appello evidenziava che quest’ultimo aveva lavorato alle dipendenze di Rapisarda per un periodo di tempo assai limitato, compreso tra il gennaio 1978 (epoca in cui era stato nominato amministratore delegato della “s.p.a. Bresciano”) e la fine del 1979. Lo stesso Dell’Utri dichiarava di non avere avuto «più niente a che fare con aziende e società del gruppo Rapisarda» dopo avere esaurito la propria attività di curatore fallimentare.

A dimostrazione del breve periodo di collaborazione tra Dell’Utri e Rapisarda venivano richiamati i seguenti ulteriori elementi:

il contenuto della conversazione telefonica del 14 febbraio 1980 nel corso della quale Dell’Utri, parlando con Mangano, manifestava la propria preoccupazione per la grave situazione in cui si trovava a seguito del fallimento della “s.p.a. Bresciano” e parlava anche delle conseguenti vicissitudini del fratello Alberto;

la fuga, dapprima in Venezuela e, quindi, in Francia di Rapisarda, raggiunto da provvedimento restrittivo della libertà personale per il fallimento, nel febbraio 1979, della società “Venchi Unica 2000”;

le dichiarazioni di Rapisarda il quale riferiva di avere incontrato, nei primi mesi del 1980, presso l’Hotel “George V” di Parigi, Dell’Utri che qui aveva dato appuntamento anche a Stefano Bontade e Mimmo Teresi ai quali aveva chiesto la somma di venti miliardi di lire per l’acquisto di film per “Canale 5”;

le dichiarazioni di Giorgio Bressani, direttore di cantieri di Rapisarda, che, all’udienza del 21 maggio 2001, nel corso del dibattimento di primo grado, riferiva in merito alla conoscenza di Dell’Utri e agli incontri a Parigi di quest’ultimo con Rapisarda, all’epoca latitante;

le dichiarazioni spontanee di Dell’Utri in data 29 novembre 2004 relative alla interruzione della collaborazione con Rapisarda nel 1980 e la ripresa di quella con Berlusconi nel 1980-1981.

Conclusivamente la Corte territoriale osservava che la durata irrilevante dell’allontanamento (dal gennaio 1978 al 1980-1981) e l’atteggiamento assunto da Dell’Utri nei confronti dei protagonisti del “patto” del 1974 costituivano altrettanti elementi per ritenere che, in realtà, non si fossero mai interrotti i rapporti di Dell’Utri né con gli esponenti mafiosi di riferimento né con Silvio Berlusconi per conto del quale l’imputato non aveva mai cessato di fungere da intermediario con “cosa nostra”.

8.3. La Corte d’appello di Palermo, in sede di rinvio, dopo avere premesso che doveva ritenersi del tutto estranea ai rapporti tra Dell’Utri e Mangano ogni connotazione di costrizione e di timore del primo nei confronti del secondo, osservava che i rapporti tra i due erano proseguiti, pur dopo l’allontanamento di Mangano da Arcore. In proposito sottolineava che Mangano era stato arrestato il 27 dicembre 1974 per espiare una pena definitiva relativa ad una condanna per truffa e che, dopo la sua scarcerazione (22 gennaio 1975), aveva lasciato Arcore.

Tali rapporti, ad avviso dei giudici territoriali, avevano natura «consuetudinaria e progettuale, oltre che sintomatica di un’affidabilità reciproca degli interlocutori» (in tal senso f. 108 della sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, richiamata a f. 336 ss. della sentenza resa in sede di rinvio).

In proposito i giudici di merito attribuivano rilievo ai seguenti elementi.

Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone, uomo d’onore della “famiglia” mafiosa di Catania, dichiarava che, a partire del 1975, aveva accompagnato il fratello Giuseppe, a capo dell’organismo direttivo di “cosa nostra” a Milano per individuare i soggetti che dovevano essere eliminati nel contesto di una guerra di mafia in corso a Catania. In occasione di uno di questi viaggi, nel 1976, aveva partecipato, presso il ristorante “le colline pistoiesi” ad una cena insieme con Nino Grado, Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri. In tale contesto Mangano aveva presentato dell’Utri come suo «principale».

La telefonata del 14 febbraio 1980 intercorsa tra Dell’Utri e Mangano dimostrava, secondo la Corte d’appello di Palermo, una frequentazione fra i due, la trattazione di affari in comune e un’assoluta cordialità di rapporti, in virtù della quale e del ruolo di tramite con Berlusconi svolto da Dell’Utri, “cosa nostra” aveva deciso di revocare la condanna a morte decretata da Leoluca Bagarella nei confronti di Mangano.

Particolare rilievo veniva attribuito alla parte della conversazione in cui Mangano indicava Berlusconi come «principale» di Dell’Utri in un periodo (1980) in cui quest’ultimo era formalmente alle dipendenze di Rapisarda.

Questi elementi, ad avviso della Corte, dimostravano che Dell’Utri, pur nel periodo in cui si era allontanato professionalmente da Berlusconi, aveva continuato ad avere contatti con Mangano e Cinà e non aveva mostrato alcuna volontà di porre fine all’esecuzione dell’accordo e di interrompere i contatti con i soggetti che di quell’accordo erano stati i protagonisti.

Dalle dichiarazioni di Francesco Di Carlo – in ordine alla cui attendibilità, secondo la sentenza rescindente, i giudici di merito avevano fornito una giustificazione completa e conforme a parametri di razionalità e plausibilità – emergevano, ad avviso dei giudici di merito, tre episodi particolarmente significativi.

Il 19 aprile 1980 Dell’Utri partecipava a Londra al matrimonio di Girolamo Fauci (soggetto condannato per traffico internazionale di sostanze stupefacenti e per Dell’Utri un perfetto sconosciuto), cui erano stati invitati, oltre allo stesso Di Carlo (testimone dello sposo), Cinà e Mimmo Teresi (testimone della sposa). Di Carlo riferiva, altresì, che, nel corso della cerimonia, Teresi aveva tessuto a Di Carlo le lodi di Dell’Utri e gli aveva confidato che egli e Teresi avevano intenzione di “combinarlo”. Tale episodio, ad avviso della Corte territoriale era indicativo – tenuto conto anche dello stato di latitanza di Di Carlo (noto a Dell’Utri) che imponeva solo la presenza di persone fidate – della continuità dei rapporti di frequentazione, da parte di Dell’Utri, dei medesimi soggetti con i quali, nel 1974, aveva concluso il patto di protezione di Berlusconi, della fiducia che “cosa nostra” continuava a riporre nell’imputato nel 1980. Una conclusione del genere era avvalorata dalla circostanza che, in tale contesto, Teresi, aveva raccomandato a Dell’Utri di mettersi a disposizione di Di Carlo, ove fosse passato da Milano, nonché dal fatto che l’imputato aveva fornito a Teresi i suoi recapiti.

Nel 1979, presso la villa di Stefano Bontade, si svolgeva una cena cui prendevano parte circa venti persone, tra cui Di Carlo, Dell’Utri, Bontade, Teresi, Totuccio Federico. Ciò dimostrava, ad avviso dei giudici, la prosecuzione di rapporti con esponenti mafiosi di particolare calibro e una costante cordialità di rapporti, del tutto incompatibile con il rapporto tra estorto ed estorsori.

Tra il 1979 e il 1980, ossia nel periodo in cui Dell’Utri già lavorava alle dipendenze di Rapisarda, l’imputato chiedeva a Cinà di occuparsi della «messa a posto per l’installazione delle antenne televisive». Cinà parlava della questione con Di Carlo e con Bontade e Teresi. Questi ultimi provvedevano a sistemare tutto. L’episodio veniva dalla Corte territoriale correlato all’interesse del gruppo “Fininvest” nel settore delle emittenti private e, in particolare, alla prima trattativa di “Fininvest” per l’acquisto da parte della “srl. Rete Sicilia” (società collegata a “Fininvest” di TVR Sicilia (f. 350).

Il collaboratore di giustizia Angelo Siino – la cui attendibilità intrinseca era stata verificata nell’ambito di numerosi processi nel corso dei quali aveva dimostrato una profonda conoscenza delle logiche di “cosa nostra” nella gestione degli appalti negli anni ’90 – riferiva, a sua volta che, recandosi a Milano per accompagnare in auto Stefano Bontade, aveva, in una circostanza, incontrato presso l’ufficio di Ugo Martello, oltre a quest’ultimo, Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Dell’Utri. La Corte territoriale collocava questo episodio nel periodo in cui l’imputato lavorava alle dipendenze di Rapisarda, in quanto Dell’Utri, colloquiando con Siino, aveva parlato di una società di costruzioni in cui lavorava «un certo Alamia».

8.4. La prosecuzione dei pagamenti anche nel periodo 1978-1982 (precedente e di poco successivo alla morte di Stefano Bontade, avvenuta il 23 aprile 1981), veniva ritenuta provata, sotto il profilo oggettivo, anche dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Calogero Ganci, Grancesco Paolo Anzelmo, Antonino Galliano, tutti appartenenti alla “famiglia” mafiosa della Noce, capeggiata da Raffaele Ganci, nonché da quelle di Angelo Siino.

Calogero Ganci, dopo avere parlato dei pagamenti effettuati da Dell’Utri a Bontade, riferiva, per averlo appreso da padre Raffaele, che, dopo la morte di Bontade stesso, i pagamenti erano stati effettuati a Ignazio e Giovan Battista Pullarà, che erano diventati (dapprima Giovan Battista e, quindi, dopo il suo arresto, Ignazio) reggenti del mandamento di Santa Maria del Gesù ed avevano ereditato i rapporti intrattenuto da Stefano Bontade e Mimmo Teresi. I versamenti erano proseguiti sino al 1984-1985, epoca in cui Dell’Utri aveva chiamato Cinà per rappresentargli che si sentiva “tartassato” dai Pullarà. L’espressione testualmente usata dal dichiarante evidenziava, ad avviso dei giudici, l’assenza di una soluzione di continuità nella corresponsione delle somme di denaro, da leggere insieme con la continuità dei rapporti mantenuti da Dell’Utri con gli esponenti di “cosa nostra” con cui era stato stipulato il patto di protezione di Berlusconi.

Il collaboratore collocava nel periodo 1984-1985 l’interesse manifestato dall’imputato per la messa a posto delle antenne televisive.

Un significativo riscontro alle dichiarazioni rese da Calogero Ganci era, ad avviso del giudice di rinvio, costituito dalle dichiarazioni di Siino, destinatario delle confidenze di Stefano Bontade circa il fatto che le richieste dei Pullarà a Berlusconi erano divenute esose sì da togliergli le radici vitali («tirando u radicuni»: v. f. 363 della sentenza impugnata).

Francesco Paolo Anzelmo (divenuto nel 1986, a seguito dell’arresto di Raffaele Ganci, reggente del mandamento di S. Maria del Gesù insieme con Domenico Ganci, detto Mimmo) dichiarava, per averlo appreso da Raffaele Ganci e da Domenico Ganci, che Cinà riscuoteva i soldi da Dell’Utri e che quest’ultimo aveva intrattenuto i rapporti dapprima con Stefano Bontade e, quindi, dopo la morte di quest’ultimo, con i Pullarà. Riferiva, inoltre, che, pur dopo la morte di Bontade e durante la gestione dei Pullarà, Dell’Utri aveva curato il patto di protezione di Berlusconi con “cosa nostra” e che l’imputato si era lamentato con Cinà per il “tartassamento” subito da Ignazio Pullarà, uomo d’onore subentrato a Stefano Bontade nella reggenza della “famiglia” di Santa Maria del Gesù.

Antonino Galliano, uomo d’onore “riservato”, appartenente dal 1986 alla “famiglia” mafiosa della Noce e nipote di Raffaele Ganci affermava, a sua volta, che Dell’Utri aveva provveduto a versare i soldi a Cinà che si recava a ritirarli a Milano presso lo studio dell’imputato e che ciò era accaduto senza soluzione di continuità fino alla morte di Bontade. Dopo la scomparsa di quest’ultimo Dell’Utri consegnava le somme a Cinà, il quale provvedeva a recapitarle a Pippo Di Napoli. Quest’ultimo, a sua volta, le faceva avere, tramite Pippo Contorno (“uomo d’onore” della stessa famiglia), ad uno dei Pullarà, divenuto all’epoca uno dei rappresentanti della “famiglia mafiosa” di Santa Maria del Gesù.

8.5. La Corte d’appello di Palermo riteneva irrilevante la circostanza – valorizzata dalla difesa – che, dopo l’allontanamento di Mangano da Arcore, Berlusconi si fosse premunito di un servizio di protezione privata, dato che l’imprenditore aveva sempre manifestato in modo chiaro la convinzione che per la propria attività – che si stava espandendo su tutto il territorio nazionale – la protezione istituzionale o privata non era sufficiente. Del resto la sentenza rescindente aveva evidenziato che Berlusconi aveva sempre accordato una personale preferenza al pagamento di somme come metodo di risoluzione preventiva dei problemi posti dalla criminalità (f. 103 della sentenza della Quinta Sezione Penale).

Particolare rilievo, in tale ottica, veniva attribuito al contenuto del colloquio intercorso, il 17 febbraio 1988, tra Berlusconi e Renato Della Valle nel corso del quale il primo dichiarava la sua disponibilità a pagare somme di denaro, pur di stare tranquillo, nonché alla conversazione avvenuta la notte dell’attentato a Villa Rovani in data 29 novembre 1986 tra Berlusconi e Dell’Utri da cui emergeva che Berlusconi definiva quanto accaduto «una cosa anche… rispettosa ed affettuosa» e si dichiarava disposto a versare anche trenta milioni di lire, qualora contattato telefonicamente. La sentenza sottolineava la circostanza che analoga disponibilità veniva manifestata da Berlusconi ai Carabinieri intervenuti in tale occasione.

8.6. A dimostrazione del perdurante patto di protezione concluso da Berlusconi con “cosa nostra”, grazie all’opera d’intermediazione di Dell’Utri, i giudici del rinvio richiamavano anche le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Angelo Siino. Quest’ultimo riferiva di avere accompagnato, in un periodo di tempo collocato a partire dall’anno 1977 e, comunque, antecedente al 1979, Bontade e Vito Cafari (massone calabrese vicino alla ‘ndrangheta) a Milano, dove si era tenuto un incontro tra i suddetti, i Condello e alcuni personaggi di Locri. I Condello, con l’aiuto di Cafari, dovevano fare da tramite con gli esponenti di Locri, intenzionati a sequestrare Berlusconi o un suo familiare. Nel corso di tale incontro Bontade manifestava la sua contrarietà per il progetto e si spendeva efficacemente per impedire la sua attuazione, rappresentando possibili pericolose reazioni di “cosa nostra”. Bontade confidava a Siino che i fratelli Pullarà avevano protetto Berlusconi dalle ingerenze calabresi e dalle vessazioni provenienti da quell’ambiente.

La Corte territoriale riteneva le dichiarazioni di Siino rilevanti sotto due profili. Per un verso esse dimostravano che la protezione garantita in virtù del patto stipulato nel 1974 era proseguita senza sosta e che, in attuazione dello stesso, l’imprenditore Berlusconi versava rilevanti somme di denaro a “cosa nostra”. Per altro verso erano indicative del fatto che Ignazio e e Giovan Battista Pullarà, già prima della morte di Bontade, avevano preteso, per la protezione di Berlusconi, il versamento di somme di denaro sotto forma di forniture di materiali teatrali allo stesso.

8.7. I giudici di merito non escludevano la configurabilità di una causale complessa della corresponsione delle suddette somme di denaro da parte di Berlusconi, riconducibile, da un lato, ad esigenze di protezione (così come riferito dai collaboratori di giustizia Galliano e Siino) e, dall’altro, alla installazione delle antenne televisive in Sicilia (secondo quanto in particolare dichiarato da Di Carlo). Ciò che rilevava, infatti, era la circostanza che il patto concluso con “cosa nostra” grazie alla mediazione di Dell’Utri prevedeva una protezione complessiva di Berlusconi che non era limitata all’incolumità della sua persona, ma comprendeva tutto ciò che coinvolgeva la sua attività e, quindi, eventualmente anche l’affare dei ripetitori televisivi.

9. Per affrontare la questione devoluta dalla sentenza della Quinta Sezione Penale di questa Corte, riguardante la configurabilità del dolo del concorso esterno in associazione mafiosa nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, i giudici ritenevano necessario effettuare preliminarmente il raffronto tra le modalità di pagamento nel periodo in esame (1983-1992) e quelle già avvenute in precedenza per poi giungere alla conclusione che non vi erano state al riguardo modifiche sostanziali.

9.1. Relativamente alle modalità di pagamento nel periodo successivo alla morte di Bontade ritenevano rilevanti le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo e Antonino Galliano, convergenti nel nucleo essenziale delle accuse.

Calogero Ganci riferiva, per averlo appreso dal padre Raffaele, che, nel 1984-1985, Dell’Utri si era rivolto a Cinà «per aggiustare la situazione delle antenne televisive» e che Dell’Utri voleva «mettersi a posto con “cosa nostra” al fine di ottenere, in cambio del versamento di una somma di denaro, protezione per le suddette antenne in Sicilia». In tale contesto Dell’Utri si era lamentato del “tartassamento” subito dai Pullarà, di cui si è in precedenza detto. Tale lamentela veniva immediatamente comunicata da Cinà a Pippo Di Napoli, il quale, a sua volta, ne parlava con Raffaele Ganci che provvedeva ad informare Salvatore Riina. Quest’ultimo, preoccupato di salvaguardare una fonte così rilevante di rafforzamento economico dell’associazione, estrometteva i Pullarà dai rapporti con Dell’Utri e affidava la gestione degli stessi esclusivamente a Gaetano Cinà, di cui l’imputato si fidava da anni (cfr. f. 374 della sentenza impugnata). Cinà si recava due volte all’anno a Milano per ritirare da Dell’Utri le somme che pervenivano a Riina tramite Pippo Di Napoli e Raffaele Ganci.

Francesco Paolo Anzelmo confermava, per averlo anch’egli appreso da Raffaele Ganci nel 1985-1986, che Cinà si era interessato per riscuotere i soldi da Dell’Utri e aveva riferito a Di Napoli le lamentele di quest’ultimo che si sentiva pressato da Ignazio Pullarà per ragioni che il collaboratore non sapeva precisare. A seguito di tali rimostranze, i Pullarà erano stati estromessi e la gestione dei rapporti con Dell’Utri era stata affidata al solo Cinà che saliva due volte l’anno a Milano a ritirare da Dell’Utri i soldi, pari a cento milioni di lire per ogni rata. In merito alla causale della corresponsione delle somme, Anzelmo affermava che Dell’Utri pagava per la «tranquillità», per impedire che potesse succedere qualcosa a Berlusconi. Aggiungeva che la protezione serviva per gli impianti televisivi di “Canale 5”. Nonostante la loro estromissione, Rina aveva versato ai Pullarà la somma di cinquanta milioni di lire per far loro capire che la loro estromissione non era riconducibile ad una questione di soldi.

