Le mafie italiane continuano ad investire all’estero
Le mafie italiane continuano ad investire all’estero. Svizzera, Spagna, San Marino, Romania e Regno Unito i paesi più gettonati. Il dato è emerso ieri al Salone Antiriciclaggio tenutosi a Roma e giunto alla sua tredicesima edizione. La cessione di crediti e le cartolarizzazioni (il cui utilizzo è significativamente aumentato grazie alle normative di questi ultimi anni che ne hanno incentivato l’uso, superbonus su tutte) rappresentano il più frequente schema di infiltrazione della criminalità organizzata e di riciclaggio di denaro. Risultano anche aumentati i casi di coinvolgimento in schemi di cartolarizzazione di crediti derivanti da contratti con amministrazioni pubbliche (aziende sanitarie in primis) o da contratti con stazioni appaltanti. Registrazione della società titolare del credito allo stesso indirizzo in cui risultano avere sede altre diverse decine di entità giuridiche, recensioni negative in Google, alti livelli di complessità della struttura proprietaria, significativi livelli di opacità, proprietà della società da parte di fondazioni di diritto olandese (stichting), coinvolgimento come amministratori di soggetti italiani nati in comuni ad alto rischio di presenza mafiosa: sono tutte situazioni che dovrebbero generare nella banca, nel professionista o negli altri destinatari degli obblighi antiriciclaggio il sospetto che possa trattarsi di operazione di riciclaggio. Particolare attenzione andrebbe dedicata al profilo del portafoglio dei crediti ceduti, in specie se collegato a spese non autorizzate da parte della pubblica amministrazione, a contratti pubblici con profili di anomalia nell’aggiudicazione/gestione o a società caratterizzate dalla complessità ed opacità della struttura proprietaria o dalla difficoltà di identificarne i titolari effettivi. Nel corso del Salone è anche stato fatto il punto sulle ultime sanzioni economiche internazionali adottate nei confronti della Russia, sottolineando che anch’esse incidono sull’applicazione della normativa antiriciclaggio e richiedono attente verifiche sia in fase di instaurazione di nuovi rapporti che nella fase di monitoraggio dell’operatività. Da segnalare che il decimo pacchetto di sanzioni Ue contro la Russia, adottato il 25 febbraio scorso, ha aggiunto negli elenchi altre 87 persone fisiche e 34 entità tra le quali anche tre banche russe (Alfa-Bank, Rosbank, Tinkoff Bank). E’ stato poi ricordato che il 2 marzo scorso sono state individuate dall’autorità americana 13 red flag ovvero situazioni dalla cui presenza banche e intermediari dovrebbero far discendere controlli più approfonditi: rientrano in queste fattispecie l’utilizzo di shell companies per l’effettuazione di bonifici, la non coincidenza dell’indirizzo ip del cliente con quello della sua residenza dichiarata, l’effettuazione di transazioni con soggetti con scarsa o nessuna presenza sul web o la riluttanza del cliente nel fornire informazioni sull’utilizzatore finale. 20.4.2023 ITALIA OGGI
DOVE INVESTE LA CRIMINALITÁ ORGANIZZATA – RICERCA
COME E DOVE LE MAFIE E INVESTONO I PROPRI RICAVI IN ITALIA
BANCA D’ITALIA
RICERCA
Le nuove mafie investono nell’economia legale
La criminalità organizzata gestisce enormi quantità di denaro provenienti dalle sue innumerevoli attività illecite. È noto che la maggior parte di questo denaro ormai confluisce nell’economia legale. La metodologia utilizzata per permeare i mercati legali è quella dell’investimento.
Nel 2019, i proventi mondiali della criminalità organizzata hanno rappresentato circa quattro trilioni di dollari, oltre la metà sarebbero reinvestiti nell’economia legale (fonte: UNODC 2019). Le nuove mafie oggi sono assimilabili in tutto e per tutto a delle vere e proprie multinazionali che traggono i loro profitti da attività illecite spesso con il concorso di pezzi deviati della politica, dell’economia e della società civile. La loro esistenza e il continuo sviluppo è frutto di corruzione e all’occorrenza di violenza e intimidazioni. Il tutto, al solo scopo di garantirsi il massimo guadagno possibile.