Antonino Galliano, a sua volta, dichiarava di avere incontrato, alla fine del 1986, Gaetano Cinà presso la villa di Giovanni Citarda (“uomo d’onore” della famiglia di Malaspina), dove Giovanni Di Napoli trascorreva la latitanza. Galliano aveva lì accompagnato Domenico Ganci, detto Mimmo, reggente del mandamento della Noce in sostituzione del padre Raffaele. Era in tale occasione che Cinà aveva riferito del mutato atteggiamento di Dell’Utri e aveva affermato di non volere più recarsi a Milano per ritirare i soldi dall’imputato.

Mimmo Ganci, attribuendo importanza al fatto, ne metteva al corrente Riina, il quale aveva una reazione violenta e decideva di ridimensionare l’atteggiamento arrogante di Dell’Utri mediante due azioni ritorsive. Incaricava, pertanto, Mimmo Ganci (che si confidava poi con Galliano) di spedire da Catania una lettera intimidatoria a Berlusconi (missiva effettivamente inviata da Ganci agli inizi del 1987 da Catania, città dove si era recato con Francesco Noce, “uomo d’onore” dell’omonima famiglia) e di effettuare a quest’ultimo una telefonata intimidatoria (effettivamente eseguita dopo qualche settimana dalla spedizione della lettera). La scelta di Catania si spiegava con il fatto che, in quel periodo, Nitto Santapaola aveva compiuto un attentato, posizionando esplosivo in una proprietà di Berlusconi e che Riina, con l’autorizzazione dei catanesi, voleva far credere che l’azione provenisse da ambienti catanesi. In conseguenza di questi atti, Cinà veniva convocato urgentemente da Dell’Utri che lo incaricava d’interessarsi della questione, così come era avvenuto la prima volta. Il messaggio di Dell’Utri veniva riferito da Cinà a Di Napoli e da quest’ultimo a Riina che raddoppiava la somma dovuta al fine di riequilibrare i rapporti tra Dell’Utri e Cinà e di adeguare l’entità delle somme che l’imprenditore in ascesa versava fin dal 1974. La causale del versamento delle somme era da ricercare nella protezione dell’imprenditore e non nella questione delle antenne.

Dell’Utri, messo al corrente da Cinà della richiesta di Riina, riferiva, dopo avere consultato Berlusconi, che questi accettava il raddoppio della somma, ma che per le antenne il denaro doveva essere richiesto ai responsabili delle emittenti locali.

A detta di Galliano, da quel momento i soldi venivano consegnati da Dell’Utri a Cinà, il quale li dava a Di Napoli per la successiva consegna a Ganci. Quest’ultimo, su incarico di Riina, versava una parte delle somme alla “famiglia” di Santa Maria del Gesù e quindi ai Pullarà (successivamente all’Aglieri) e suddivideva la restante parte in tre quote, destinate rispettivamente alle “famiglie” di San Lorenzo (quindi a Salvatore Biondino, autista personale di Totò Riina), Malaspina, della Noce.

Galliano presenziava, in un’occasione (nel 1988), alla consegna del denaro da Di Napoli a Raffaele Ganci, nel frattempo uscito da carcere il 28 novembre 1988.

Il denaro era continuato ad arrivare, tramite Dell’Utri, fino al 1995.

9.2. Con riguardo ai pagamenti avvenuti nel periodo 1989-1990, i giudici territoriali valorizzano il contenuto delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Giovan Battista Ferrante e Salvatore Cancemi, confermative di quelle rese da Ganci, Galliano, Anzelmo, nonché quelle di Francesco Scrima e Salvatore Cucuzza.

La Corte d’appello di Palermo sottolineava la significativa convergenza esistente tra le propalazioni di Ferrante e quelle di Galliano nella parte relativa al ruolo svolto, dopo la sua scarcerazione (avvenuta nel 28 novembre 1988), da Raffaele Ganci che aveva ripreso ad occuparsi dei soldi provenienti da Berlusconi tramite Dell’Utri e Cinà e della relativa suddivisione tra le tre famiglie mafiose (Noce, Malaspina, San Lorenzo), dopo avere trattenuto i soldi per quella di Santa Maria del Gesù.

Salvatore Cancemi (le cui dichiarazioni venivano ritenute, sin dal giudizio di primo grado, prive di autonomo rilievo probatorio) riferiva in merito a consegne di denaro dalla “Fininvest” a “cosa nostra” anche in epoca successiva alla morte di Bontade e Teresi, dapprima attraverso i fratelli Pullarà e, poi, tramite Cinà. Egli collocava l’epoca dei suddetti pagamenti tra il 1989-1990 fino all’epoca delle stragi del 1992. Dichiarava che le somme di denaro venivano consegnate a Cinà e, tramite Di Napoli, a Raffaele Ganci che le dava a Salvatore Riina. Ricordava di avere assistito alla divisione del denaro tra le “famiglie” di Santa Maria del Gesù e di Resuttana.

Le dichiarazioni di Francesco Scrima (“uomo d’onore” della “famiglia” di Porta Nuova) venivano ritenute significative con particolare riferimento al ruolo dei Pullarà, riferito dagli altri collaboratori. Scrima, infatti, affermava, per averlo appreso da Vittorio Mangano durante un periodo di comune detenzione tra il 1988 e il 1989, che Mangano era risentito per il fatto che Ignazio Pullarà, durante la reggenza della “famiglia” di Santa Maria del Gesù (e quindi dopo la morte di Stefano Bontade), si era appropriato del denaro proveniente da Berlusconi, denaro che, secondo la valutazione di Mangano stesso, spettava a lui.

Le propalazioni di Scrima erano, ad avviso dei giudici del rinvio, riscontrate da quelle di Salvatore Cucuzza. Quest’ultimo, durante un periodo di comune detenzione in carcere (febbraio 1986-dicembre 1987), era destinatario delle confidenze di Mangano, il quale recriminava per il fatto che, dal momento del suo arresto (ossia del 1980 in poi), non aveva più ricevuto le somme di denaro provenienti da Berlusconi, percepite in epoca precedente alla morte di Bontade, somme che erano state invece destinate ai Pullarà, quali reggenti del mandamento di Santa Maria del Gesù.

10. In sede di rinvio, la Corte d’Appello di Palermo procedeva altresì al nuovo esame dei profili qualificati dalla Quinta Sezione Penale come «elementi di torsione o avvitamento» rispetto al restante compendio probatorio.

10.1. In merito all’attentato di via Rovani del novembre 1986 la Corte territoriale evidenziava che esso faceva seguito a quello precedente e analogo, posto in essere undici anni prima, e che, dopo di esso, ne era accaduto un altro il 28 gennaio 1988.

La conclusione che lo stesso non era riconducibile a “cosa nostra” si fondava sull’esame dei seguenti elementi:

contenuto della conversazione intercorsa alle ore 0,12 del 29 novembre 1986 (ossia subito dopo il fatto) tra Berlusconi (chiamante) e Dell’Utri, nel corso della quale Berlusconi affermava che l’azione era stata «fatta con molto rispetto, quasi con affetto» e manifestava il dubbio che essa potesse essere ricondotta all’opera di Vittorio Mangano;

colloquio telefonico intercorso il 30 novembre 1986 tra Berlusconi e Dell’Utri nel corso del quale quest’ultimo comunicava al suo interlocutore, dopo avere parlato con Cinà, che l’attentato non poteva essere opera di Mangano, ancora detenuto, che doveva stare tranquillo e che, al riguardo, doveva riferirgli qualcosa di persona;

dichiarazioni di Galliano, da cui emergeva che l’attentato era riconducibile alla criminalità di stampo mafioso catanese, secondo quanto in precedenza già ricordato;

contenuto dei colloqui captati sull’utenza in uso all’ing. Adriano Boiocchi, dirigente “Fininvest” dopo l’attentato alla villa di via Rovani del 28 gennaio 1988 e concernenti le telefonate intimidatorie da lui ricevute rispettivamente il 23 e il 25 febbraio dello stesso anno nel corso delle quali si chiedeva il versamento di dieci miliardi di lire; le richieste di denaro, per il loro tenore, risultavano del tutto estranee al patto di protezione stipulato tra “cosa nostra” e Berlusconi grazie all’opera di mediazione di Dell’Utri.

Pertanto l’attentato alla villa di via Rovani non evidenziava alcun mutamento dei rapporti tra le parti interessate e era in alcun modo ricollegabile ai rapporti di mediazione svolti continuativamente da Dell’Utri.

10.2. Per argomentare che le lamentele di Cinà per il comportamento scostante di Dell’Utri non avevano in alcun modo mutato la natura del patto tra loro stipulato e la sostanza dei loro rapporti, la Corte d’appello richiamava le seguenti risultanze probatorie:

conversazioni del 21-23 novembre 1986 tra Dell’Utri e la madre, nel corso delle quali la donna chiedeva al figlio notizie di Cinà, definendolo “l’amico nostro” e manifestava l’intenzione di chiamarlo, senza suscitare alcuna reazione di segno opposto da parte dell’imputato;

conversazione del 30 novembre 1986, intercorsa tra Marcello Dell’Utri, che si trovava in compagnia di Cinà, ed il fratello Alberto, evidenziante un atteggiamento cordiale e confidenziale;

colloquio del 30 novembre 1986 durante il quale Dell’Utri – dopo avere parlato con Cinà dell’attentato di lieve entità avvenuto in danno della villa di via Rovani – rassicurava l’amico Berlusconi, dicendogli di avere parlato con “Tanino”;

conversazione del 20 dicembre 1986 fra Dell’Utri e Cinà, da cui emergeva l’interessamento del primo nei confronti del secondo mediante la fissazione di alcuni appuntamenti, nonché l’invio, da parte di Cinà a Berlusconi, di una cassata di dieci chili, appositamente preparata e decorata;

telefonata fatta da Cinà ad Alberto Dell’Utri il 25 dicembre 1986, confermativa dei rapporti di amicizia esistenti tra la famiglia Dell’Utri e Cinà e l’assenza di motivi di astio o risentimento di quest’ultimo nei confronti dell’imputato.

Sulla base di questi elementi i giudici territoriali ritenevano che i rapporti di familiarità e cordialità fra Dell’Utri e Cinà fossero rimasti immutati nel tempo e che il diverso atteggiamento di Dell’Utri fosse riconducibile esclusivamente al suo mutato ruolo professionale, da segretario personale di Berlusconi a consigliere delegato di “Publitalia”.

10.3. In merito al raddoppio della somma richiesto da Riina a Berlusconi, i giudici osservavano che: a) la richiesta era spiegabile con l’esigenza di reagire ad atteggiamenti percepiti come arroganti non tanto nei confronti di Cinà, bensì di “cosa nostra”; b) Dell’Utri e Berlusconi non avevano opposto alcuna forma di rifiuto al versamento delle somme richieste né avevano avanzato alcuna forma di lamentela, continuando a pagare sino al 1992; c) la richiesta di aumento delle somme da corrispondere, avanzata da Riina, era da correlare al significativo lasso di tempo trascorso dalla stipula del patto (avvenuta nel 1974) e alla mutata posizione imprenditoriale di Berlusconi.

10.4. A proposito degli attentati ai magazzini “Standa” di Catania (acquistati dal gruppo “Fininvest” nel 1988) verificatisi il 18 gennaio 1990 (incendio che causava danni per quattordici miliardi), il 21 gennaio 1990 (di minore gravità), il 12 e il 13 febbraio 1990 (ai danni di un affiliato “Standa” di Paternò), il 16 febbraio 1990, la Corte d’Appello osservava che dalla sentenza irrevocabile di condanna pronunciata dall’Autorità giudiziaria di Catania (irrevocabile il 10 luglio 2001 e acquisita ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p.) risultava in maniera inequivocabile la responsabilità della “famiglia” mafiosa catanese facente capo a Benedetto Santapola (detto Nitto) e al nipote Aldo Ercolano, entrambi condannati quali mandanti degli incendi e della connessa tentata estorsione.

10.5. Ad avviso della Corre territoriale, la morte di Stefano Bontade e di Girolamo Teresi ed il sopravvento di Toto Riina e dei “corleonesi” non aveva mutato gli equilibri che avevano garantito l’accordo del 1974 tra Berlusconi e “cosa nostra”, grazie all’intermediazione di Dell’Utri, che aveva assicurato, da un lato, la generale protezione dell’imprenditore e, dall’altro, profitti e guadagni illeciti, utili al rafforzamento e/o alla conservazione dell’associazione mafiosa che, per circa un ventennio, aveva mantenuto contatti con il facoltoso imprenditore.

L’unico cambiamento sostanziale aveva riguardato l’eliminazione, nel corso della guerra di mafia del 1981, di Bontade e Teresi e l’avvento di Totò Riina. Esso, però, non aveva inciso sulla “causa” illecita del patto. Berlusconi, infatti, aveva costantemente manifestato la sua personale propensione a non ricorrere a forme istituzionali di tutela, ma ad avvalersi, piuttosto, dell’opera di mediazione con “cosa nostra” svolta da Dell’Utri. L’imputato, a sua volta, aveva provveduto con continuità ad effettuare, per conto di Berlusconi, i versamenti delle somme concordate a “cosa nostra” e non aveva in alcun modo contestato le nuove richieste avanzate da Totò Riina. Quest’ultimo, dal canto suo, non aveva mai palesato alcuna volontà di modificare i rapporti con Berlusconi e Dell’Utri e, pur azzerando i vertici mafiose delle “famiglie” avversarie (comprese quelle che facevano parte della “commissione”), aveva autorizzato la riscossione delle somme di denaro da parte dei Pullarà, uomini d’onore originariamente appartenenti alla “famiglia” mafiosa di Santa Maria del Gesù (passati poi ai “corleonesi”), ai quali lo stesso Riina aveva affidato la reggenza del mandamento.

Particolare rilievo veniva, poi, attribuito al fatto che Riina, a seguito delle lamentele formulate da Dell’Utri, aveva estromesso i Pullarà, ripristinando l’antico rapporto di consegna deciso nel 1974 proprio a seguito dell’incontro a Milano.

Anche il raddoppio della somma richiesto da Riina non esprimeva un mutamento dei rapporti tra le parti interessate, come comprovato dal fatto che ad esso non avevano fatto seguito alcun rifiuto o lamentela.

L’unica modifica intervenuta dopo l’avvento di Riina aveva riguardato la dinamica dei rapporti tra Dell’Utri e i capi di “cosa nostra”. L’imputato, infatti, non intratteneva rapporti diretti con Riina, a differenza di quanto avvenuto in passato nelle relazioni con Bontade, componente della “commissione” provinciale di “cosa nostra”, subentrato nel c.d. triumvirato, di cui facevano parte, oltre allo stesso Bontade, Badalamenti e Liggio. Tale circostanza veniva spiegata dalla Corte territoriale con la struttura fortemente gerarchica voluta da Riina che non ammetteva contatti diretti di chicchessia con il capo dell’organizzazione mafiosa. La Corte d’appello osservava che i grandi delitti di mafia e la strategia criminale aggressiva non erano iniziati con il sopravvento definitivo dei “corleonesi”, ma erano cominciati già prima con gli omicidi di Peppino Impastato (1978), del giornalista Mario Francesce (1979), del politico democristiano Michele Reina (1979), del Questore Boris Giuliano (1979), del Magistrato Cesare Terranova (1979), del Maresciallo Lenin Mancuso (1979), del Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella (1980), del Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile (1980), del Procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa (1979), del Segretario regionale del Partito Comunista Pio La Torre e del suo collaboratore Rosario Di Salvo (1982), del medico legale Paolo Giaccone (1982), del Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro, dell’Agente Domenico Russo (1982). Parallelamente a questi omicidi si era sviluppata una violenta guerra di mafia che aveva provocato l’uccisione di Stefano Bontade (23 aprile 1981) e la scomparsa, con il metodo della lupara bianca, di Mimmo Teresi. Tale faida era, però, rimasta interna a “cosa nostra” e non aveva inciso sui rapporti che Riina aveva ereditato da Bontade e Teresi, come dimostrato dal fatto che, al fine di tutelare il rapporto di “cosa nostra” con Dell’Utri e Berlusconi, Riina aveva nominato reggenti del mandamento i Pullarà (passati con i vincenti) e, quindi, una volta appreso che essi stavano mettendo a rischio il rapporto con Dell’Utri che si era lamentato, li aveva estromessi e subito sostituiti con Tanino Cinà, che sapeva essere amico dell’imputato.

11. Il quadro probatorio sin qui delineato non era, ad avviso della Corte d’appello di Palermo, scalfito dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca, ritenute caratterizzate da sostanziali contraddizioni, incongruenze, da evidenti illogicità e, in quanto tali, inidonee a minare l’attendibilità del racconto dei collaboratori Galliano, Ganci, Anzelmo, relative al tema dei pagamenti nel periodo successivo alla morte di Bontade, e dei collaboratori Ferrante e Cucuzza con riferimento al periodo compreso tra il 1986 e il 1992.

12. La vicenda della società sportiva “Pallacanestro Trapani” e la visita di Dell’Utri e Ciancimino alla Banca Popolare di Palermo venivano richiamate per meglio delineare la personalità dell’imputato.

13. La Corte d’appello riteneva sussistenti le aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis c.p. In proposito osservava che “cosa nostra” si è sempre avvalsa per raggiungere i propri fini di un’inesauribile disponibilità di armi e aveva mantenuto intatta tale fondamentale risorsa anche nei periodi in cui la linea imposta dagli organi direttivi era stata quella di non dare corso ad azioni eclatanti. D’altro lato, era rimasto ampiamente provato che il sodalizio di stampo mafioso si era giovato di ingenti profitti illeciti per finanziare le molteplici attività economiche via via sottoposte a controllo.

Ciò posto, sulla base dell’interpretazione letterale dei commi 4 e 6 dell’art. 416-bis c.p. la Corte d’appello osservava che il disposto dell’art. 416-bis, comma 6, c.p. contiene un’esplicita specifica deroga alla regola dettata dall’art. 63, comma 4, c.p., laddove prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata.

Veniva escluso il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto della natura continuativa dei rapporti intrattenuti con “cosa nostra”, delle attività di mediazione svolte, che avevano consentito l’acquisizione di consistenti vantaggi, della condotta di vita antecedente e susseguente al reato.

14. Marcello Dell’Utri, tramite i due difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza e le ordinanze dibattimentali del 25 luglio 2013 e del 23 novembre 2013, formulando, anche mediante motivi nuovi, le seguenti censure.

15. Con riferimento all’ordinanza dibattimentale emessa il 25 luglio 2013, la difesa denuncia mancanza e illogicità della motivazione, violazione ed erronea applicazione dell’art. 603 c.p.p. in punto di decisività delle prove richieste. In proposito sottolinea la mancanza di adeguata motivazione, da parte della Corte territoriale, in ordine alla decisiva e pertinente connessione degli attentati alla villa di via Rovani del 1975, 1986, 1988 con il tema dell’annullamento disposto con la sentenza di rinvio. Tale mancanza di motivazione si è tradotta in un travisamento probatorio che avrebbe potuto essere evitato mediante l’audizione del teste Bioicchi, il quale avrebbe potuto riferire, in virtù della qualità rinvestita all’interno della “Fininvest” circa la progressiva pressione estorsiva esercitata sulla società da “cosa nostra” mediante attentati e telefonate anonime. Contesta la ritenuta genericità della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale alla luce delle considerazioni contenute a f. 127 della sentenza di annullamento della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione.

L’erronea applicazione dell’art. 603 c.p.p. viene dedotta anche con riferimento all’omessa acquisizione del manifesto della mostra “the vikings”, tenutasi a Londra nel 1980 in coincidenza con il matrimonio di Girolamo Fauci, idonea a comprovare le reali ragioni della presenza di Dell’Utri a Londra.

16. Relativamente all’ordinanza dibattimentale del 23 novembre 2013 deduce la mancanza, l’illogicità della motivazione, la violazione e l’erronea applicazione della legge penale sotto i seguenti plurimi profili.

L’omessa ammissione della produzione documentale relativa alla situazione economico-finanziaria della “Fininvest” nell’anno 1987 ha compromesso il diritto alla controprova su un fatto rilevante rispetto all’audizione del teste d’accusa Giovanni Scilabra, ammesso dalla Corte territoriale in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in secondo grado. Il riferimento, contenuto nell’ordinanza, all’assenza di autenticità dei bilanci è privo di consistenza giuridica, trattandosi di bilanci mai interessati da accuse o pronunce di falsità. Illogico è l’argomento con il quale i giudici d’appello hanno considerato la prova irrilevante, alla luce della possibile ricerca di finanziamenti presso canali diversi e senza particolari garanzie, non essendo verosimile che una società che versa in floride condizioni economiche si rivolga, tramite l’intermediazione di una persona indagata (Vito Ciancimino) ad un modesta banca locale per ottenere un mutuo che ben avrebbe potuto chiedere ad altri e più importanti istituti bancari. Al riguardo i giudici territoriali hanno omesso qualsiasi apprezzamento della deposizione di Francesco Giuffrida, consulente tecnico del pubblico ministero, che, esaminato all’udienza del 7 maggio 2012, riferiva circa la situazione patrimoniale positiva della “Fininvest” e un ricorso assolutamente irrisorio all’indebitamento bancario.

La violazione e l’erronea applicazione dell’art. 603 c.p.p., contenuta nell’ordinanza dibattimentale, viene dedotta anche in relazione al rigetto della richiesta difensiva di acquisizione dell’atto di citazione in un giudizio civile promosso da Dell’Utri nei confronti di Scilabra, la cui testimonianza avrebbe richiesto verifiche rigorose, essendo caratterizzata da incertezze e lacune.

Viene, inoltre, dedotta l’illogicità dell’ordinanza in relazione alle ragioni poste a base del diniego dell’escussione, in qualità di teste, dell’ing. Boiocchi, essendo priva d’intrinseca coerenza l’affermazione che Dell’Utri si sarebbe avvalso della presentazione di un esponente di “cosa nostra” per ottenere in favore della “Fininvest” un finanziamento nel lasso di tempo in cui l’organizzazione mafiosa stava aggredendo con attentati il gruppo milanese. L’esame di Boiocchi, soggetto direttamente raggiunto dalla pressione estorsiva, si presentava tanto più indispensabile, in quanto la sentenza rescindente aveva interpretato gli attentati come un fatto interruttivo del rapporto con “cosa nostra”.

17. Con riferimento alla sentenza impugnata la difesa dell’imputato formula i seguenti rilievi.

17.1. Con un primo motivo deduce difetto di motivazione e violazione di legge con riguardo agli elementi posti a base dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, elementi inidonei a superare la soglia dell’oltre il ragionevole dubbio, formalizzata nell’art. 533 c.p.p., primo comma, c.p.p., come sostituito dall’art. 5 della l. n. 46 del 2006, art. 5

Tale censura viene prospettata muovendo da alcuni rilievi preliminari concernenti il capo d’imputazione. Esso contiene il riferimento a condotte ed addebiti di cui non vi è alcun riscontro nelle sentenze sinora pronunziate: a) la partecipazione ad incontri con esponenti di vertice di “cosa nostra”, funzionali alla discussione di condotte tese a realizzare l’interesse dell’organizzazione; b) prestare rifugio a latitanti; c) porre a disposizione degli esponenti di “cosa nostra” le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano.

Per altro verso il capo d’imputazione è privo di qualsiasi richiamo al sistematico fenomeno estorsivo, di cui vi è espressa menzione nella sentenza di primo grado del Tribunale di Palermo nella parte relativa alla valutazione delle dichiarazioni rese da Raffaele Ganci.

Tali lacune ed imprecisioni del capo d’imputazione, formulato in modo generico e caratterizzato da sovrapposizioni tra fatti contestati e risultanze probatorie, assumono specifico rilievo nella prospettiva di cui all’art. 6, par. 3, lett. a), della Cedu, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. caso Campisi Giuseppe c/ Italia, ricorso n. 10948/05) e assumono una particolare rilevanza in tema di concorso esterno in associazione mafiosa, reato il cui basso tasso di tipicità accentua l’esigenza di una precisa indicazione dei fatti che l’accusa ritiene riconducibili alla fattispecie e che debbono essere oggetto di prova.

Le manchevolezze del capo d’imputazione si colgono, inoltre, in relazione al ruolo asseritamente svolto da Dell’Utri, cui si attribuisce la mediazione nell’estorsione ai danni di Berlusconi che non è mai stata contestata all’imputato, chiamato a rispondere soltanto del delitto di cui agli art. 110, 416-bis c.p. La caratterizzazione dell’intera vicenda in termini di estorsione è desumibile dalle lettura dei ff. 1118-1120 della sentenza di primo grado che ha ricostruito la condotta di Dell’Utri come quella di tramite di una catena che ha consolidato e rafforzato “cosa nostra”, consentendole di “agganciare” una delle più importanti realtà imprenditoriali italiane e di percepire dal rapporto estorsivo, posto in essere grazie all’opera di intermediazione di Dell’Utri e Cinà, un lauto guadagno economico. In tale prospettiva il Tribunale ha richiamato gli attentati alla “Standa” di Catania, effettivamente espressivi di un rilevante episodio estorsivo in danno del gruppo milanese, nonché la “tentata estorsione” ai danni di Vincenzo Garraffa e la calunnia ai danni dei collaboratori di giustizia Onorato, Di Carlo, Guglielmini, episodi, gli ultimi due, esclusi da sentenze irrevocabili di assoluzione.

17.2. La difesa evidenzia, inoltre, l’assenza dell’elemento soggettivo del delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, non essendo state acquisite prove univocamente dimostrative della consapevolezza, da parte dell’imputato, che i versamenti di denaro servissero a consolidare “cosa nostra” in momenti di fibrillazione, consistenti nella debolezza finanziaria del sodalizio e nella necessità di sanarla. Posta questa premessa di carattere generale, la difesa osserva che, a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità di Dell’Utri, sono stati posti insieme fatti sempre incerti, discutibili, contrastanti, e, in quanto tali, inidonei a fondare un giudizio di penale responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio.

18. Con un secondo motivo lamenta difetto della motivazione e violazione di legge per quanto attiene all’omesso rispetto dell’ambito del devolutum, atteso che il giudice del rinvio, anziché limitare la propria pronunzia ai profili indicati dalla sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, ha posto come premessa del suo ragionamento tre punti estranei al giudizio di rinvio: il ritenuto incontro di Milano del maggio 1974; l’assunzione di Mangano ad Arcore; i pagamenti pervenuti a “cosa nostra”, in conseguenza di detto incontro, fino al 1977.

La sentenza impugnata ha, invece, omesso di fornire una compiuta risposta ai rilievi difensivi, già formulati con l’atto di appello, il cui contenuto viene riproposto dal ricorrente da f. 32 a f. 65 dei motivi di ricorso in cassazione.

Con essi (f. 152 motivi d’appello in relazione al f. 736 della sentenza di primo grado) era stata evidenziata l’assenza di elementi obiettivi da cui inferire alcun contributo fornito a “cosa nostra” da dell’Utri nel periodo in cui egli aveva lavorato alle dipendenze di Rapisarda. Le dichiarazioni rese da quest’ultimo, pur se ritenute intrinsecamente inattendibili dal giudice di prime cure, venivano, invece, considerate credibili dai giudici di merito a proposito della genesi dell’incarico conferito a Dell’Utri presso la “s.a.s. Bresciano”, genesi individuata nella raccomandazione di Cinà in favore di entrambi i fratelli Dell’Utri (Marcello e Alberto), nonostante che Marcello Dell’Utri – che ha sempre ammesso di essersi recato a perorare la sua assunzione presso Rapisarda in compagnia dell’amico Cinà – avesse negato che la presenza di quest’ultimo fosse da ricondurre alla volontà di avvalersi dei “buoni uffici mafiosi” dell’amico palermitano.

Improprio riscontro alle dichiarazioni di Rapisarda veniva individuato nella testimonianza di Giuseppe Montaperto, il quale riferiva di avere appreso da Cinà che, questi, in epoca imprecisata, aveva raccomandato Dell’Utri per un’occupazione a Milano. Tali dichiarazioni mal si conciliavano con la circostanza che, agli inizi del 1974, Dell’Utri aveva lasciato la Sicilia per recarsi a Milano non per lavorare presso la “s.a.s. Bresciano”, bensì presso Berlusconi. Era, inoltre, pacifico che Dell’Utri fosse stato introdotto a Rapisarda non da Cinà, bensì dalla signora Delitala, moglie del fratello medico del prof. Giacomo Delitala. Inoltre, dal processo per bancarotta seguito al fallimento della “s.a.s. Bresciano” non era mai emerso che l’origine del rapporto di lavoro Dell’Utri presso la società fosse da ricondurre ad un intervento di Gaetano Cinà.

Infine, era rimasto indimostrato che, dietro l’intervento di Cinà presso Rapisarda, ai fini dell’assunzione in una società – che, già al momento del suo acquisto (1977) si trovava in stato di decozione – si nascondesse l’intervento di Bontade e Teresi, peraltro privo di ragionevole giustificazione.

Le relazioni “sospette”, mantenute da Rapisarda con Francesco Paolo Alamia e Vito Ciancimino, da un lato, e il gruppo Caruana-Cuntrera dall’altra, non potevano automaticamente rilevare, quasi per proprietà transitiva, ai fini della ricostruzione delle condotte contestate a Dell’Utri, tenuto conto anche della sentenza di proscioglimento dai reati di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p., pronunciata il 24 maggio 1990 nei confronti di Dell’Utri dal Giudice istruttore di Milano nel procedimento relativo all’operazione “San Valentino” (acquisita al presente processo ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p.).

I non contestati rapporti di conoscenza di Cinà e Mangano, l’unica telefonata, intercorsa il 14 febbraio 1980 tra Dell’Utri e Mangano, la partecipazione dell’imputato alla cena al ristorante “Le colline pistoiesi” in occasione del compleanno di Antonino Calderone, le scarne e non riscontrate dichiarazioni di Angelo Siino (peraltro contenenti un riferimento al poco lusinghiero giudizio nutrito da Bontade nei confronti di Dell’Utri, giudizio confliggente con quanto riferito dal collaboratore Di Carlo circa la volontà di Mimmo Teresi di “combinare” Dell’Utri) non potevano assumere alcuna valenza indiziante.

In ordine a tutti questi aspetti la sentenza impugnata ha omesso, nei limiti segnati dalla decisione di rinvio, di fornire qualsiasi motivazione, così come pure ha trascurato le due memorie difensive presentate nel giudizio d’appello sotto forma di motivi nuovi e di nota di discussione.

19. Con un terzo motivo denuncia difetto di motivazione e violazione di legge in punto di configurabilità del concorso esterno in associazione di stampo mafioso relativamente al periodo 1978-1982.

Il giudice del rinvio non ha fornito alcuna motivazione in ordine alle ragioni e alle modalità concrete del concorso nei versamenti che si dicono avvenuti materialmente ad opera di terzi a partire dal 1978 e ha desunto la responsabilità dell’imputato in ordine al delitto a lui contestato, in relazione al suddetto lasso di tempo, sulla base di congetture, piuttosto che su fatti certi, e della continuità di determinati contatti amicali proseguiti da Dell’Utri. In tale ottica non possono assumere rilievo, per le ragioni appresso precisate, i seguenti elementi, valorizzati, invece, nella sentenze impugnata:

la cessazione nel 1980 della collaborazione con Rapisarda, considerato che, comunque, Dell’Utri tornò a lavorare per Berlusconi nel 1983;

i rapporti intrattenuti da Dell’Utri con Cinà che non esprimono alcuna contiguità a “cosa nostra”, bensì devono essere ricondotti ad una conoscenza giovanile;

il riferimento da parte di Dell’Utri, nel corso di un dialogo con Rapisarda, ad amicizie altolocate in ambienti mafiosi (circostanza fattuale non contestata dall’imputato), espressione da ritenere una battuta di risposta ad un’analoga vanteria di Rapisarda;

i rapporti di conoscenza di Dell’Utri con Bontade e Teresi (sempre negati dal ricorrente) e con Mangano e Cinà, già ritenuti dalla sentenza rescindente inidonei a colmare il vuoto argomentativo sui fatti contestati nel periodo 1978-1982;

l’inserimento di “cosa nostra”, tramite Dell’Utri, nella “s.a.s. Bresciano”, circostanza illogica, considerato che, già nel gennaio 1978, ossia a distanza di pochi mesi dall’ingresso in essa dell’imputato (ottobre 1977), la società era sull’orlo del fallimento;

le dichiarazioni di Siino, prive di riscontri sul fatto che Dell’Utri curasse le questioni finanziarie di Ciancimino;

la partecipazione alle cene a casa di Bontade e la frequentazione di Cinà, circostanze tutte già ritenute generiche e insignificanti dalla sentenze di primo grado;

la telefonata del 14 febbraio 1980 con Mangano, già valutata nell’ambito della sentenza di proscioglimento del Giudice istruttore di Milano del 24 maggio 1990;

la partecipazione al matrimonio Fauci, avvenuto a Londra in concomitanza con la mostra che Dell’Utri era interessato a vedere.

Il ricorrente osserva, inoltre, che non sono stati acquisiti elementi obiettivi da cui inferire l’esecuzione di attentati agli impianti delle antenne televisive installate dalle società di Berlusconi e qualsiasi interessamento, quale intermediario, di Dell’Utri in favore della società per cui aveva smesso di lavorare e con la quale non risultava alcun contatto, non potendosi ritenere elementi probanti le dichiarazioni di Di Carlo (non assistite da riscontri), quelle generiche e de relato di Ganci, quelle di Anzelmo (che non aveva mai presenziato alla consegna di somme di denaro riconducibili alla “Fininvest” o a Dell’Utri, non conosceva quest’ultimo e riferiva cifre e modalità di pagamento apprese da terzi e contraddette, sia nell’ammontare che nelle modalità, dal collaboratore Galliano, anch’esso dichiarante indiretto), e, infine, neppure quelle di Ferrante, il quale riferiva altre circostanze, altre cifre, altre modalità e ammetteva di non avere conosciuto né Dell’Utri né Cinà.

In definitiva la sentenza impugnata non ha precisato le specifiche condotte poste in essere da Dell’Utri nel periodo di riferimento, il contributo causalmente rilevante fornito, quale concorrente esterno, all’associazione di stampo mafioso in relazione a ciascun pagamento eventualmente intervenuto nel periodo in cui lo stesso lavorava per Rapisarda, i vantaggi ottenuti in quel periodo dall’associazione di stampo mafioso “cosa nostra”, le difficoltà dalla stessa incontrate in quel lasso di tempo.

20. Con un quarto motivo la difesa denuncia difetto di motivazione e violazione di legge in relazione alla valutazione del dolo del delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso rispetto al periodo 1983-1992, mancando la prova della consapevolezza e della volontà di Dell’Utri di avvantaggiare “cosa nostra”.

Il fatto che l’imputato pensasse (senza avere in proposito alcuna preventiva informazione) che l’attentato alla villa di via Rovani fosse opera di “cosa nostra” lo qualifica come vittima ed è di per sé incompatibile con il ruolo di concorrente esterno.

Le dichiarazioni rese da Galliano sono prive di riscontri estrinseci individualizzanti.

La ricostruzione della sentenza impugnata sui rapporti intercorsi tra Riina e la mafia catanese a proposito degli attentati alla villa di via Rovani appare illogico e congetturale.

È stato omesso qualsiasi apprezzamento della telefonata del 27 febbraio 1988 tra Silvio Berlusconi e Renato Della Valle nel corso della quale il primo manifestava la chiara volontà di non corrispondere alcuna somma di denaro, giungendo, per timore di ritorsioni, a far allontanare i propri familiari all’estero. Al contrario è stata attribuita importanza, per valorizzare l’intenzione di Berlusconi di corrispondere denaro, alla telefonata del 29 novembre 1986, nella quale effettivamente Berlusconi affermava che avrebbe versato trenta milioni di lire, ritenendo che l’atto provenisse da Mangano. Tale conversazione, però, si riferisce all’attentato alla villa di via Rovani del 1986 che non aveva avuto alcun effetto intimidatorio, stante la modestia dell’esplosione, dovuta ad una bomba carta, come si desume da quanto Berlusconi riferiva a Dell’Utri, osservando che era stata “una cosa anche rispettosa e affettuosa”, ma ciò prima di appurare che l’attentato non poteva essere opera di Mangano, in quanto detenuto.

In merito a tale attentato sono state trascurate le dichiarazioni di Brusca – esaminato nel giudizio di rinvio a seguito della riapertura dell’istruttoria dibattimentale – che aveva riferito che l’attentato alla villa di via Rovani del 1986 era stato organizzato da Pullarà per indurre Berlusconi a pagare dopo la morte di Bontade.

La sentenza impugnata, nell’argomentare che gli attentati ai magazzini “Standa” del 1988 e del 1990 erano espressione di un rapporto tra Berlusconi e “cosa nostra” non più regolato da un patto di reciproco interesse, ha attribuito in maniera illogica le suddette azioni al gruppo capeggiato da Santapaola, anziché a “cosa nostra” palermitana, in cui aveva un ruolo egemone Totò Riina, trascurando gli apporti conoscitivi dei collaboratori di giustizia Malvagna e Pulvirenti (che avevano riferito che la mafia catanese e i corleonesi erano tutt’uno), nonché le dichiarazioni di Garraffa che, a dibattimento, aveva affermato che Alberto Dell’Utri gli aveva confidato che il fratello Marcello era rimasto molto impressionato dagli attentati ai magazzini “Standa”.

Ai fini dell’elemento soggettivo del reato contestato nel periodo in esame i giudici territoriali hanno omesso di considerare le doglianze di Dell’Utri, che si sentiva tartassato dai fratelli Pullarà, l’insofferenza e la riluttanza ai pagamenti dimostrata dall’imputato e hanno fornito una lettura illogica della conversazione intercorsa tra Alberto Dell’Utri (fratello di Marcello) e Cinà.