La criminalità organizzata così com’è strutturata, di fatto, con i suoi investimentiindebolisce l’economia attraverso le varie attività illegali che comportano danni non solo economici ma anche sociali. Le minacce e le intimidazioni all’interno di una comunità, la corruzione dei organismi politici, economici e sociali; la ridotta qualità della vita; la sicurezza personale e l’ordine pubblico compromessi, sono tutti effetti prodotti dalle nuove mafie ormai a livello transnazionale.
Il ruolo sempre più predominante delle contiguità e delle collusioni con i colletti bianchi nella sfera economica e politica e l’uso di pratiche corruttive sono ormai i pilastri portanti della strategia della criminalità organizzata contemporanea. L’infiltrazione nell’economia legale oggi può assumere diverse forme: controllo diretto o mediato delle imprese legali; creazione di monopoli o oligopoli di matrice mafiosa ma occulti; accesso lecito agli appalti e alle sovvenzioni pubbliche e private. Gli investimenti criminali sono ormai penetrati in diversi settori dell’economia. I più colpiti sono: le sovvenzioni europee, il settore della sanità, i vari servizi pubblici fino a quelli delle costruzioni e del turismo.
La maggior parte delle imprese della criminalità organizzata non si trova più in Italia ma è sparsa in Europa e nel resto del mondo, soprattutto nei cosiddetti paradisi fiscali. Le aree con una più profonda penetrazione criminale subiscono un’apparente impennata in termini di reale sviluppo economico. La presenza della criminalità organizzata occulta tuttavia determina un PIL pro capite tra i più bassi negli Stati in cui le mafie influenzano i mercati.
I forti legami con l’ambiente locale, così come i ritorni sociali potenzialmente elevati degli investimenti nell’economia legale, rappresentano la principale ragione di attrattività, ma la realtà socio-economica è ben diversa. Gli affari li fanno solo i mafiosi e non di certo i cittadini. In alcune Nazioni con un tenore di vita relativamente elevato, come Romania e Bulgaria, la penetrazione è più recente e l’attrattività di questi territori potrebbe essere attribuita al fatto che gli ingenti investimenti mafiosi siano graditi poiché creano comunque ricchezza economica e nuovi investimenti con relative opportunità di lavoro (lavoro nero o sfruttamento di tipo schiavistico).
Le buone performance economiche frutto di investimenti mafiosi possono fungere da attrattiva, perché potrebbero esserci più incentivi all’avvio di attività apparentemente lecite ogni volta che l’economia legale offre rendimenti elevati e rischi molto bassi. Pur mantenendo uno stretto rapporto con il territorio di origine, le nostre mafie s’intrecciano con le reti transnazionali e questo consente loro di rafforzare sempre di più il loro potenziale criminogeno. In un mondo in cui la criminalità non conosce confini, la cooperazione internazionale basata sulla condivisione delle informazioni è fondamentale.
Le istituzioni, in particolare forze dell’ordine, magistratura e società civile devono lavorare a fianco a fianco. Il miglior investimento che gli Stati possono fare è di attuare serie politiche sociali e culturali. Senza la cultura della legalità, gli investimenti economici nella lotta al crimine organizzato transnazionale e una vera armonizzazione degli ordinamenti giuridici dei vari Stati membri dell’Unione europea e della Comunità internazionale, la lotta contro queste nuove mafie non si vince. Vincenzo Musacchio
| Affari per 220 miliardi all’anno Le mafie sono una holding finanziaria
La criminalità organizzata è riuscita nel tempo a consolidare e, in taluni casi, rafforzare il proprio status di grande holding finanziaria, in grado di operare, seppur in misura differente, sull’intero territorio nazionale e nella quasi totalità dei settori economici e finanziari del Sistema Paese, con un giro d’affari complessivo stimato dall’Eurispes in circa 220 miliardi di euro l’anno (l’11% del Pil).Contestualmente alle attività criminose, la criminalità organizzata ha, infatti, sviluppato una crescente capacità di infiltrazione nel tessuto imprenditoriale italiano, avvalendosi di quest’ultimo quale luogo privilegiato di riciclaggio del denaro proveniente dalle attività illecite.Tale vocazione “imprenditoriale”, che trova terreno ancora più fertile nell’attuale quadro congiunturale di grave e generalizzata crisi economica (in ragione delle ingenti risorse finanziarie di cui dispone), si manifesta seguendo i principi e le regole proprie della finanza, in primis quello della diversificazione del rischio e del portafoglio degli investimenti. Prefigurandosi quale obiettivo prioritario la massimizzazione dei profitti (ovvero del ritorno economico degli investimenti), la holding del crimine organizzato tende, inoltre, a privilegiare i settori e comparti economici in grado di generare un più alto valore aggiunto, quali: le attività immobiliari, il commercio (all’ingrosso e al dettaglio); i trasporti, il magazzinaggio e le comunicazioni; le costruzioni; la sanità e l’assistenza sociale. Esiste, tuttavia, un terzo aspetto che assume particolare rilevanza ai fini della composizione del portafoglio della holding, in grado di generare un effetto moltiplicatore sulla propensione all’investimento (in specifici contesti territoriali e comparti economici) fondata sulle sole esigenze di diversificazione e massimizzazione dei profitti.In particolare, la possibilità che le risorse di cui dispone la criminalità organizzata subentrino a quelle provenienti dai canali ufficiali (istituzioni pubbliche e sistema bancario) e, conseguentemente, il livello di penetrazione mafiosa in uno specifico settore economico crescono al manifestarsi di circostanze quali: una grave crisi economica (calo del fatturato, degli ordinativi, dell’occupazione e degli investimenti); un eccessivo squilibrio tra domanda e offerta di finanziamenti; un tessuto imprenditoriale caratterizzato dalla prevalenza di piccole e medie imprese (più esposte al rischio di usura, racket ed estorsioni a causa delle maggiori difficoltà di accesso al sistema creditizio); una maggiore diffusione dell’economia sommersa.I tre diversi aspetti (diversificazione del rischio, massimizzazione del profitto, effetto moltiplicatore) influenzano le scelte di investimento della criminalità organizzata in maniera profondamente diversa, integrandosi o compensandosi tra loro a seconda del contesto economico e territoriale.
AGROMAFIA: I TENTACOLI NELLA TERRA Le associazioni mafiose tendono a potenziare la loro azione di infiltrazine e di penetrazione nel mondo imprenditoriale e nell’economia legale, dimostrando una particolare capacità di modernizzazione e di visione dello sviluppo tecnologico e delle trasformazioni economiche. In agricoltura, i principali reati che vengono attribuiti alle associazioni mafiose vanno dai comuni furti di attrezzature e mezzi agricoli all’abigeato, dalle macellazioni clandestine al danneggiamento delle colture, dall’usura al racket estorsivo, dall’abusivismo edilizio al saccheggio del patrimonio boschivo, per finire al caporalato e alle truffe, consumate, a