Il riferimento al pranzo presso il ristorante “Le colme pistoiesi” è ininfluente, in quanto si riferisce ad un periodo precedente rispetto a quello indicato dalla sentenza di rinvio.

Priva di valenza probatoria, alla luce della sentenza irrevocabile pronunziata dal Tribunale di Milano, che aveva assolto, perché il fatto non sussiste, Dell’Utri dall’imputazione di estorsione, è la vicenda relativa al rimborso che Dell’Utri voleva ottenere da Garraffa con la mediazione del mafioso Virga, rimasta indimostrata.

Priva di reale significato probatorio rispetto alla contestazione è la deposizione di Scilabra, introdotta in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, caratterizzata da intrinseca inattendibilità alla luce dell’astio nutrito dal teste verso Berlusconi e Dell’Utri e da notevoli margini di inattendibilità e illogicità, secondo quanto già rilevato nei motivi d’appello, cui la sentenza impugnata non ha fornito compiuta risposta, e comprovato documentalmente dalla difesa che ha dimostrato l’impossibilità della presenza contemporanea di Ciancimino e Dell’Utri a Palermo.

Sempre con riferimento al dolo del delitto di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p., la sentenza impugnata ha, inoltre, omesso di stabilire se Dell’Utri abbia agito con dolo diretto, con la volontà di aiutare “cosa nostra”, oppure con intento solidaristico protettivo e di natura amicale nei confronti di Berlusconi vittima di estorsione. Al riguardo è mancata ogni valutazione delle dichiarazioni di Raffaele Ganci, il quale aveva affermato che la posizione di Dell’Utri nei confronti di “cosa nostra” si atteggiava come quella di un qualunque imprenditore sottoposto al pizzo. Tali aspetti assumono un’importanza fondamentale ai fini dell’elemento soggettivo del reato, considerato che, fino al 1982, è contestato il reato di cui all’art. 416-c.p. È indubbio che, nella specie, l’imprenditore non era Dell’Utri, ma Berlusconi e che, in via diretta, il problema dell’estorsione si poneva nei confronti di quest’ultimo e non del primo. È altrettanto vero, però, che si tratta di stabilire se Dell’Utri avesse agito in quanto mosso dalla diretta intenzione di favorire “cosa nostra” o se, invece, avesse agito nell’interesse non già del sodalizio, ma dell’amico imprenditore estorto.

Inoltre, non stati precisati i vantaggi tratti da Dell’Utri.

21. Il ricorrente denuncia un vizio della motivazione della sentenza impugnata che ha omesso una compiuta valutazione in ordine agli “elementi di una certa torsione o avvitamento tra le parti interessate” (cfr. f. 121 e 122 della sentenza di rinvio), indicati dalla sentenza di annullamento quale ambito del devolutum e direttamente rilevanti per la configurabilità del necessario dolo diretto del concorso esterno in associazione mafiosa che, come insegnano le Sezioni Unite, deve investire sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice sia il contributo causale recato dalla condotta dell’agente alla conservazione o al rafforzamento del sodalizio, dovendo l’interessato agire nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale del programma criminoso. A fronte di questo duplice coefficiente psicologico del dolo, le soluzioni prospettate nella sentenza impugnata sono ambigue e paiono connotare un elemento soggettivo che si avvicina alla forma meno intensa del dolo eventuale.

Una serie di elementi (colloquio telefonico in cui Cinà si lamenta dell’atteggiamento scostante di Dell’Utri; dichiarazioni di Galliano in merito all’incontro del 1986 tra Di Napoli, Mimmo Ganci e Cinà, nel corso del quale quest’ultimo comunicava la sua intenzione di non volersi più recare a Milano a riscuotere i soldi da Dell’Utri; le dichiarazioni di Giovanni Brusca sulla sospensione dei pagamenti da parte Berlusconi dopo la morte di Bontade e la loro ripresa dopo l’attentato del 1986 organizzato da Ignazio Pullarà proprio per costringere Berlusconi a riprendere i pagamenti; la pluralità degli attentati di via Rovani, avvenuti il 26 maggio 1975, il 28 novembre 1986, il 28 gennaio 1988, quest’ultimo emerso a seguito di riapertura dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio di rinvio; l’attentato ai magazzini “Standa” del 18 gennaio 1990 con danni per oltre quattordici miliardi di lire; le dichiarazioni di Galliano, secondo cui l’imputato aveva chiesto che l’associazione mafiosa si rivolgesse ai responsabili locali delle emittenti televisive private e, quindi, non a lui; la posizione di esponente di primo piano in “Publitalia”, assunta, sin dai primi anni ’80 dall’imputato che, in tal modo, diventava anch’egli una vittima diretta della pressione estorsiva; la conversazione telefonica del 27 febbraio 1988 intercorsa tra Silvio Berlusconi e Renato Della Valle, riportata solo parzialmente nella sentenza impugnata, evidenziante la preoccupazione di Berlusconi per la gravità delle minacce e la sua intenzione di trasferire i propri figli all’estero) dimostrano la costrittiva soggezione subita dall’imputato nei rapporti con gli esponenti mafiosi per attenuare o risolvere i problemi dell’amico imprenditore e il tentativo di sottrarsi alle pressanti richieste di “cosa nostra”, al quale, per costringere Dell’Utri a subire le richieste estorsive, faceva intervenire direttamente Riina, disponendo intimidazioni e minacce, nonché il raddoppio della somma estorta a titolo di sanzione.

22. La motivazione della sentenza impugnata è manifestamente illogica e contraddittoria anche nell’illustrazione di altri elementi, ritenuti, invece, dalla Corte territoriale espressivi della penale responsabilità dell’imputato.

La telefonata del 14 febbraio 1980 tra Mangano e Dell’Utri, oltre ad essere isolata, prova l’ostacolo frapposto da Dell’Utri a qualsiasi richiesta, anche commerciale, che possa essere indirizzata da Mangano a Berlusconi.

L’interruzione dei rapporti tra Dell’Utri e Mangano è comprovata dalla conversazione del 20 novembre 1986 tra Berlusconi e Dell’Utri a proposito dell’attentato alla villa di via Rovani, da cui emerge che Dell’Utri non era a conoscenza dello stato di detenzione di Mangano.

La conversazione del 25 dicembre 1986 tra Cinà e Dell’Utri è anch’essa indicativa di un mutato atteggiamento di quest’ultimo, emergente anche dalle dichiarazioni di Galliano e Calogero Ganci.

A pag. 397 della sentenza impugnata si riscontra un’ulteriore argomentazione illogica e contraddittoria, laddove, da un lato, si prende atto delle ritorsioni poste in essere da Riina anche in relazione al raddoppio della somma e, dall’altro, si ritiene sproporzionata tale reazione rispetto al reale atteggiamento di Dell’Utri, definito non diverso da prima.

23. Con un quinto motivo si denuncia difetto di motivazione e violazione di legge in punto di diniego della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per escutere il dott. Boiocchi (teste rilevante per riferire circa le gravissime intimidazioni subite da Berlusconi), per acquisire la documentazione fornita dalla difesa, compresa la consulenza d’ufficio Giuffrida e le risultanze della centrale rischi (atti tutti attestanti le floride condizioni economico-finanziarie della “Fininvest” nel periodo indicato dal teste, le cui affermazioni risultano così smentite), per acquisire il manifesto della mostra dei Vichinghi svoltasi a Londra.

24. Con un sesto motivo la difesa dell’imputato denuncia violazione di legge in relazione all’epoca di consumazione del reato, sia che lo si consideri permanente che continuato, profilo rilevante ai fini della prescrizione del reato.

La data del 1992 è affidata alle generiche dichiarazioni del collaboratore Ferrante, di Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo (che non forniscono riferimenti temporali rispetto all’epoca di ultima percezione della somme di denaro consegnate a Cinà dall’imputato per conto di Berlusconi), di Salvatore Cangemi (ritenuto dal Tribunale poco attendibile, non riscontrato e smento da Anzelmo e Calogero Ganci). Anche la vicenda della “messa a posto delle antenne”, riferita de relato dal collaboratore Di Carlo si colloca in epoca di gran lunga precedente al 1992. Pertanto, quand’anche si dovessero ritenere sussistenti gli elementi costitutivi del reato, si dovrebbe pervenire alla conclusione che lo stesso si è protratto fino al 1980 o, al massimo, fino al 1986 e non oltre.

Erroneamente, poi, la Corte territoriale, a sostegno della cessazione del reato nel 1992, valorizza, anziché il momento di conclusione dell’accordo tra il concorrente esterno e l’organizzazione mafiosa, le dazioni di pagamento, costituenti un mero post factum. Ne consegue che il reato ascritto a Dell’Utri era già prescritto al momento della pronunzia della sentenza della Corte d’appello di Palermo.

25. Con un settimo motivo denuncia difetto di motivazione e violazione di legge, atteso che, dopo avere escluso il vincolo della continuazione tra il reato previsto dagli artt. 110 e 416 c.p. (consumato sino al 28 settembre 1982) e quello di cui agli artt. 110, 416-bis c.p. (consumato a partire da tale data), la Corte territoriale ha applicato una pena maggiore in modo retroattivo. Tale trattamento è stato erroneamente giustificato richiamando l’art. 416-bis, comma 6, c.p. che, nel caso di concorso fra più circostanze ad effetto speciale, prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata. L’art. 416-bis, comma 6, c.p. non può, però, trovare applicazione in relazione a condotte poste in essere in epoca antecedente alla sua introduzione, dovendosi rispettare, in ossequio al principio di legalità, il divieto di retroattività della norma penale più sfavorevole.

Lamenta, inoltre, l’erronea esclusione dell’aggravante di cui al primo comma dell’art. 416 c.p. pur alla luce dell’intervenuto assorbimento di tale reato in quello di cui all’art. 416-bis c.p.

26. Con un ottavo motivo denuncia difetto di motivazione e violazione di legge con riferimento alla complessiva dosimetria della pena e al diniego delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto del movente sotteso all’agire di Dell’Utri che voleva proteggere l’amico Berlusconi, vittima di estorsioni, e la sua famiglia, e dell’impropria valorizzazione della vicenda processuale Chiofalo-Cirfeta (da cui l’imputato è stato assolto per insussistenza del fatto), da leggere come reazione emotiva di una persona innocente a false accuse mosse da collaboratori di giustizia e al mancato consenso del Pubblico ministero ad invertire l’ordine della discussione al fine di procedere all’immediata escussione, quali testi, di Chiofalo e Cirfeta.

OSSERVA IN DIRITTO

Il ricorso non è fondato.

1. Con riferimento alle censure mosse dal ricorrente alle ordinanze dibattimentali emesse dalla Corte d’appello di Palermo, rispettivamente il 25 luglio 2013 e il 23 novembre 2013, s’impone una premessa metodologica.

1.1. In tema di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in sede di rinvio, trovano applicazione i limiti previsti in via generale per il giudizio d’appello. Pertanto, nell’ambito del giudizio che s’instaura a seguito di una sentenza di annullamento emessa dalla Corte di Cassazione, la Corte d’appello non è tenuta a riaprire l’istruttoria dibattimentale ogni volta che le parti ne facciano richiesta. I suoi poteri al riguardo – sempre che il rinvio non sia stato disposto proprio a tal fine – risultano, infatti, identici a quelli che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata, con l’ulteriore limite che la prova da assumersi nella eccezionale ipotesi di rinnovazione del dibattimento, oltre a dover essere indispensabile per la decisione, ai sensi dell’art. 603 c.p.p., deve essere anche rilevante, come prescritto dall’art. 627, comma 2, c.p.p. (Sez. 4, n. 30422 del 21 giugno 2005; Sez. 1, n. 16786 del 24 marzo 2004; Sez. 1, n. 6020 del 13 dicembre 1994).

È indubbio che, rispetto all’ordinario giudizio d’appello, quello di rinvio si connota per la peculiarità della sua instaurazione a seguito di una pronuncia rescindente, che rappresenta la fonte d’investitura del giudice e delinea l’ambito del devolutum, per cui è solo con riferimento all’oggetto di tale devoluzione che possono in concreto misurarsi le attribuzioni (ed i vincoli) del giudice del rinvio. È altrettanto incontestabile, però, che i poteri della Corte d’Appello, chiamata a procedere, debbono conformarsi a quelli ordinariamente attribuiti al giudice la cui sentenza è stata annullata, considerato che è proprio quel giudizio a dover essere rinnovato a seguito dell’annullamento.

Non sembra condivisibile quell’indirizzo giurisprudenziale minoritario secondo il quale, nell’ipotesi di nuovo giudizio disposto dalla Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 627 c.p.p., esiste un incondizionato diritto delle parti all’assunzione delle prove (Sez. 5, n. 40828 del 2 settembre 2004 e, in termini parzialmente diversi, Sez. 3, del 15 dicembre 2005, PM in proc. E.). Questa tesi, oltre ad essere estranea al sistema processuale e a qualsiasi espressa previsione legislativa, finirebbe per trasformare, agli effetti del diritto alla prova, il giudizio di rinvio in un giudizio di primo grado e vanificherebbe gli equilibri processuali con particolare riferimento alle regole dettate in tema di decadenza dalla prova.

Di conseguenza, anche in sede di giudizio di rinvio, trovano applicazione i limiti previsti in via generale per il giudizio d’appello, dal momento che l’esigenza di superare un giudizio meramente cartolare non può consentire di travolgere lo schema generale dei poteri del giudice di rinvio.

1.2. Tanto premesso, l’ordinanza della Corte d’appello di Palermo del 25 luglio 2012 è esente dai vizi denunciati.

Con motivazione conforme ai principi in precedenza illustrati e correttamente argomentata ha ritenuto insussistente, per difetto di rilevanza, il presupposto per la riapertura dell’istruttoria dibattimentale, sollecitata dalla difesa dell’imputato al fine di acquisire il decreto di archiviazione riguardante gli ignoti autori dell’attentato realizzato nel 1988 ai danni della villa di via Rovani di Milano ed il manifesto della mostra “the vikings”, tenutasi a Londra nel 1980.

A quest’ultimo proposito i giudici di merito hanno correttamente osservato che la difesa aveva articolato le sue deduzioni esclusivamente sulla base di un passaggio logico-argomentativo della requisitoria svolta in udienza dal Pubblico Ministero il 26 luglio 2004.

Nella richiamata ordinanza si puntualizzano, inoltre, le ragioni per le quali la richiesta di assunzione della deposizione del responsabile delle risorse umane della “Fininvest”, ing. Adriano Boiocchi, in merito all’attentato di via Rovani del 1988, da un lato appariva generica, per omessa specificazione delle circostanze sulle quali il teste avrebbe dovuto rendere dichiarazioni, e, dall’altro, non era rilevante per la decisione anche a seguito dell’acquisizione (in accoglimento della richiesta difensiva) della relazione di servizio redatta dal vice-sovraintendente della Polizia di Stato Antonicelli, in data 29 gennaio 1988, riguardante il medesimo episodio.

L’insistita censura che il ricorrente deduce in merito alla mancata nuova audizione del teste Boiocchi, muove essenzialmente dall’erronea interpretazione dei poteri valutativi del giudice del rinvio in caso di annullamento per vizio della motivazione e dalla considerazione che un simile incombente sarebbe stato, per certi aspetti, “imposto” alla luce delle indicazioni offerte da questa Corte nella sentenza di annullamento. In realtà, il giudice del rinvio è libero di determinare il proprio convincimento di merito mediante un’autonoma valutazione della situazione di fatto concernente il punto annullato, con l’unico limite costituito dal divieto di ripetere i vizi argomentativi rilevati nella sentenza annullata (Sez. 5, n. 43685 del 13 novembre 2007; Sez. 1, n. 43685 del 13 novembre 2007; Sez. 1, n. 7963 del 15 gennaio 2007; Sez. 1, n. 26274 del 6 maggio 2004).

1.3. Del pari infondate sono le censure mosse all’ordinanza dibattimentale del 23 novembre 2013.

Il provvedimento in esame ha attentamente passato in rassegna le singole istanze, escludendo, fra l’altro, la rilevanza e la decisività, agli effetti della pronuncia da adottare in sede di rinvio, delle sollecitate acquisizioni documentali. In proposito, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, ha argomentato che la documentazione riguardante la situazione economico-finanziaria della “Finivest” nell’anno 1987, oltre ad essere priva del crisma dell’autenticità, era logicamente ininfluente nell’economia complessiva del giudizio, al pari dell’atto di citazione nel giudizio civile, promosso da Marcello Dell’Utri nei confronti di Giovanni Scilabra (a seguito dell’intervista rilasciata da quest’ultimo nel 2011 e pubblicata su “Il fatto quotidiano”), atto estraneo alla disciplina dell’art. 238 c.p.p. e, in ogni caso, irrilevante, tenuto delle risultanze acquisite anche a seguito dell’istruzione dibattimentale svoltasi nel corso del giudizio di appello.

L’ordinanza in questione è altresì esente dai vizi denunciati nella parte in cui, a proposito dell’assunzione della testimonianza dell’ing. Adriano Boiocchi (di cui la difesa aveva reiterato l’escussione), ha evidenziato l’assenza di decisività della prova al fine di escludere logicamente che Dell’Utri avesse potuto cercare di sfruttare le proprie conoscenze per ottenere finanziamenti nell’interesse del gruppo “Finivest” nello stesso lasso di tempo in cui il suddetto gruppo imprenditoriale milanese era bersaglio di attentati e di minacce.

In tale cornice di riferimento, le doglianze che il ricorrente prospetta in relazione alle ordinanze del 25 luglio 2013 e del 23 novembre 2013, sul duplice versante della violazione di legge e del vizio di motivazione, si rivelano, dunque, destituite di fondamento.

2. Passando ad analizzare le censure proposte dalla difesa con riferimento alla sentenza impugnata, il Collegio osserva che l’esame del quinto motivo di ricorso è logicamente preliminare rispetto agli altri.

2.1. Come già in precedenza detto, l’art. 627, comma 2, c.p.p. non può essere interpretato come disposizione derogatrice ai principi generali fissati dall’art. 603 c.p.p. in tema di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello. Pertanto, non può ritenersi che l’art. 627, comma 2, c.p.p. imponga al giudice del rinvio l’assunzione delle prove richieste dalle parti in deroga a quanto disposto dall’art. 603 c.p.p. Deve, quindi, ribadirsi che, anche in caso di annullamento con rinvio di una pronuncia di secondo grado, l’integrazione probatoria in appello, pur dopo le modifiche introdotte nel codice di rito dalla l. n. 479 del 1999, risponde ad un profilo di eccezionalità in accordo con la presunzione di completezza dell’accertamento probatorio che caratterizza il giudizio di primo grado (Sez. 6, n. del 12 dicembre 2002, rv. 222977; Sez. 2, n. del 26 aprile 2000, rv. 216532; Sez. 5, n. 21 aprile 1999, rv. 213637; Sez. Un., n. 2780 del 24 gennaio 1996).