danno dell’Unione europea.Le agromafie insistono soprattutto nei territori meridionali a produrre le loro attività illecite, ricercando un forte alimento nelle difficoltà in cui si trovano le imprese agricole sempre più esposte agli effetti devastanti della scarsa disponibilità di soddisfacenti risorse finanziarie. Così accade che le possibilità di investimento nelle campagne decrescono miseramente e nello stesso tempo l’accesso al credito bancario risulta essere difficoltoso anche per il costo molto elevato del denaro. Il bisogno di credito immediato spinge inevitabilmente gli imprenditori agricoli a trovare nuove forme di finanziamento: l’usura e il racket sono, come è noto, le attività illecite da sempre controllate dalle cosche mafioseInoltre, come denunciato dalla Coldiretti, le associazioni criminali, attraverso le suddette pratiche estorsive, finiscono per determinare l’aumento dei prezzi dei beni al consumo. Così la mafia riconsolida il proprio ruolo di industria della protezione-estorsione che l’aveva caratterizzata, fin dalle origini, assumendo di fatto il controllo politico ed economico dell’impresa e dell’imprenditore. Non solo, ma intervenendo nel meccanismo di formazione dei prezzi, si pone come soggetto autorevole di intermediazione tra i luoghi della produzione e il consumo, assumendo l’identità di un centro autonomo di potere.L’azienda “Mafia” attraverso il sistema di imprese affiliate o collegate è in grado, come sottolineato dalla Direzione Investigativa Antimafia, di condizionare e di controllare l’intera filiera agroalimentare, «dalla produzione agricola all’arrivo della merce nei porti, dai mercati all’ingrosso alla Grande Distribuzione, dal confezionamento alla commercializzazione». Di fatto, la progressiva diffusione delle agromafie si traduce in una perdita di sicurezza sociale del cittadino e di un impoverimento dell’economia dei territoriIn tempi di globalizzazione economica e di speculazioni finanziarie, le mafie hanno profondamente mutato le strategie economico-finanziarie di penetrazione e di arricchimento illecito: attraverso i processi di integrazione monetaria e gli strumenti forniti dall’innovazione tecnologica hanno reso più difficilmente ricostruibili i flussi finanziari di conversione del denaro illecito, utilizzando anche la “moneta telematica” insieme ai tradizionali luoghi del riciclaggioLe agromafie investono i loro ricchi proventi in larga parte in attività agricole, nel settore commerciale e nella grande distribuzione. Un altro filone in cui l’agrocrimine si manifesta è quello della contraffazione dei marchi e degli imballaggi di vendita dei prodotti agricoli. Secondo la Coldiretti: «La diffusività e l’entità del fenomeno del falso Made in Italy ed il volume di affari connesso a condotte illegali o a pratiche commerciali improprie nel settore agroalimentare sono, ormai, di tale rilievo da poter a ragione parlare dello sviluppo di vere e proprie Agromafie, la cui crescita ed espansione appaiono supportate dall’inadeguatezza del sistema dei controlli e della comunicazione dei dati e dalle informazioni, sia con riferimento alla fase dell’importazione dei prodotti agroalimentari, sia con riferimento alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita» .La mafia agricola non si allontana dalla terra di origine e ne controlla ogni sua parte, ogni singolo accadimento viene sentito, intercettato e fatto proprio. La ’Ndrangheta, pur manifestando la continua volontà di espansione sull’intero territorio nazionale (e non solo), non abbandona mai il controllo sociale ed economico del territorio calabrese, in particolare rivendica il proprio dominio sulle attività agricole e sulla pastorizia, e allo stesso tempo, si ingegna per realizzare frodi ai danni della Comunità Europea (si pensi al fenomeno delle cosiddette “arance di carta”).Nel territorio campano, i clan camorristici investono i capitali illeciti acquistando aziende agrarie, vasti appezzamenti di terreno e diversi caseifici. La Camorra riafferma la sua forte identità criminale, radicata nelle zone di origine, una subcultura deviante, alimentata dai fenomeni di disgregazione sociale e si sviluppa secondo modelli comportamentali che tendono ad aggredire il tessuto sano della società, l’economia legale.In Campania, il fenomeno delle agromafie s’intreccia con altre tipologie di reato proprie dei clan camorristici: lo smaltimento illegale dei rifiuti e il conseguente inquinamento dei terreni e delle falde acquifere. L’azione criminale contro gli agricoltori si esercita attraverso i continui incendi dolosi, i furti di attrezzature agricole e di bestiame, le intimidazioni e le minacce. Inoltre, la Camorra detiene in esclusiva il monopolio sul controllo della manodopera extracomunitaria, impiegata prevalentemente nella raccolta del pomodoro.La Dia segnala, in particolare, il coinvolgimento delle cosche mafiose nella gestione degli affari del mercato ortofrutticolo di Fondi in provincia di Latina, il cui potenziale commerciale è tra i primi in Europa. Inoltre, indagini più recenti confermano penetrazioni dell’agrocrimine camorrista in altre regioni italiane, come ad esempio l’Umbria, dove interessi mafiosi si manifestano nel settore agricolo.In Sicilia una importante e delicata inchiesta è stata avviata ad analizzare le infiltrazioni di Cosa Nostra nel grande mercato ortofrutticolo di Vittoria, in provincia di Ragusa: sembrerebbe che il filo nero delle agromafie governi le principali direttrici del commercio dell’ortofrutta, attraverso i poli di Vittoria e Fondi, fino a raggiungere la potente area commerciale milanese. La mafia, inoltre si garantirebbe l’esclusiva di decidere il prezzo di vendita delle merci, sostituendosi arbitrariamente alle imprese produttrici che vedono gradualmente immiserirsi i propri ricavi.Neppure risulta immune la Basilicata, regione ritenuta fino a qualche anno fa al riparo da gravi fenomeni criminali ed ora considerata al centro di episodi violenti e criminosi che colpiscono in particolar modo il settore agricolo (aggressioni, furti di mezzi e prodotti agricoli, l’abigeato e in genere il racket sull’intera filiera sono i principali reati).Secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, le agromafie, in questo periodo di fragili certezze e di insicurezza sociale diffusa, ristabiliscono il loro ruolo di mediazione economica e sociale, l’identità di “industria della protezione-estorsione”, dispensatrice malevola di sicurezza-rassicurazione per il libero esercizio dell’impresa agricola. Il pensiero criminale della mafia non si cura della bellezza dei luoghi, della promozione del prodotto agricolo dei territori; il suo agire non ha come fine l’interesse della comunità, ma, al contrario, attraverso le oscure manovre di sofisticazione e di contraffazione dei beni alimentari, minaccia il benessere sociale e la stessa sicurezza alimentare del singolo consumatore.Fatto sta che la criminalità organizzata non solo continua a radicarsi nelle regioni meridionali danneggiandone l’economia già debole per altri aspetti, ma segna una massiccia espansione anche nel Nord della Penisola e, in specie, nelle grandi aree metropolitane dove gruppi facenti capo a mafia, ’ndrangheta, e camorra, penetrano negli apparati degli Enti locali per controllare le procedure di affidamento di appalti e opere pubbliche.Inoltre, in considerazione del fatto che la parte più cospicua dell’industria di trasformazione alimentare per volume di produzione e fatturato risulta localizzata nelle stesse regioni del Centro-Nord, non ci si può nascondere che la serie innumerevole di frodi commesse a danno dei consumatori attraverso quello che potremo definire il “furto” delle identità materiali e immateriali dell’autentico Made in Italy abbia luogo là dove più forte si levano le invocazioni alla libera concorrenza del mercato e le censure alla disfunzione del sistema istituzionale dell’altro capo del Paesen questo senso, una delle figure più controverse è quella dei cosiddetti “colletti bianchi” che operano nel settore agroalimentare e che stanno acquisendo un ruolo strategico per le organizzazioni criminali inserite nel business delle agromafie e interessate soprattutto a spostare l’asse dell’illegalità verso una zona neutra, di confine, nella quale diviene sempre più difficile rintracciare il reato.