In linea di principio ne deriva, che, anche nel giudizio di rinvio, è possibile ricorrere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo ove essa appaia indispensabile.

Con riferimento al parametro della «non decidibilità allo stato degli atti», l’art. 603 c.p.p. reca diversità di previsione, a seconda che si tratti di prove preesistenti o concomitanti al giudizio di primo grado, emerse in un diverso contesto temporale o fenomenico, ovvero di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio. Nel primo caso, il giudice d’appello deve disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale solo se, in base alla sua valutazione discrezionale, ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, perché i dati probatori già acquisiti sono incerti ovvero quando l’incombente richiesto riveste carattere di decisività, potendo eliminare le eventuali incertezze oppure sia di per sé oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Sez. 3, n. 3348 del 13 novembre 2003; Sez. 5, n. 1075 dell’1 febbraio 2000; Sez. 2, n. 8106 del 7 luglio 2000, n. 08106; Sez. 5, n. 8891 dell’8 agosto 2000).

L’art. 603, comma 2, c.p.p., invece, attribuisce al giudice di seconde cure il potere di disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nei limiti previsti dall’art. 495, comma 1, c.p.p., norma che, a sua volta, richiama gli artt. 190, comma 1, e 190-bis, c.p.p., relativi, rispettivamente, al diritto alla prova e ai requisiti della prova nel procedimento per taluno dei delitti indicati nell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p. In conseguenza di tale doppio richiamo deve ritenersi che, nel caso regolato dall’art. 603, comma 2, c.p.p., il giudice, in presenza di istanza di parte e dei presupposti richiesti dalla norma, sia tenuto a disporre la rinnovazione del dibattimento (Sez. 6, n. del 10 dicembre 2003, rv. 228462) con il solo limite costituito dalle ipotesi di richieste concernenti prove vietate dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti, in sostanza escludendo le prove del tutto incongruenti rispetto al thema decidendum e quelle che mirano a provare un fatto del tutto pacifico ed incontrovertibile.

2.2. La sentenza impugnata, con motivazione conforme ai principi sinora illustrati, ha evidenziato l’irrilevanza delle prove richieste dalla difesa. La testimonianza dell’ing. Boiocchi – peraltro dedotta in assenza di uno specifico capitolo di prova – verteva, infatti, su circostanze non controverse, illustrate in un’annotazione di polizia giudiziaria, acquisita con il consenso delle parti.

La documentazione difensiva sulle condizioni economiche della “Fininvest”, la consulenza d’ufficio redatta dal dott. Giuffrida, le risultanze della centrale rischi riguardavano circostanze non direttamente attinenti ai fatti da provare.

Infine, l’acquisizione del documento della mostra “the viching”, tenutasi a Londra in coincidenza con il matrimonio di Girolamo Fauci, appariva non decisiva nell’economia generale del giudizio ai fini della ricostruzione delle responsabilità dell’imputato.

3. L’analisi del primo motivo di ricorso presuppone la ricostruzione della fisionomia del giudizio di rinvio.

3.1. Il primo limite fondamentale ai poteri di cognizione e decisione del giudice di rinvio è costituito dall’obbligo – sancito dall’art. 627, comma 3, c.p.p. – di uniformarsi alla sentenza della Corte di Cassazione per quanto concerne ogni questione con essa decisa. Si tratta di un vincolo che, sotto un aspetto, tende a garantire la funzione di unificazione della giurisprudenza e, sotto un altro, costituisce una logica conseguenza dello stretto legame intercorrente tra iudicium rescindens e iudicium rescissorium, affidato ad altro giudice solo a causa dei limiti dei poteri cognitivi della Corte di Cassazione. Esso deve essere desunto dalla motivazione e coincide con le enunciazioni che rappresentano la ratio decidendi della sentenza con cui la Corte ha deciso una questione di diritto. Tale obbligo sorge tutte le volte in cui nella sentenza di annullamento sia rinvenibile la decisione, sia pure implicita, di una questione di diritto (Sez. 6, n. 34027 del 24 giugno 2003).

3.2. Ciò posto, il Collegio osserva che tutti i rilievi relativi alla formulazione e al contenuto del capo d’imputazione hanno già formato oggetto di esame da parte della sentenza della Quinta Sezione Penale di questa Corte in data 9 marzo 2012 che li ha ritenuti infondati o inammissibili. Ai sensi dei commi 3 e 4 dell’art. 627 c.p.p. non possono, quindi, essere reiterate in questa sede eccezioni di tipo processuale che siano già state risolte con la sentenza rescindente, ai cui principi di diritto il giudice di rinvio è tenuto a uniformarsi.

La sentenza del 9 marzo 2012 ha ritenuto precluse ai sensi dell’art. 606, comma 3, c.p.p., non avendo esse formato oggetto dei motivi di ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo del 29 giugno 2010, le censure riguardanti l’asserita generica enunciazione del fatto (cfr. f. 90 della decisione della Quinta Sezione Penale di questa Corte).

Considerazioni analoghe valgono a proposito dei rilievi difensivi in tema di genericità, imprecisione, contraddittorietà intrinseca del capo d’imputazione, contenente, ad avviso del ricorrente, una non consentita sovrapposizione tra la dimensione storico-naturalistica delle condotte addebitate all’imputato ed il profilo probatorio. In proposito la sentenza di annullamento – già investita da identica doglianza – nel ritenere infondate le censure, ha osservato che Dell’Utri è stato tratto a giudizio per rispondere del delitto di concorso esterno nell’associazione mafiosa capeggiata, dapprima, da Stefano Bontade e Girolamo Teresi e, successivamente, da Salvatore Riina, e che, sin da prima del 1982, si è avvalso dei poteri derivanti dalla sua importante posizione imprenditoriale e dei rapporti di rilievo penale con Bontade, Terersi, Pullarà, Mangano, Cinà (e numerosi altri) per rafforzare il sodalizio e influenzare individui operanti nel mondo finanziario e imprenditoriale.

La sentenza di annullamento ha, inoltre, evidenziato che Dell’Utri è stato condannato, in primo luogo, proprio per avere determinato il suddetto rafforzamento dell’associazione, esercitando i poteri di influenza che derivavano dalla precisa collocazione nel mondo imprenditoriale dell’epoca e dai rapporti personali con i detti vertici di “cosa nostra” in almeno un incontro (fatto contestato al punto I dei capi a e b) di pianificazione, conseguendo un risultato concreto, cioè quello dell’esborso, da parte dell’area “Fininvest”, di somme cospicue, versate reiteratamente – grazie all’intermediazione dell’imputato – per un certo numero di anni alla consorteria mafiosa. Il fatto contestato è, quindi, sempre stato il medesimo, salve alcune contestazioni di dettaglio cadute nel corso del processo, come quella di avere provveduto al ricovero di latitanti (cfr. ff. 90-91 della sentenza di questa Corte del 9 marzo 2012).

Parimenti precluse sono le doglianze riguardanti il capo d’imputazione dedotte nella prospettiva dell’art. 6, par. 3, lett. a) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Quinta Sezione Penale di questa Corte ha, in proposito, rilevato l’assoluta genericità delle censure, essendo stata omessa qualsiasi specificazione dei concreti limiti incontrati al pieno esercizio del diritto di difesa rispetto alle accuse mosse all’imputato, nonché delle ragioni di diritto sottese a tale rilievo (cfr. ff. 88-89 della sentenza della Quinta Sezione Penale in data 9 marzo 2012).

3.3. Non possono trovare ingresso in questa sede, avendo già formato oggetto di specifico esame e di decisione nel precedente giudizio di legittimità, neppure le censure difensive riguardanti l’omessa contestazione nel capo d’imputazione del sistematico fenomeno estorsivo, espressamente menzionato nella sentenza di primo grado del Tribunale di Palermo, nella parte relativa alla valutazione delle dichiarazioni rese da Raffaele Ganci. Al riguardo la sentenza di annullamento ha osservato che la dimostrazione della configurabilità, nel caso di specie, del reato di concorso esterno in associazione mafiosa non passa attraverso la necessaria dimostrazione della sussistenza anche del reato di estorsione da parte di Dell’Utri e di esponenti di vertice dell’associazione quali Bontade e Teresi. Ha, inoltre, argomentato che la negazione di fatti di estorsione da parte dei medesimi soggetti non fa venire meno la configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti del ricorrente (cfr. f. 114 della sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione in data 9 marzo 2012).

4. Anche il secondo motivo di ricorso non merita accoglimento.

Esso si articola su due versanti, in quanto, da un lato, censura l’omesso rispetto dell’ambito del devolutum, delineato dalla sentenza di annullamento del 9 marzo 2012, e, dall’altro, deduce erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione con riferimento alle ragioni poste a base della ritenuta configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa nel periodo 1978-1982.

4.1. In merito al primo profilo, giova premettere che, in presenza di un annullamento con rinvio disposto dalla Corte di Cassazione per vizio di motivazione, il giudice è vincolato dal divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Suprema Corte, ma resta libero di pervenire allo stesso risultato decisorio della pronuncia annullata sulla base di argomentazioni diverse da quelle censurate in sede di legittimità ovvero dell’integrazione e dell’ulteriore approfondimento di quelle già svolte. Spetta, infatti, esclusivamente al giudice di merito il compito di ricostruire i dati di fatto risultanti dalle emergenze processuali e di valutare il significato e il valore delle relative fonti di prova. Egli non può essere condizionato da apprezzamenti di merito eventualmente presenti nelle argomentazioni del giudice di legittimità, non essendo compito di quest’ultimo sovrapporre il proprio convincimento a quello dei giudici di merito in ordine a tali aspetti (Sez. 1, n. del 10 febbraio 1998, Scuotto; Sez. 5, n. del 6 maggio 1999, Lezzi).

Qualora la Corte di Cassazione soffermi la sua attenzione su alcuni particolari aspetti denotanti la carenza o la contraddittorietà della motivazione, ciò non significa che il giudice di rinvio sia investito del nuovo giudizio sui soli punti specificati ed eventuali profili valutativi contenuti nella sentenza di annullamento possono, semmai, valere come meri punti di riferimento al fine della individuazione del vizio motivazionale, ma non come statuizioni che perimetrano l’ambito del devolutum (Sez. 5, n. del 20 gennaio 1992, Florio). In altri termini, il fatto che la Corte di Cassazione, nell’annullare la sentenza d’appello, sottolinei alcuni aspetti particolari, che denotano la carenza o la contraddittorietà della motivazione, non comporta che il giudice di rinvio sia investito del nuovo giudizio sui soli punti specificati, quasi che questi potessero essere considerati isolatamente rispetto al restante materiale probatorio. La Corte incaricata del nuovo giudizio ha, infatti, «gli stessi poteri» (art. 627, comma 2, c.p.p.) che le competevano originariamente relativamente alla individuazione e alla valutazione dei dati processuali nell’ambito del capo della sentenza interessato dall’annullamento (Sez. 5, n. 6004 dell’11 novembre 1998; Sez. 6, n. 8162 del 4 maggio 1992; Sez. 5, n. 5539 del 20 gennaio 1992), spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di ricostruire i dati di fatto risultanti dal compendio probatorio e di considerare il significato e il valore delle relative fonti di prova.

A seguito di annullamento per vizio di motivazione, perciò, il giudice di rinvio può liberamente procedere ad una nuova e completa valutazione delle acquisizioni probatorie e resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle censurate in sede di legittimità ovvero integrando e completando quelle già svolte, allo stesso risultato decisorio della pronuncia annullata, essendo vincolato soltanto dal divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Corte di Cassazione (Sez. 6, n. 16659 del 21 gennaio 2009; Sez. 4, n. 30422 del 21 giugno 2005; Sez. 6, n. 5552 del 29 marzo 2000).

4.2. Così delineato l’ambito dei poteri spettanti alla Corte d’appello di Palermo in sede di rinvio a seguito dell’annullamento per vizio della motivazione della precedente decisione di secondo grado, il Collegio ritiene non fondata la censura difensiva circa l’omesso rispetto dell’ambito del devolutum e l’estraneità al thema decidendum dei riferimenti fattuali da cui la sentenza impugnata ha preso le mosse per sviluppare il proprio ragionamento: a) l’incontro ad Arcore del 1974; b) l’assunzione di Mangano ad Arcore; c) i pagamenti pervenuti a “cosa nostra”, in conseguenza di detto incontro, fino al 1977.

Il rilevato vizio di motivazione attribuiva, infatti, alla Corte d’appello di Palermo, quale giudice del rinvio, pienezza di cognizione in ordine a tutto il materiale probatorio acquisito e libertà di determinare il proprio convincimento di merito mediante un’autonoma valutazione delle situazioni di fatto concernenti i punti annullati, con l’unico limite (come già detto) di non giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente denunciato nella sentenza di annullamento. Correttamente, perciò, la sentenza impugnata ha proceduto ad un nuovo esame complessivo delle risultanze probatorie attinenti ai capi oggetto di annullamento e, sulla base di esso, è giunta ad una decisione conforme a quella in precedenza annullata secondo un ragionamento diverso ed arricchito rispetto a quello censurato in sede di legittimità, nel rispetto della doverosa distinzione tra capi coperti da giudicato interno e capi oggetto della nuova deliberazione.

4.3. A quest’ultimo proposito, particolare rilievo assume il disposto dell’art. 624 c.p.p. a mente del quale per «parti della sentenza» che diventano irrevocabili a seguito dell’annullamento parziale deve intendersi qualsiasi statuizione avente un’autonomia giuridico-concettuale e, quindi, non solo la decisione che conclude il giudizio in relazione ad un determinato capo d’imputazione, ma anche quella che, nell’ambito della stessa contestazione, individua aspetti non più suscettibili di riesame. Ne deriva che la decisione impugnata acquista, in relazione a questi ultimi aspetti, autorità di cosa giudicata in virtù del principio della c.d. “formazione progressiva del giudicato” (Sez. Un., n. 1 del 19 gennaio 2000; Sez. Un., n. 4904 del 26 marzo 1997; Sez. Un., n. 6019 del 9 ottobre 1993; Sez. Un., n. 373 del 23 novembre 1990, Agnese).

Nel caso in esame, a seguito della decisione della Quinta Sezione Penale di questa Corte del 9 marzo 2012, si è formato il giudicato interno sulla parte della sentenza concernente l’affermazione di penale responsabilità di Marcello Dell’Utri in ordine al delitto a lui ascritto, perpetrato sino alla fine del 1977 (ff. 110 e ss.). Secondo la suddetta sentenza, costituisce espressione del concorso esterno di Marcello Dell’Utri nell’associazione criminale denominata “cosa nostra” (facente capo, nella metà degli anni ’70, anche a Stefano Bontade e Girolamo Teresi) il comportamento dell’imputato, consistito nell’avere favorito e determinato – avvalendosi dei pregressi rapporti personali allacciati con esponenti mafiosi e, in particolare, dell’amicizia con Gaetano Cinà (condannato dal Tribunale di Palermo alla pena di sette anni di reclusione per i delitti di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p.) che gli aveva consentito di caldeggiare presso di essi con speciale efficacia la propria iniziativa – la conclusione di un accordo di reciproco interesse tra i boss mafiosi, nella loro posizione rappresentativa, e l’imprenditore amico Silvio Berlusconi.

Grazie all’opera di intermediazione svolta da Dell’Utri, veniva raggiunto un accordo che prevedeva la corresponsione, da parte di Silvio Berlusconi, di rilevanti somme di denaro in cambio della protezione a lui accordata da parte di “cosa nostra” palermitana. Tale accordo era fonte di reciproco vantaggio per le parti che ad esso avevano aderito grazie all’impegno profuso da Dell’Utri: per Silvio Berlusconi esso consisteva nella protezione complessiva sia sul versante personale personale che su quello economico; per la consorteria mafiosa si traduceva, invece, nel conseguimento di rilevanti profitti di natura patrimoniale.

Tale patto – osserva la sentenza rescindente – non era stato preceduto da azioni intimidatorie di “cosa nostra” palermitana in danno di Silvio Berlusconi e costituiva piuttosto l’espressione «di una certa, espressa propensione… a monetizzare, per quanto possibile, il rischio cui era esposto (cfr. f. 113 della sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione).

4.4. In tale contesto, il richiamo, da parte della Corte d’appello di Palermo, al capo della sentenza coperta dal giudicato interno e agli elementi probatori posti a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità di Marcello Dell’Utri per i fatti commessi dal 1974 sino alla fine del 1977, lungi dal costituire una violazione dell’art. 627 c.p.p. (come denunciato dalla difesa), rappresentava il presupposto logico giuridico da cui muovere per affrontare le questioni oggetto del devolutum e, in particolare, per verificare se il reato contestato fosse oggettivamente e soggettivamente configurabile a carico del ricorrente nel periodo compreso tra il 1978 e il 1982, in cui egli si era allontanato dall’area imprenditoriale “Fininvest”, e anche in epoca successiva.

Il riferimento alla parte della sentenza coperta da giudicato interno era, inoltre, funzionale a stabilire se si fosse o meno in presenza di un unico reato permanente e se ricorrevano, o meno, i presupposti per il riconoscimento della continuazione con conseguenti riflessi sul trattamento sanzionatorio.

5. L’esame della restante parte del secondo motivo di ricorso comporta il vaglio anche della terza doglianza, ad esso strettamente connessa, del pari priva di pregio per le ragioni di seguito precisate.

5.1. Il ragionamento in base al quale i giudici di merito, con argomentazione esente da vizi logici e giuridici, ritenevano sussistenti l’elemento oggettivo e soggettivo del reato contestato a Marcello Dell’Utri anche con riferimento al periodo 1978-1982 muoveva dai seguenti tre fatti storici, coperti dal giudicato interno, costituenti l’antecedente logico-giuridico di quelli oggetto di nuova delibazione in sede di rinvio e rispetto ai quali quelli successivamente posti in essere rappresentavano la naturale evoluzione.

Tra il 16 e il 29 maggio 1974 si svolgeva a Milano un incontro cui prendevano parte Marcello Dell’Utri, Silvio Berlusconi, Gaetano Cinà (legato alla “famiglia” mafiosa di Malaspina), Stefano Bontade (capo della “famiglia” mafiosa di S. Maria del Gesù ed esponente, fino a poco tempo prima, insieme con Gaetano Badalamenti e Luciano Liggio, del “triumvirato”, massimo organo di vertice di “cosa nostra”), Girolamo Teresi (sottocapo della “famiglia” mafiosa di S. Maria del Gesù), Francesco Di Carlo (“uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Altofonte di cui, all’epoca, era consigliere e di cui, in seguito, sarebbe diventato sottocapo). In tale occasione veniva concluso l’accordo di reciproco interesse, in precedenza ricordato, tra “cosa nostra”, rappresentata dai boss mafiosi Bontade e Teresi, e l’imprenditore Berlusconi, accordo realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri che aveva coinvolto l’amico Gaetano Cinà, il quale, in virtù dei saldi collegamenti con i vertici della consorteria mafiosa, aveva garantito la realizzazione di tale incontro.