NON SOLO AGROMAFIA: L’ITALIAN SOUNDING, QUANDO IL CRIMINE È LA CONTRAFFAZIONE Nell’Italian sounding rappresenta la forma più diffusa e nota di contraffazione e falso Made in Italy nel settore agroalimentare. Sempre più spesso, la pirateria agroalimentare internazionale utilizza, infatti, denominazioni geografiche, marchi, parole, immagini, slogan e ricette che si richiamano all’Italia per pubblicizzare e commercializzare prodotti che non hanno nulla a che fare con la realtà nazionale.A livello mondiale, le stime indicano che il giro d’affari dell’Italian sounding superi i 60 miliardi di euro l’anno (164 milioni di euro al giorno), cifra 2,6 volte superiore rispetto all’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari (23,3 miliardi di euro nel 2009). Gli effetti economici diretti dell’Italian sounding sulle esportazioni di prodotti agroalimentari realmente Made in Italy, si traducono, inevitabilmente, in effetti indiretti sulla bilancia commerciale, in costante deficit nell’ultimo decennio (3,9 miliardi di euro nel 2009).Secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, per giungere ad un pareggio della bilancia commerciale del settore agroalimentare italiano, ad importazioni invariate, sarebbe sufficiente recuperare quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari dell’Italian sounding. Il recupero di quote di mercato per un controvalore economico superiore al 6,5%, avrebbe, viceversa, assicurato un surplus della bilancia commerciale, con effetti positivi sul Pil del comparto agroalimentare e dell’intero Sistema paeseSiamo di fronte a un inganno globale per i consumatori che causa enormi danni economici e di immagine alla produzione e all’esportazione italiana di prodotti agroalimentari. Gli esempi sono innumerevoli e si differenziano sia per natura merceologica, sia per paese di origine: se il Parmesan è la punta dell’iceberg diffuso in tutto il mondo, c’è anche il Romano prodotto nell’Illinois con latte di mucca anziché di pecora, il Parma venduto in Spagna senza alcun rispetto delle regole del disciplinare del Parmigiano Reggiano o la Fontina danese e svedese molto diverse da quella della Val d’Aosta, l’Asiago e il Gorgonzola statunitensi o il Cambozola tedesco, imitazione grossolana del formaggio con la goccia.La lista è lunga anche per i salumi, con la presenza sulle tavole del mercato globale di pancetta, coppa, prosciutto Busseto Made in California, ma anche di falsi salami Toscano, Milano e addirittura di soppressata calabrese tutelata dall’Unione europea come prodotto a denominazione di origine. E non mancano casi di imitazione tra i prodotti simbolo della dieta mediterranea come il Pompeian olive oil che non ha nulla a che fare con i famosi scavi, ma è prodotto nel Maryland, o quello Romulo prodotto dalla Spagna con la raffigurazione in etichetta di una lupa che allatta Romolo e Remo. Spaghetti, pasta milanesa, tagliatelle e capellini milaneza prodotti in Portogallo, linguine Ronzoni, risotto Tuscan e polenta dagli Usa e penne e fusilli tricolore Di Peppino prodotti in Austria sono alcuni esempi di primi piatti taroccati; mentre tra i condimenti risaltano i San Marzano: pomodori pelati grown domestically in the Usa o i pomodorini di collina cinesi e la salsa bolognese dall’Australia.Il comun denominatore dei sopra citati esempi di imitazione e contraffazione di prodotti agroalimentari italiani, è la spinta motivazionale da cui tali comportamenti traggono origine e si diffondono a livello globale. Tale spinta motivazionale consiste nell’opportunità, per un’azienda estera, di ottenere sul proprio mercato di riferimento un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza, associando indebitamente ai propri prodotti valori riconosciuti ed apprezzati dai consumatori stranieri, il vero Made in Italy agroalimentare, in primis la qualità.