L’assunzione di Vittorio Mangano (all’epoca dei fatti affiliato alla “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974, costituiva l’espressione dell’accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell’Utri, tra gli esponenti palermitani di “cosa nostra” e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all’interno della villa di quest’ultimo.

In cambio della protezione assicurata Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di “cosa nostra” palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Gaetano Cinà.

5.2. Sulla base di questa premessa, la Corte d’Appello di Palermo osservava che, in realtà, il periodo di tempo in cui Dell’Utri, lasciato l’incarico di segretario personale di Berlusconi, era passato a lavorare con Alberto Rapisarda (a capo di uno dei maggiori gruppi immobiliari italiani), assumendo le cariche di amministratore delegato della s.p.a. “Bresciano”, di consigliere della s.p.a. “Cofire” e della “Inim immobiliare” (quest’ultima costituita dopo il concordato fallimentare della “Facchin e Gianni” di cui Rapisarda era socio al 60% insieme con Francesco Paolo Alamia e Angelo Caristi), non coincideva con il quadriennio 1978-1982, ma era molto più breve, essendosi protratto soltanto tra il 1978 e il 1979, anno in cui la s.p.a. “Bresciano” falliva. A sostegno di tale assunto venivano evidenziate le seguenti risultanze:

le dichiarazioni rese il 26 giugno 1996 e il 29 novembre 2004 da Dell’Utri, il quale riferiva di essere stato amministratore delegato della s.p.a. “Bresciano” dal gennaio 1978 alla fine del 1979, allorché la società era fallita, di non avere, da allora, avuto più niente a che fare con aziende e società del gruppo Rapisarda e di essere tornato di fatto a lavorare per Silvio Berlusconi sin dal 1980, pur se l’assunzione formale era avvenuta l’1 marzo 1982;

le dichiarazioni rese da Rapisarda che ammetteva di essere scappato, sin dal febbraio 1979, dapprima in Venezuela e, quindi, in Francia, in una casa presa in affitto da Alberto Dell’Utri (fratello di Marcello) per sfuggire al provvedimento restrittivo emesso nei suoi confronti nel 1979 per il fallimento della società “Venchi Unica 2000”.

Il breve periodo di allontanamento lavorativo di Dell’Utri da Berlusconi veniva ritenuto inidoneo ad incidere sul ruolo d’intermediario svolto dall’imputato tra “cosa nostra” palermitana e Silvio Berlusconi ai fini della protezione di quest’ultimo, ove valutato insieme con un complesso di altri elementi in ordine ai quali la Corte d’Appello forniva una giustificazione razionale, sorretta dal puntuale esame delle emergenze probatorie acquisite.

Le doglianze difensive su questi aspetti non censurano, in realtà, la struttura logico-argomentativa della sentenza impugnata sinora richiamate, bensì, per un verso, sollecitano una lettura alternativa delle risultanze processuali – non consentita nel giudizio di legittimità in presenza di una motivazione correttamente sviluppata in ordine alla genesi e alla causale del rapporto di collaborazione lavorativa tra Dell’Utri e Rapisarda e al determinante apporto fornito da Cinà ai fini dell’assunzione dell’imputato – per altro verso sovrappongono l’aspetto attinente alla non contestata conoscenza di Rapisarda da parte di Dell’Utri, tramite la cognata del prof. Giacomo Delitala (cfr. f. 326 della sentenza impugnata), con quello riguardante il fondamentale ruolo appena ricordato di Gaetano Cinà nell’impiego di Dell’Utri presso le società di Rapisarda.

Sotto altro profilo, infine, i rilievi difensivi prendono le mosse da un travisamento del dato probatorio e della motivazione della sentenza impugnata: non è in alcun modo emerso, infatti, che l’assunzione di cariche nelle società di Rapisarda da parte di Dell’Utri celasse l’intervento di Bontade e di Teresi (come sostenuto dal ricorrente), bensì si è correttamente argomentato che Rapisarda era ben consapevole delle spessore criminale di Gaetano Cinà, da lui incontrato insieme con Bontade e Teresi (cfr. ff. 325 e 327 della sentenza impugnata), e appartenente alla medesima “famiglia mafiosa” di Stefano Bontade.

5.3. I rapporti intrattenuti da Dell’Utri con Gaetano Cinà erano contraddistinti da continuità, come dimostrato dal contributo determinante dato da quest’ultimo ai fini dell’assunzione dell’imputato da parte di Rapisarda, ben consapevole della caratura mafiosa di Cinà, degli stretti legami dallo stesso intrattenuti con personaggi di vertice di “cosa nostra” palermitana quali Bontade e Teresi e, per tale ragione, in stato di soggezione psicologica e di timore riverenziale nei suoi confronti, nonché destinatario delle confidenze di Dell’Utri circa i suoi rapporti di conoscenza con esponenti mafiosi per conto dei quali aveva svolto opera di mediazione con Berlusconi, interessato a garantire la sua sicurezza (cfr. dichiarazioni rese da Rapisarda il 5 maggio 1987 nell’ambito del processo relativo al fallimento della s.p.a. “Bresciano, nonché il 22 settembre 1998 nel corso del dibattimento del presente processo; cfr. anche dichiarazioni rese da Dell’Utri il 26 giugno 1996 e il 20 novembre 2004).

Il perdurante rapporto di Dell’Utri con l’associazione mafiosa anche nel periodo in cui lavorava per Rapisarda e la sua costante proiezione verso gli interessi dell’amico imprenditore Berlusconi veniva logicamente desunto dai giudici territoriali anche dall’incontro, avvenuto nei primi mesi dell’anno 1980, a Parigi, tra l’imputato, Bontade, Teresi, incontro nel corso del quale Dell’Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi venti miliardi di lire per l’acquisto di film per “Canale 5” (cfr. f. 333 della sentenza impugnata).

5.4. Nella medesima prospettiva la Corte d’appello di Palermo sottolineava l’importanza della conversazione del 14 febbraio 1980 intercorsa tra Dell’Utri e Mangano.

Ad avviso dei giudici essa era indicativa della natura consuetudinaria e progettuale del rapporto tra i due che proseguiva pur dopo l’arresto (27 dicembre 1974) di Mangano per l’espiazione di una pena definitiva e il suo allontanamento da Arcore a scarcerazione avvenuta (22 gennaio 1975) ed era caratterizzato da un particolare rilievo esterno nelle dinamiche della consorteria mafiosa, come comprovato dall’intervenuta revoca della condanna a morte di Mangano (decretata da Leoluca Bagarella) proprio in virtù del legame esistente tra Mangano e Dell’Utri e del ruolo di tramite con Berlusconi rivestito da quest’ultimo.

La Corte d’appello sottolineava, con iter argomentativo logicamente articolato, che la conversazione era, altresì, indicativa della prosecuzione dei rapporti di collaborazione dell’imputato con Berlusconi, indicato nel corso del colloquio da Mangano come «principale» di Dell’Utri pur in un periodo di tempo in cui questi non era stato ancora formalmente riassunto.

L’espressione («principale») emergente dalla conversazione veniva correttamente posta dai giudici territoriali in correlazione logica con le dichiarazioni rese da Antonino Calderone (“uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Catania) che riferiva di avere partecipato a Milano – in occasione di uno dei viaggi ivi effettuati con il fratello per individuare i soggetti da eliminare nel contesto di una sanguinosa guerra di mafia in corso a Catania – ad una cena al ristorante “Le colline pistoiesi” insieme con Nino Grado, Dell’Utri e Vittorio Mangano, il quale gli aveva presentato Dell’Utri come suo «principale».

5.5. Un ulteriore significativo riscontro dei perduranti contatti tra l’imputato e gli esponenti di “cosa nostra” veniva correttamente individuato dai giudici di merito nelle dichiarazioni del suddetto collaboratore di giustizia Calderone che collocava un incontro a Milano tra Stefano Bontade (da lui accompagnato in auto in questa come in altre occasioni) e Dell’Utri nel periodo in cui quest’ultimo già lavorava per Rapisarda, membro di una società di costruzioni insieme con tale Alamia.

5.6. L’ininterrotta prosecuzione dei rapporti intrattenuti da Marcello Dell’Utri con gli esponenti mafiosi, che avevano concluso, con la sua intermediazione, l’accordo di protezione di Berlusconi in cambio della corresponsione di rilevanti somme di denaro, veniva altresì desunta dai giudici, con spiegazione immune da vizi logici e giuridici, da altri due avvenimenti, pressoché coevi:

– la partecipazione, nel corso del 1979 (ossia nel periodo di tempo in cui l’imputato non lavorava più alle dipendenze di Silvio Berlusconi) ad una cena tenutasi nella villa di Stefano Bontade, cui aveva preso parte una ventina di persone, tra cui Di Carlo, Bontade, Teresi;

– la richiesta, rivolta da Dell’Utri a Cinà, di occuparsi della “messa a posto” per l’installazione delle antenne televisive, questione poi effettivamente risolta da Bontade e Teresi.

I giudici, sulla base di un puntuale ragionamento e della compiuta analisi degli elementi probatori acquisiti, evidenziavano che tale episodio, da mettere in correlazione con l’interesse del gruppo “Fininvest” nel settore delle emittenti private e, in particolare, con la prima trattativa di “Fininvest” per l’acquisto, da parte della s.r.l. “Rete Sicilia” (società collegata a “Fininvest”) di “TVR Sicilia”, dimostrava la continuità dei rapporti intrattenuti da Dell’Utri con Cinà e il suo ruolo di mediatore, pur nel periodo in cui non operava alle dipendenze di Berlusconi.

5.7. Nella medesima linea di continuità dei contatti intrattenuti dall’imputato con i medesimi esponenti di spicco dell’associazione mafiosa denominata “cosa nostra” veniva richiamata, nel contesto di un ragionamento probatorio logicamente strutturato, la partecipazione di Dell’Utri al matrimonio di Girolamo Fauci (condannato per traffico internazionale di sostanze stupefacenti), celebratosi a Londra il 19 aprile 1980 e che aveva visto tra gli invitati anche Cinà, Girolamo Teresi (testimone della sposa), Di Carlo. La Corte d’appello osservava che la presenza dell’imputato ad un evento che vedeva, tra gli altri, il coinvolgimento di un esponente mafioso di primo piano e latitante, quale Di Carlo, assumeva una significativa valenza probatoria nella logica mafiosa, implicando un rapporto di particolare affidamento, come del resto comprovato dalle lodi di Dell’Utri fatte da Teresi, che aveva manifestato, in tale contesto, la volontà di “combinarlo”, dalla raccomandazione rivolta da Teresi a Dell’Utri di mettersi a disposizione di Di Carlo, qualora questi, pur se latitante, fosse transitato da Milano, e, infine, dalla disponibilità manifestata, in tale circostanza, da Dell’Utri che aveva fornito a Di Carlo il suo numero di telefono.

5.8. Il contesto giustificativo della decisione circa la responsabilità di Dell’Utri in ordine al delitto a lui ascritto nel periodo 1978-1982 era ulteriormente arricchito dall’approfondita analisi delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia (Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, entrambi “uomini d’onore” della “famiglia” della Noce, e Antonino Galliano, “uomo d’onore riservato” della famiglia della Noce) in merito alla prosecuzione dei pagamenti effettuati, in attuazione dell’accordo concluso nel 1974 a Milano tra gli esponenti di “cosa nostra” palermitana e Silvio Berlusconi, grazie all’opera d’intermediazione dell’imputato, anche nel lasso di tempo in cui Dell’Utri non lavorava formalmente alle dipendenze di Berlusconi.

I giudici, con motivazione diffusa, coerente e fondata sul puntuale esame del contributo conoscitivo fornito da ciascuno dei collaboratori e sui punti di reciproca convergenza del loro rispettivo narrato, osservavano che dalle suddette dichiarazioni emergeva che i pagamenti di Berlusconi in favore di “cosa nostra” palermitana – quale corrispettivo per la complessiva protezione a lui accordata e in attuazione dell’accordo raggiunto nel 1974 con la mediazione di Dell’Utri – erano proseguiti senza soluzione di continuità e che, dopo la scomparsa di Stefano Bontade e di Girolamo Teresi (avvenute entrambe nel 1981), erano stati effettuati ai fratelli Giovan Battista e Ignazio Pullarà, divenuti reggenti del mandamento di S. Maria del Gesù e subentrati nei rapporti da essi intrattenuti. I soldi venivano materialmente riscossi a Milano presso Dell’Utri da Gaetano Cinà che provvedeva a recapitarli a Stefano Bontade e, dopo la morte di quest’ultimo, li faceva pervenire ai Pullarà tramite Pippo Di Napoli e Pippo Contorno, “uomo d’onore” della stessa “famiglia” mafiosa.

Particolare rilievo logico, nell’ottica della continuità dei pagamenti, veniva poi correttamente attribuito dai giudici di merito alle propalazioni di Ganci e Anzelmo i quali concordemente riferivano in merito alle rimostranze fatte, intorno al 1985, da Dell’Utri a Cinà per il comportamento assunto dai Pullarà che «tartassavano» Berlusconi. La sentenza impugnata argomentava che tali dichiarazioni trovavano ulteriore conferma nel racconto di Angelo Siino ed erano espressive di un’ininterrotta prosecuzione dei versamenti di denaro da Berlusconi a “cosa nostra”, tramite Dell’Utri, il quale, nel corso del tempo, si era dimostrato piuttosto critico a causa dell’atteggiamento dei Pullarà.

La sentenza impugnata metteva in luce l’attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, soggetti tutti inseriti a vario titolo nel sodalizio di stampo mafioso, la loro idoneità a riscontrarsi reciprocamente circa la perdurante attualità, pur dopo la morte di Stefano Bontade, dell’accordo concluso a Milano nel 1974, grazie all’intermediazione di Marcello Dell’Utri, tra Berlusconi e “cosa nostra” palermitana che curava l’esecuzione del patto e si poneva anche come garante del risultato.

6. I rilievi difensivi articolati nell’ambito del secondo e del terzo motivo di ricorso, con i quali si denunciano i vizi di violazione di legge e di difetto della motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità del reato ascritto a Dell’Utri nel periodo 1978-1982 non sono fondati sotto plurimi profili e propongono censure già dedotte con le due memorie difensive presentate nel corso del nuovo giudizio d’appello sotto forma, rispettivamente, di motivi nuovi e di nota di discussione, cui la sentenza impugnata ha fornito compiuta e corretta risposta.

6.1. L’esame delle doglianze presuppone l’indicazione delle questioni precluse a seguito della sentenza della Quinta Sezione Penale di questa Corte del 9 marzo 2012 in ordine alle quali, quindi, non può essere sollecitata una nuova decisione del Collegio.

È già stata positivamente vagliata nel precedente giudizio di legittimità l’attendibilità soggettiva e oggettiva delle propalazioni dei collaboratori di giustizia (Di Carlo, Calogero Ganci, Galliano, Anzelmo, Ferrante, Cucuzza), tutti “uomini d’onore”, i quali, in ragione di tale loro posizione soggettiva, avevano avuto modo di apprendere, ora dal capo-mandamento Raffaele Ganci (Calogero Ganci e Anzelmo), ora dalla voce di Cinà (Di Carlo e Galliano), ora dalla voce del reggente Biondino (Ferrante) fatti attinenti alla vita del sodalizio, in parte del tutto sovrapponibili ed in parte strettamente concatenati. Essi riguardavano i seguenti aspetti: a) incontro svoltosi a Milano tra Bontade, Teresi, Di Carlo, Berlusconi, Dell’Utri, propiziato dall’iniziativa di Dell’Utri, il quale aveva fatto da intermediario tra i membri di “cosa nostra” palermitana e l’imprenditore e aveva sfruttato i suoi rapporti di amicizia con Cinà che, a sua volta, aveva reso possibile l’interessamento di mafiosi di alto rango; b) la conclusione, su base paritaria, nel 1974, dell’accordo tra Berlusconi, interessato a potere contare sulla protezione dell’associazione nella sfera personale ed economica, e i vertici dell’associazione mafiosa (Bontade e Teresi); e) l’assunzione ad Arcore di Mangano da porre in stretta correlazione causale con l’accordo concluso e costituente la risultante dei convergenti interessi di Berlusconi e di “cosa nostra” palermitana (cfr. ff. 101 e ss. della sentenza del 9 marzo 2012); d) le ragioni della presenza ad Arcore di Mangano che avrebbe dovuto dare esecuzione o, comunque, visibilità esterna al patto di protezione e divenuto, dopo poco tempo dall’assunzione ad Arcore, “uomo d’onore” affiliato della “famiglia” mafiosa di Porta Nuova, aggregata a quella comandata da Bontade (cfr. f. 101 e ss.); e) la non gratuità dell’accordo protettivo e collaborativo concluso, sempre grazie all’opera d’intermediazione di Dell’Utri, tra Berlusconi e l’associazione mafiosa (cfr. f. 103 e ss., dove vengono indicate, quale riscontro, anche le dichiarazioni rese dal collaboratore Scrima, “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Porta Nuova); f) l’effettività dei pagamenti effettuati a “cosa nostra” da parte di Berlusconi, in relazione all’accordo sulla protezione da lui stesso sollecitata (cfr. f. 103, dove si sottolinea la convergenza del narrato di Di Carlo, Galliano, Cucuzza, Scrima); g) l’inidoneità delle discrasie attinenti ad un profilo secondario, quale l’ammontare degli importi effettivamente versati, ad incidere negativamente sulla capacità probatoria delle richiamate fonti dichiarative (cfr. f. 105).

Parimenti precluse, tenuto conto della struttura argomentativa della sentenza pronunciata dalla Quinta Sezione Penale di questa Corte e dell’ambito del devolutum, sono le questioni riguardanti: a) l’oggettiva prosecuzione sino al 1992 dei pagamenti effettuati da Berlusconi in favore di “cosa nostra” palermitana in attuazione dell’accordo concluso nel 1974 sia per la protezione garantita che per profili economici (cfr. ff. 106 e s. della sentenza del 9 marzo 2012); b) il ruolo di Cinà nella riscossione delle somme di denaro nell’interesse dell’organizzazione, anche quale diretto emissario del capo del sodalizio mafioso, Salvatore Riina, dopo l’estromissione dei fratelli Pullarà, subentrati nei rapporti in precedenza tenuti da Bontade e Teresi, secondo quanto riferito concordemente dai collaboratori di giustizia Di Carlo, Calogero Ganci, Anzelmo, Galliano, Ferrante (cfr. ff. 107 e ss.); e) la suddivisione dei soldi riscossi da Cinà tra le singole “famiglie” mafiose, tra cui quella di Ganci e quella retta da Biondino (cfr. f. 107); d) l’impossibilità di assimilare – come prospettato invece dalla difesa dell’imputato – le relazioni intrattenute da Dell’Utri con Mangano e con Cinà, anche dopo l’allontanamento di Mangano dalla villa di Arcore, come quelle che connotano il rapporto tra l’estorto (asseritamente Dell’Utri) ed estorsore (“cosa nostra”) e di qualificare Dell’Utri come “vittima di “cosa nostra” (cfr. ff. 106 e 108).

6.2. Le censure difensive omettono di confrontarsi con il tema delle preclusioni illustrate al paragrafo precedente che non consente di affrontare nuovamente in questa sede alcuni temi, quali la natura delle frequentazioni con Cinà e Mangano, la loro irrilevanza probatoria, la negazione dei rapporti di conoscenza con Bontade e Teresi, i motivi sottesi alla presenza di Dell’Utri a Londra nel 1980 in concomitanza con il matrimonio di Girolamo Fauci, l’inattendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Di Carlo, Anzelmo, Calogero Ganci, Galliano, Ferrante, i fatti coperti dalle due sentenze di proscioglimento pronunciate dal Giudice istruttore del Tribunale di Milano nel 1990.

6.3. Sotto altro profilo, i rilievi del ricorrente, fondati sulla lettura atomistica delle singole emergenze, confliggono con i principi costantemente enunciati da questa Corte che ha chiarito che il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti. Il primo è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza. Il secondo momento del giudizio indiziario è costituito dall’esame globale e unitario, tendente a dissolverne la relativa ambiguità, posto che nella valutazione complessiva ciascun indizio (notoriamente) si somma e, di più, si integra con gli altri, con la conseguenza che il limite della valenza di ognuno risulta superato e l’incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria. Pertanto, l’insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto che non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto alla prova diretta (o storica), quando sia conseguita con il rigore metodologico che giustifica e sostanzia il principio del c.d. “libero convincimento del giudice” (Sez. Un., n. 33748 del 12 luglio 2005; Sez. Un., n. 6682 del 4 febbraio 1992).

I rilievi difensivi si pongono in contrasto con questi principi, in quanto propongono un procedimento valutativo incentrato esclusivamente sull’analisi dei singoli indizi e non anche sul loro successivo apprezzamento complessivo, volto a cogliere gli aspetti di collegamento tra gli stessi e la loro confluenza in un contesto dimostrativo unitario.

6.4. Il ricorrente sollecita, inoltre, una non consentita lettura alternativa dei fatti (colloquio di Dell’Utri con Rapisarda nel corso del quale, secondo la difesa, l’imputato rispondeva con una battuta sulle sue amicizie altolocate in ambienti mafiose ad un’analoga vanteria di Rapisarda; ragioni della presenza di Dell’Utri nella s.p.a. “Bresciano” e genesi della collaborazione lavorativa con Rapisarda; motivi sottesi alla presenza a Londra dell’imputato in coincidenza con il matrimonio di Girolamo Fauci) a fronte di un impianto argomentativo puntuale e coerente con le risultanze probatorie, univocamente dimostrativo dei perduranti legami con l’associazione mafiosa e della permanenza delle condotte illecite, pur nel periodo in cui l’imputato non lavorava formalmente alle dipendenze di Silvio Berlusconi.

Infine, per altri aspetti, propone censure in fatto (in quanto tali non consentite nel giudizio di legittimità), concernenti elementi probatori (rapporti tra Dell’Utri e Ciancimino) che non sono stati posti a base dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, ma sono stati utilizzati esclusivamente per meglio delineare la personalità dello stesso.

6.5. Non appaiono fondate le ulteriori censure difensive circa l’irrilevanza delle relazioni sospette mantenute da Rapisarda ai fini degli addebiti formulati nei confronti di Dell’Utri, tenuto anche conto delle due sentenze di proscioglimento di Dell’Utri dai reati di cui agli artt. 416 e 416-bis c.p., pronunziata dal Giudice istruttore del Tribunale di Milano. Invero, esse sono, da un lato, fondate su un’errata lettura dell’iter logico argomentativo seguito dalla Corte d’appello nella ricostruzione delle responsabilità dell’imputato, scevro da qualsiasi automatismo o semplificazione probatoria e, al contrario, incentrato sull’esame puntuale delle singole circostanze di fatto ritenute dimostrative della responsabilità di Dell’Utri e, dall’altro, sono precluse, in quanto hanno già formato oggetto di esame nell’ambito della sentenza della Quinta Sezione Penale di questa Corte che ha respinto l’eccezione di violazione del principio del ne bis in idem (cfr. f. 92 della sentenza del 9 marzo 2012).

7. La sentenza impugnata è esente dai denunciati vizi di violazione ed erronea applicazione della legge penale e di vizio della motivazione anche con riguardo alla ritenuta sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato con riferimento al periodo 1978-1982.

7.1. È ormai incontroversa in giurisprudenza e pressoché unanimemente asseverata dalla dottrina l’astratta configurabilità della fattispecie di concorso “eventuale” di persone, rispetto a soggetti diversi dai concorrenti necessari in senso stretto, in un reato necessariamente plurisoggettivo proprio, quale è quello di natura associativa.

La nozione di “partecipazione” ha una valenza dinamico-funzionalistica che non solo implica un organico e stabile inserimento nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, ma comporta anche, all’interno di essa, l’assunzione di un ruolo effettivo e, in attuazione dei vincoli assunti, l’adempimento dei compiti funzionali al raggiungimento dei scopi perseguiti dal sodalizio e la disponibilità per le attività organizzate dal medesimo. Ne consegue che, sul piano della dimensione probatoria della partecipazione, rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio (Sez. Un., n. 33748 del 12 luglio 2005; Sez. Un., n. 22327 del 30 ottobre 2002; Sez. Un., n. 30 del 27 settembre 1995; Sez. Un., n. 16 del 5 ottobre 1994).

Assume, invece, le vesti di concorrente esterno il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo dell’affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un’effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione e il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminosa della medesima.

La rilevanza e la tipicità della condotte del soggetto “esterno”, dotate delle caratteristiche ora indicate, è delimitata dalla funzione incriminatrice dell’art. 110 c.p. che combina la clausola generale in essa contenuta con le disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato. Ciò postula che sussistano tutti i requisiti strutturali che caratterizzano il nucleo centrale significativo del concorso di persone nel reato. È necessario, quindi, per un verso, che siano realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti gli elementi del fatto tipico di reato descritto dalla norma incriminatrice di parte speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e soggettivamente collegata con quegli elementi. Per altro verso occorre che il contributo atipico del concorrente esterno (sia esso di natura materiale o morale), diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza causale per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, costituito, nella specie, dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dall’esistenza e dall’operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso.

La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta, infine, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del “medesimo reato”. Pertanto il concorrente esterno, pur sprovvisto dell’affectio societatis e, cioè, della volontà di far parte dell’associazione, deve essere consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione.

7.2. La Corte d’appello di Palermo ha correttamente applicato i principi sinora illustrati, in quanto, dopo avere descritto le specifiche condotte poste in essere da Marcello Dell’Utri nel periodo 1978-1982, ha ricostruito l’effettivo nesso condizionalistico tra le stesse e il fatto di reato storicamente verificatosi nelle sue caratteristiche essenziali sia in positivo che mediante l’operazione controfattuale di eliminazione mentale della condotta materiale atipica dell’imputato quale concorrente esterno, integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura, generalizzazioni e massime di esperienza dotate di affidabile plausibilità empirica.

Sulla base di un corretto ragionamento inferenziale, ancorato ad un solido paradigma eziologico e all’intera evidenza probatoria disponibile e di un accertamento condotto ex post, la Corte territoriale è pervenuta alla conclusione, immune da vizi logici e giuridici, circa la reale efficacia condizionante della condotta atipica, quale concorrente esterno, di Dell’Utri. Questi, infatti, nella veste di soggetto costantemente preposto, anche nel periodo 1978-1982, alla consegna agli esponenti del sodalizio mafioso, per conto di Silvio Berlusconi, dei soldi costituenti il corrispettivo della protezione assicurata dall’associazione mafiosa all’imprenditore, agiva, essendo a conoscenza dei metodi e dei fini della stessa, nella consapevolezza e volontarietà del suo determinante contributo causale ai fini della realizzazione, almeno parziale, del programma criminoso perseguito dall’organizzazione mafiosa e della conservazione della stessa che traeva dalla costante riscossione delle cospicue somme di denaro una stabile fonte di arricchimento, immediatamente incidente sulla sua perdurante operatività.

Quanto sin qui esposto consente di affermare che non sono fondate le censure difensive.

Esse, da un lato, contestano genericamente la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato, senza indicare gli specifici passaggi del ragionamento viziato del giudice di merito.

Sotto altro profilo evocano una non più attuale definizione del concorrente esterno quale estraneo all’associazione, cui quest’ultima si rivolge nel momento in cui la “fisiologia” della vita del sodalizio “entra in fibrillazione”, attraversando una fase patologica che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, di un esterno (Sez. Un., n. 16 del 5 ottobre 1994). Tale orientamento, come in precedenza accennato, può dirsi ormai definitivamente superato alla luce della successiva elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite di questa Corte sopra illustrata (Sez. Un., n. 33748 del 12 luglio 2005).

8. Parimenti infondato è il quarto motivo di ricorso con il quale la difesa deduce i vizi di violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla sussistenza del dolo del delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso rispetto al periodo 1983-1992.

La sua analisi impone una duplice premessa.

8.1. La sentenza rescindente ha già ritenuto sussistente il reato per quanto attiene all’elemento oggettivo della prosecuzione dei pagamenti da parte di Berlusconi in favore di “cosa nostra” in cambio della protezione a lui assicurata (f. 119 e ss. della sentenza del 9 marzo 2012)

8.2. Alla luce della nuova formulazione dell’art. 606, lett. e), c.p.p., novellato dall’art. 8 della l. 20 febbraio 2006, n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia “effettiva” e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; e) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 6, n. 10951 del 15 marzo 2006, n. 10951). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione (Sez. 6, n. 10951 del 15 marzo 2006).

Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi – anche a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi “atti del processo” e di una correlata pluralità di motivi di ricorso – in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.

8.3. Esaminata in quest’ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae alle censure mosse dal ricorrente.

La Corte d’appello di Palermo ha, infatti, fornito una giustificazione esaustiva e razionale, diversa da quella in precedenza resa nella sentenza annullata e rispettosa dell’ambito del devolutum, in ordine agli elementi che consentono di ritenere sussistente, al di là di ogni ragionevole dubbio, il dolo del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa anche per il periodo 1983-1992.

In tale prospettiva è stato, innanzitutto, preso in considerazione l’intimo nesso logico esistente tra il seguente complesso di dati, univocamente emergenti dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, Antonino Galliano, Giovan Battista Ferrante, Francesco Scrima, Salvatore Cucuzza, la cui attendibilità, come già sopra detto, è stata positivamente apprezzata dalla Quinta Sezione Penale di questa Corte:

l’irrilevanza del mutamento degli equilibri interni a “cosa nostra” palermitana rispetto alla prosecuzione dell’accordo di protezione stipulato nel 1974 tra gli esponenti mafiosi (Bontade e Teresi) e Silvio Berlusconi per il tramite di Dell’Utri, espressivo dell’importanza e della solidità dello stesso, dell’affidamento reciproco tra le due parti che lo avevano stipulato grazie alla mediazione dell’imputato, il quale rappresentava la persona in cui entrambe riponevano fiducia;

la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro dall’imputato a Cinà, indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione al suddetto accordo, al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di “cosa nostra”, nella consapevolezza del rilievo che esso rivestiva per entrambe le parti: l’associazione mafiosa che da esso traeva un costante canale di significativo arricchimento; l’imprenditore Berlusconi, interessato a preservare la sua sfera di sicurezza personale ed economica;

il rilievo centrale, ai fini della proficua prosecuzione dell’accordo, della figura di Dell’Utri, le cui rimostranze circa il comportamento tenuto dai fratelli Pullarà, nella loro qualità di primari referenti del sodalizio mafioso subentrati nel patto di protezione dopo la scomparsa di Bontade e Teresi, determinavano la loro estromissione per ordine diretto di Salvatore Riina, capo indiscusso dell’organizzazione, che, nell’ottica della strategia complessiva perseguita, riteneva prevalente su ogni altra esigenza quella di una proficua prosecuzione del rapporto con Dell’Utri;

la perdurante centrale importanza dei rapporti intrattenuti da Dell’Utri con Cinà, comprovata non solo dal ruolo avuto da entrambi nella conclusione dell’accordo tra Silvio Berlusconi e “cosa nostra” palermitana, ma anche dalla sostituzione dei fratelli Pullarà con Cinà, disposta da Salvatore Riina quale elemento imprescindibile per restituire serenità al rapporto tra le due parti e consentire la prosecuzione dei pagamenti;

l’incidenza causale, ai fini della concreta attuazione del patto, svolta dal reciproco affidamento tra Dell’Utri e Cinà, persona quest’ultima incaricata dai vertici del sodalizio mafioso della riscossione presso Dell’Utri delle somme di denaro, destinate ad essere ripartite tra le principali “famiglie” mafiose.

Il complesso degli elementi probatori in precedenza menzionati, valutati anche alla luce dell’apporto conoscitivo fornito da Salvatore Cancemi (pur nei limiti ricordati a f. 383 della sentenza impugnata) e dei profili già ritenuti definitivamente acquisiti dalla sentenza del 9 marzo 2012 (oggettiva prosecuzione dei pagamenti, identità delle relative modalità e della causale, riconducibile ad una protezione complessiva di Silvio Berlusconi che l’aveva specificamente sollecitata tramite Dell’Utri, mediatore tra il sodalizio mafioso, interessato ad arricchirsi, e l’imprenditore amico preoccupato di garantirsi la tranquillità sia sul piano personale che su quello economico) sono stati correttamente ritenuti dalla Corte d’appello espressivi della consapevolezza e della volontà del ricorrente di contribuire in modo causalmente rilevante all’operatività del sodalizio mafioso che dalla realizzazione del patto traeva ulteriore linfa per la sua conservazione ed operatività (cfr. f. 366 della sentenza impugnata).

Il discorso giustificativo della decisione è contraddistinto da intrinseca coerenza anche laddove argomenta, richiamando a sostegno le emergenze processuali acquisite, che questa conclusione non è contraddetta dall’episodio del raddoppio delle somme richieste da Riina a Berlusconi, costituente l’espressione non di una rottura del patto originariamente concluso nel 1974, bensì di un disegno volto, da un lato, ad accrescere, dopo oltre un decennio, il guadagno dell’associazione mafiosa e, dall’altro, a ridimensionare l’atteggiamento di Dell’Utri, percepito come più arrogante da Cinà, che ne aveva fatto oggetto di specifica rimostranza all’interno dell’organizzazione, avendo, in talune occasioni, dovuto attendere di essere ricevuto, e in altre, ottenuto la consegna della busta contenente i soldi dal segretario di Dell’Utri.

In tale contesto è stata correttamente sottolineata, al fine di dimostrare la perdurante configurabilità del dolo del delitto previsto dagli artt. 110 e 416-bis c.p., la stretta correlazione logica esistente tra la strategia elaborata da Riina per ottenere somme maggiori, i conseguenti successivi contatti intercorsi su di un piano paritario tra Cinà, quale emissario delle richieste del sodalizio mafioso, e Dell’Utri, quale tramite tra l’organizzazione e l’imprenditore Berlusconi, la piena disponibilità di quest’ultimo a corrispondere i nuovi importi, la prosecuzione delle identiche modalità di riscossione delle somme di denaro a Milano presso dell’Utri ad opera di Cinà.

In presenza di un impianto motivazionale così logicamente articolato appaiono privi di fondamento i rilievi difensivi con i quali vengono denunciate presunte illogicità della sentenza impugnata mediante mirate estrapolazioni di singoli brani e la loro astrazione dall’intero contesto giustificativo.

9. La motivazione della sentenza impugnata è immune da vizi logici anche nella parte in cui, nel rispetto dell’ambito del devolutum, ha proceduto ad un nuovo esame degli dati, ritenuti dalla sentenza rescindente apparentemente distonici con il riconoscimento dell’elemento soggettivo del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa nel periodo 1983-1992.

9.1. I giudici di merito osservavano, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Galliano, riscontrate – contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente – dal contenuto delle conversazioni intercettate il 29 e il 30 novembre 1986, intercorse tra Berlusconi e Dell’Utri, che l’attentato di via Rovani del 1986 era riconducibile all’organizzazione catanese capeggiata da Nitto Santapaola ed era, quindi, del tutto estraneo alla trama dei rapporti tra Berlusconi, Dell’Utri e il sodalizio mafioso in precedenza delineata. Di conseguenza tale accadimento veniva correttamente ritenuto inidoneo ad incidere sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di cui agli artt. 110, 416-bis c.p.

I rilievi avanzati in proposito dalla difesa non attengono alla struttura argomentativa del provvedimento impugnato, bensì, per un verso, sollecitano la valorizzazione esclusiva delle opinioni dell’imputato nell’immediatezza dell’accaduto, di per sé irrilevanti in presenza di elementi obiettivi di segno contrario, e ripropongono la tesi del ruolo di Dell’Utri quale vittima di estorsioni, ormai superato dalla statuizione sul punto della Quinta Sezione Penale di questa Corte (cfr. f. 106 della sentenza).

Per altro verso essi appaiono tesi a prospettare una lettura alternativa dell’attentato del 1986 in via Rovani, di quelli successivi e delle relative conseguenze, non consentita nel giudizio di legittimità in presenza di una motivazione logica e compiuta di tutto il compendio probatorio relativo a tali accadimenti.

9.2. La Corte d’appello, con puntuali riferimenti logici e fattuali (esito delle indagini svolte, contenuto della telefonata intimidatoria ricevuta il 23 febbraio 1988 dall’ing. Adriano Boiocchi, dirigente della “Finivest”), perveniva alla conclusione che anche l’attentato in via Rovani del 28 gennaio 1988 non fosse riconducibile al gruppo mafioso capeggiato da Salvatore Riina.

9.3. La motivazione della sentenza impugnata è esente dai vizi denunciati anche nella parte in cui ha fornito un’interpretazione compiuta ed organica della vicenda del raddoppio delle somme richieste a Berlusconi, tramite Dell’Utri, da parte dell’associazione mafiosa capeggiata da Riina. Nel ricostruire la genesi di tale domanda (rimostranze fatte all’interno del sodalizio mafioso da Cinà a proposito dell’atteggiamento di Dell’Utri in precedenza ricordato) e le sue finalità, la Corte d’Appello è pervenuta alla conclusione, sorretta da solidi argomenti razionali, che essa non ha in alcun modo inciso sulla natura dell’accordo di protezione concluso nel 1974, sulle sue modalità attuative, proseguite con il ritiro delle somme di denaro presso l’ufficio di Dell’Utri da parte di Cinà, sull’affidamento reciproco tra l’imputato e Cinà, comprovato dalle conversazioni intercorse tra il novembre e il dicembre 1986 tra Cinà e Marcello, Alberto Dell’Utri e la loro madre, tutte improntate alla massima familiarità.

I rilievi formulati dal ricorrente circa l’indisponibilità di Berlusconi a corrispondere somme di denaro, desumibile, ad avviso della difesa, dalla telefonata del 27 febbraio 1988 intercorsa tra lo stesso e Renato Della Valle, muovono da una premessa erronea circa il metodo di valutazione della prova indiziaria che, come già sopra accennato, deve essere valutata non solo nella sua specifica valenza, ma in maniera organica insieme con il restante materiale probatorio acquisito. Inoltre, non mettono in luce specifici difetti dell’impianto motivazionale della sentenza, bensì propongono una lettura del singolo dato indiziario più favorevole alle tesi dell’imputato, che non può avere ingresso in sede di legittimità, ove il giudice è tenuto soltanto a verificare che la motivazione della sentenza impugnata sia esaustiva, risponda a canoni di intrinseca razionalità ed espliciti in maniera coerente i passaggi logici sottesi alla decisione adottata nel rispetto del devolutum.

9.4. La non attribuibilità degli attentati ai magazzini “Standa” di Catania, appartenenti alla “Fininvest”, all’azione di “cosa nostra” palermitana veniva plausibilmente motivato dalla Corte d’appello di Palermo mediante il richiamo al contenuto della sentenza emessa dalla Corte d’assise d’appello di Catania nel c.d. processo “Orsa maggiore” (irrevocabile il 10 luglio 2001), acquisita ai sensi dell’art. 238-bis c.p.p., che aveva accertato, con autorità di cosa giudicata, che detti attentati erano stati commessi dalla “famiglia” mafiosa facente capo a Benedetto (Nitto) Santapaola e al nipote Aldo Ercolano, condannati quali mandanti degli incendi e della connessa tentata estorsione.

Di conseguenza appaiono infondati i rilievi difensivi che omettono di valutare tali risultanze processuali e propongono una non consentita lettura parziale delle dichiarazioni rese nel suddetto processo dai collaboratori di giustizia Filippo Malvagna e Giuseppe Pulvirenti, apprezzate dalla sentenza impugnata nel rispetto dei canoni di valutazione probatoria.

Nella medesima prospettiva appare privo di rilevanza il richiamo operato dalla difesa dell’imputato alle dichiarazioni di Giarraffa, destinatario delle confidenze di Alberto Dell’Utri circa le impressioni soggettive che tali accadimenti avevano suscitato nel fratello Marcello.

9.5. Il ricorrente denunzia formalmente una violazione di legge in riferimento ai principi di valutazione della prova di cui all’art. 192, comma 2, c.p.p. e un vizio conseguente della motivazione con riferimento: a) alla sottovalutazione delle doglianze di Dell’Utri circa la condotta dei fratelli Pullarà, da cui si sentiva “tartassato” e alla riluttanza ai pagamenti in tal modo dimostrata; b) alla interpretazione riduttiva data alle dichiarazioni di Galliano sia in ordine alla causale dei pagamenti che alla volontà manifestata da Cinà di non recarsi più a Milano a ritirare i soldi da Dell’Utri a causa dell’atteggiamento scostante da questo dimostrato; c) all’interpretazione errata data dai giudici alla conversazione telefonica intercorsa tra Alberto Dell’Utri e Cinà il 25 dicembre 1986; d) alla pluralità degli attentati alla villa di via Rovani; e) alla ritenuta valenza indiziante attribuita alla partecipazione dell’imputato al pranzo presso il ristorante “Le colline pistoiesi”; f) al giudizio di inattendibilità espresso dalla Corte territoriale con riferimento alle dichiarazioni rese da Giovanni Brusca, ritenute generiche, incerte, contraddittorie, intrinsecamente non credibili e non confortate né oggettivamente né sotto il profilo logico; g) all’interpretazione data alla telefonata del 14 febbraio 1980 fra Mangano e Dell’Utri, dimostrativa, ad avviso della difesa, degli ostacoli frapposti dall’imputato all’accettazione di qualsiasi richiesta rivolta da Mangano a Berlusconi; h) all’omesso adeguato apprezzamento del colloquio del 20 novembre 1986 intercorso tra Berlusconi e Dell’Utri a proposito dell’attentato alla villa di via Rovani; i) alla mancata valutazione delle dichiarazioni di Raffaele Ganci circa la posizione di Dell’Utri nei confronti di “cosa nostra”.

In realtà il ricorrente non critica la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, bensì, postulando un preteso travisamento del fatto, chiede, anche mediante non consentite estrapolazioni mirate di singoli brani delle risultanze acquisite, la rilettura del compendio probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito, inammissibile, invece, in sede d’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata abbia – come nella specie – una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, al contenuto delle prove, indicative univocamente della coscienza e volontà del ricorrente di fornire, quale concorrente esterno, un rilevante e decisivo contributo causale alla realizzazione, almeno parziale, del disegno criminoso e all’operatività dell’associazione mafiosa, nella piena consapevolezza dei suoi metodi e dei suoi fini, assicurandole un costante canale di arricchimento, funzionale alla sua conservazione e all’accrescimento del suo potere economico.

9.6. Non meritano accoglimento neppure le censure difensive riguardanti il ruolo di “vittima” di Dell’Utri (al pari dell’amico Berlusconi) e l’omessa specificazione dei vantaggi tratti dall’imputato dall’opera di mediazione svolta tra Berlusconi e “cosa nostra” palermitana.

Con riguardo al primo profilo il Collegio osserva preliminarmente che la sentenza rescindente ha già stabilito che la dimostrazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa non passa attraverso la necessaria dimostrazione della sussistenza anche del reato di estorsione da parte di Dell’Utri e di “cosa nostra” e che la negazione della commissione di fatti di estorsione da parte di tali soggetti non fa venir meno la configurabilità del reato (cfr. f. 114 della sentenza del 9 marzo 2012).

Ciò posto i giudici territoriali, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, hanno, all’esito del puntuale esame delle risultanze probatorie acquisite, sottolineato la posizione paritaria dei partecipanti all’accordo di protezione e hanno descritto l’assenza di qualsiasi costrizione nella condotta dell’imputato che, avvalendosi dei rapporti personali di cui già godeva a Palermo con taluni esponenti di “cosa nostra” e dell’amicizia con Cinà che gli aveva permesso di caldeggiare la propria iniziativa con speciale efficacia presso di essi, rendeva possibile, con la sua mediazione, un accordo di reciproco interesse tra i vertici dell’associazione mafiosa, nella loro posizione rappresentativa, e l’imprenditore Berlusconi, suo amico. Nel sottolineare la decisività dell’opera di Dell’Utri nel dare vita a questo accordo fonte di reciproci vantaggi per i contraenti, non è stata considerata determinante – in coerenza con le indicazioni offerte dalla sentenza rescindente (cfr. f. 113 e ss.) – l’illustrazione del vantaggio del concorrente esterno ai fini della configurabilità del reato previsto dagli artt. 110 e 416-bis c.p., essendo richiesta, in tale ottica, soltanto la prova della condotta che determina la conservazione o il rafforzamento dell’associazione e non anche il requisito del vantaggio, patrimoniale o meno, del soggetto agente.

9.7. Sono infondati, in quanto non direttamente attinenti all’oggetto dei fatti da provare, i rilievi difensivi riguardanti la vicenda Giarraffa e la testimonianza di Scilabra, che, come emerge chiaramente dalla motivazione della sentenza impugnata, oltre ad essere state sottoposte a rigoroso vaglio critico, sono state considerate ininfluenti ai fini della prova della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, ma sono stati citati unicamente ad colorandum per meglio delineare la personalità del ricorrente.

9.8. Non meritano accoglimento le censure concernenti la configurabilità del dolo del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa.

In proposito la Corte d’appello di Palermo ha, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, dimostrato, con i ragionamenti probatori in precedenza illustrati, che, anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l’imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all’imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione.

9.9. I richiami difensivi non colgono, quindi, nel segno laddove denunciano, sia in relazione al periodo in esame che a quello precedente, violazione di legge ed erronea applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte. Le doglianze, infatti, pur muovendo da una condivisibile premessa in diritto, prescindono, nella concreta fattispecie, da una lettura organica della motivazione della sentenza di secondo grado in ordine all’elemento soggettivo del reato previsto dagli artt. 110, 416-bis c.p. ed estrapolano dal contesto giustificativo della decisione singoli passaggi argomentativi della sentenza impugnata. Quest’ultima, invero, dopo un ampio ed articolato ragionamento fondato sul puntuale esame delle risultanze probatorie, si caratterizza per considerazioni conclusive pienamente rispondenti alla struttura del dolo e per il corretto richiamo ai due momenti della volizione e della rappresentazione che hanno investito, oltre agli elementi essenziali del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, il contributo causale fornito dall’imputato alla realizzazione del fatto tipico, nella consapevolezza e volontà di interagire sinergicamente con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del medesimo reato.

10. Anche il sesto motivo di ricorso non merita accoglimento.

10.1. Occorre premettere che la sentenza della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione del 9 marzo 2012 ha già ritenuto oggettivamente provata la prosecuzione dei pagamenti di Berlusconi in favore di “cosa nostra” palermitana sino a tutto il 1992 (cfr. ff. 128 e ss. della sentenza del 9 marzo 2012) e che l’ambito del devolutum per il periodo compreso tra il 1983 e il 1992 riguarda esclusivamente la configurabilità dell’elemento soggettivo del delitto previsto dagli artt. 110 e 416-bis c.p. nei confronti del ricorrente.

La sentenza impugnata, nel ravvisare la sussistenza del dolo del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, anche per il periodo 1983-1992, ha motivatamente ritenuto di collocare alla fine del 1992 la cessazione della consumazione del reato sulla base di un’attenta e puntuale analisi delle dichiarazioni complessivamente rese dai collaboratori di giustizia e, in particolare, da Ferrante, Scrima, Cucuzza e Cancemi (in relazione a quest’ultimo di richiamano i rilievi in precedenza svolti).

10.2. Con il sesto motivo di ricorso la difesa sollecita, in primo luogo, una non consentita nuova e diversa lettura del contributo conoscitivo fornito dai suddetti dichiaranti, non ammessa nel giudizio di legittimità in presenza (come nel caso in esame) di una motivazione logica, saldamente ancorata alle risultanze probatorie, oggetto di un puntuale e diffuso discorso giustificativo, idoneo ad illustrare le ragioni poste a base della decisione adottata.

Censura, inoltre, l’individuazione del momento consumativo del reato senza, peraltro, tenere conto della preclusione derivante dalla statuizione adottata sul punto dalla Quinta Sezione Penale di questa Corte (cfr. ff. 117 e ss., f. 129). Nella sentenza del 9 marzo 2012 il Collegio ha osservato che il concorso esterno in associazione oppure in quella specificamente mafiosa si atteggia, al pari della partecipazione, di regola, come reato permanente, per tale dovendosi intendere quello nel quale l’agente ha il potere di determinare la situazione antigiuridica, mantenerla volontariamente, rimuoverla, provocando, in quest’ultima ipotesi, la riespansione del bene giuridico compresso, come sottolineato da un’autorevole dottrina.

Nel caso dei reati previsti dagli artt. 110, 416 c.p. oppure 110 e 416-bis c.p. le suddette caratteristiche sussistono nella condotta di colui che (come avvenuto nel caso di specie) favorisce un accordo che sa e vuole, sotto un profilo di causalità necessaria, produttivo di effetti di conservazione e/o rafforzamento per il sodalizio. Tale accordo integra esso stesso il momento consumativo del reato, se dotato di tutti i requisiti per risultare capace di ingenerare negli appartenenti al sodalizio gli effetti innanzi detti, valutabili alla stregua di parametri obiettivi ed ex post.

Nella presente fattispecie, l’accordo serio ed affidabile, consistente nella corresponsione di cospicue somme di denaro in cambio di una complessiva protezione personale ed economica, rappresenta, per colui che se ne fa promotore anche per conto del sodalizio che garantisce la tutela, un evento dotato di rilevanza causale, idoneo a contribuire all’avvio della compressione del bene giuridico (l’ordine pubblico) tutelato, suscettibile di lesione per il solo fatto che un’associazione sia posta in condizioni di estendere ed estenda effettivamente la propria area di operatività sul territorio, sostituendosi anche ai poteri istituzionali, nella garanzia della difesa dei beni fondamentali (libertà, vita) di alcuni cittadini.

La sentenza rescindente ha, inoltre, stabilito che la permanenza del reato si protrae per tutto il tempo in cui il concorrente esterno protragga volontariamente l’esecuzione dell’accordo che egli ha propiziato e di cui si è fatto garante nei confronti dei due partecipanti all’accordo.

Sulla base di tali considerazioni, ha affermato che il reato può dirsi iniziato con la realizzazione dell’accordo tra l’imprenditore Silvio Berlusconi e “cosa nostra” e che la sua cessazione è da individuare nel momento della interruzione dei comportamenti consapevolmente e volontariamente tenuti dall’imputato in esecuzione dell’accordo stesso. In altri termini, il patto di protezione non è stato ritenuto il fatto indicativo della consumazione del reato, bensì un evento dotato di rilevanza causale per la vitalità del sodalizio, i suoi effetti antigiuridici conservano un’efficacia permanente, che può essere colta nei successivi momenti di realizzazione dei pagamenti che non sono indifferenti ai fini della fissazione del periodo di consumazione del reato, atteso che accentuano, approfondendola, l’offesa tipica (cfr. f. 129 della sentenza impugnata).

Ai sensi dell’art. 627, comma 3, c.p.p., in sede di rinvio i principi giuridici sinora illustrati sono vincolanti e la loro validità non può essere ulteriormente messa in discussione.

11. Il settimo motivo di ricorso è anch’esso infondato.

11.1. La premessa da cui esso muove omette di confrontarsi con il contenuto della sentenza della Quinta Sezione Penale di questa Corte (cfr. f. 128) che, nel recepire la tesi giuridica invocata dalla difesa stessa nel precedente giudizio di legittimità, ha stabilito che, nell’ipotesi di contestazione del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, in cui la condotta, iniziata prima dell’entrata in vigore della legge introduttiva di un regime sanzionatorio più severo, sia proseguita anche dopo l’entrata in vigore di quest’ultima, sussiste un unico reato permanente e si applica la disciplina sanzionatoria in vigore al momento in cui la condotta associativa è venuta a cessare (Sez. 5, n. 45860 del 10 ottobre 2012; Sez. 1, n. 40203 del 29 settembre 2010).

Sotto questo profilo, quindi, non solo la questione giuridica prospettata dalla difesa è preclusa, ma è, in ogni caso, confliggente con i principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’assorbimento della condotta meno grave in quella successiva più grave risponde, comunque, al criterio logico per il quale non può ammettersi che, in caso di reato permanente, sia comminata dalla legge una punizione più severa, a causa dell’applicazione del concorso di norme e del cumulo di sanzioni, per colui il quale abbia posto in essere prima una condotta meno grave e poi una condotta più grave, rispetto a chi, nel medesimo arco di tempo, abbia sempre realizzato il fatto più grave.

11.2. La configurabilità del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa contestato al ricorrente rende infondati gli ulteriori rilievi difensivi in tema di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza dell’art. 63, comma 4, c.p. con riferimento alla ritenuta ammissibilità del concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale, previste dai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis c.p.

Le regole dettate in via generale dall’art. 63, comma 4, c.p. non possono essere evocate nel caso in cui la questione concernente l’entità della pena applicabile per effetto della ritenuta sussistenza di più circostanze aggravanti ad effetto speciale è diversamente affrontata e risolta dal legislatore nell’ambito della singola fattispecie criminosa, così come avviene nell’art. 416-bis c.p. (Sez. 6, n. 7916 del 13 dicembre 2011).

Tale disposizione disciplina in maniera autonoma ogni profilo attinente al trattamento sanzionatorio nelle varie forme circostanziate in essa contemplate e, in particolare, prevede espressamente che il riconoscimento della sussistenza dell’aggravante di cui al comma 6 comporta l’aumento da un terzo alla metà della pena stabilita nel comma 4, così derogando alla norma generale.

Le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un., n. 16 dell’8 aprile 1998) hanno del resto affermato che il meccanismo del cumulo giuridico di cui all’art. 63, comma 4, c.p., s’impone quando ricorrano circostanze che, per la loro natura, interrompono il collegamento con la pena stabilita per il reato cui accedono, di talché, avendo autonomia sanzionatoria, non sussiste una base sulla quale apportare gli aumenti successivi.

Di conseguenza, è possibile affermare che, qualora concorrano le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dai commi quarto e sesto dell’art. 416-bis c.p., ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si applica la regola generale prevista dall’art. 63, comma 4, c.p. bensì l’autonoma disciplina derogatoria di cui al comma 6 dell’art. 416-bis, che prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata (Sez. 1, n. 29770 del 24 marzo 2009; Sez. 6, n. 41233 del 24 ottobre 2007).

11.3. Non meritano accoglimento neppure gli ulteriori rilievi formulati nell’ambito del sesto motivo di ricorso.

Allorché colui che partecipi ad un’associazione per delinquere (sia essa di stampo mafioso o di altro tipo) assume veste di promotore, di dirigente, di organizzatore, è punibile solamente a norma del secondo comma, dovendosi escludere il concorso tra le due fattispecie disciplinate rispettivamente dai commi 1 e 2, atteso che quella regolata dal comma 2 assorbe necessariamente la prima. La locuzione contenuta nell’art. 416-bis, comma 2, c.p. («per ciò solo»), assume, in tale ottica, il significato di clausola di consunzione.

Può dunque a ragione affermarsi che, rispetto alla condotta del comma 2, quella del comma 1 costituisce un antefatto naturalmente necessario, inscrivibile nel paradigma del reato progressivo, caratterizzato dall’offesa crescente allo stesso bene giuridico (Sez. 1, n. 7439 del 16 aprile 1984; Sez. 1, n. 10097 del 9 gennaio 1974).

12. Anche l’ottavo motivo di ricorso non può essere accolto.

Dall’intero sviluppo argomentativo della sentenza impugnata si evince che il diniego delle circostanze attenuanti generiche e il complessivo trattamento sanzionatorio sono stati giustificati con la qualità e la natura del reato commesso, espressivo di particolare pericolosità sociale, con le modalità della condotta, protrattasi per un lasso di tempo assai lungo e idonea a ledere in maniera significativa il bene giuridico tutelato dalla norma (l’ordine pubblico), con la complessità e intensità del dolo tipico del concorrente esterno in associazione mafiosa, espresso dai concreti comportamenti illeciti realizzati.

Le censure formulate dalla difesa non tengono conto dell’intero percorso giustificativo, ma si soffermano su aspetti preclusi (l’intento di Dell’Utri di proteggere l’amico Berlusconi) o parziali (v. in particolare la vicenda Chiofalo-Cirfeta) di cui sollecitano una non consentita rilettura in fatto.

13. Al rigetto del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Comune di Palermo che, tenuto conto del numero e dell’importanza delle questioni trattate, della tipologia ed entità delle prestazioni difensive e avuto riguardo ai limiti minimi e massimi fissati dalla tariffa forense (Sez. Un., n. 40288 del 14 luglio 2011), vanno liquidati in complessivi euro quattromila, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte civile comune di Palermo che liquida in complessivi euro quattromila, oltre accessori di legge.

Depositata il 1° luglio 2014.