OGNI ANNO SOTTRATTI AL VERO MADE IN ITALY 51 MILIARDI DI EURO Nel 2009 il settore dell’industria alimentare italiana ha registrato un fatturato complessivo di 120 miliardi di euro (fonte: Federalimentari), mentre il settore agroalimentare propriamente detto, escluso il settore della silvicoltura, ha registrato un fatturato di 34 miliardi di euro (fonte: Ismea). Il giro d’affari complessivo si aggira su circa 154 miliardi di euro; in sostanza un giro d’affari che nel 2009 è stato pari a circa il 10% del Pil italiano 2009, secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti.Nel nostro Paese sono state importate nel 2009 circa 27 miliardi di euro in materie prime, che sono state alternativamente: – vendute direttamente nel nostro Paese, quindi con un marchio “Made in (paese di provenienza)”; – trasformate tramite almeno un processo dall’industria alimentare, e che, secondo la normativa attuale, possono fregiarsi del marchio Made in Italy. Occorre ricordare che, di tutte le materie prime importate, parte sono classificate come importazioni temporanee. Per importazioni temporanee si intendono quelle importazioni di prodotti che vengono poi rivenduti sul mercato estero dopo una qualche trasformazione che avviene in Italia ovvero importazioni di merci provenienti da uno Stato estero introdotte temporaneamente nel territorio nazionale a scopo di perfezionamento (lavorazione, trasformazione).Queste merci, pur contenendo prodotti agricoli non italiani, data l’attuale normativa, possono essere rivendute all’estero con il marchio Made in Italy; ciò significa che su 27 miliardi di euro di importazioni, una parte di queste materie prime importate sono state senz’altro riesportate come Made in Italy. Ma valutare l’entità del fenomeno solo sulle importazioni temporanee tende a sottostimarlo per due sostanziali motivi: da un lato, sono le imprese a poter decidere di dichiarare alle dogane se le loro importazioni sono temporanee o definitive; se le dichiarano come temporanee ottengono dei vantaggi fiscali che possono non valere il rischio di essere “smascherate” dai consumatori come aziende i cui prodotti non sono al 100% Made in Italy; dall’altro lato, le importazioni possono essere dichiarate temporanee solo se i prodotti vengono poi riesportati; di conseguenza, valutando l’entità del fenomeno solo su di esse, non si terrebbe conto di tutti quei prodotti importati dall’estero, trasformati in Italia e venduti sul nostro territorio nazionale che, data l’attuale normativa, possono fregiarsi del marchio Made in Italy.Si stima che almeno un prodotto su 3 del settore agroalimentare importato in Italia sia trasformato nel nostro Paese e poi venduto sul nostro mercato interno e all’estero con il marchio Made in Italy. Sulla bilancia dei pagamenti questo significa che almeno 9 miliardi di euro, nel solo 2009, sono stati spesi per importare dei prodotti alimentari esteri che sono poi rivenduti come prodotti nati in Italia.Ma il dato impressionante da questo punto di vista emerge applicando questa proporzione al fatturato complessivo di 154 miliardi di euro: circa il 33% della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati, pari a 51 miliardi di euro di fatturato, derivano da materie prime importate, trasformate e vendute con il marchio Made in Italy, in quanto la legislazione lo consente, nonostante in realtà esse possano provenire da qualsiasi parte del pianeta.Inoltre, se si pensa in termini occupazionali, i prodotti italiani DOP e IGP sono una fonte importante di reddito per almeno 250.000 persone; se si considerano, oltre a queste, anche gli addetti alla produzione dei 4.528 prodotti agroalimentari tradizionali italiani (prodotti i cui metodi di lavorazione risultano essere omogenei nel territorio di produzione, e consolidati da almeno 25 anni), dal fatturato del Made in Italy dipende una porzione non trascurabile degli addetti del settore agroalimentare, che si stima aver occupato 1,2 milioni di persone nell’anno 2009.Inoltre, si consideri che l’attività dei produttori italian sounding e dei falsificatori non colpisce i prodotti Made in Italy esclusivamente nei paesi in cui sono già affermati, ma pone una seria ipoteca sullo sviluppo degli stessi nei mercati emergenti, soprattutto in quei mercati che non hanno espresso completamente la loro domanda potenziale. Si tratta di mercati, come ad esempio quello cinese, costituiti da centinaia di milioni di persone la cui capacità d’acquisto tenderà a crescere nel tempo. Siciliainformazioni.it
«Sulla criminalità serve una visione d’insieme»
A tu per tu con il procuratore generale del Ministero pubblico Stefan Blättler
«Sulla criminalità serve una visione d’insieme. La non condivisione di database delle polizie è una debolezza per la sicurezza». Stefan Blättler, Procuratore generale della Confederazione appena rieletto dall’Assemblea federale, sa bene di affermare qualcosa di forte, ma è altrettanto cosciente che la risposta potrebbe essere a portata di mano. «La cooperazione è fondamentale. È sufficiente permettere a ogni Polizia cantonale di accedere in maniera elettronica a ogni registro cantonale dei reati criminali».
Un’affermazione, la sua, che nasce da un dato di fatto. Oggi è più facile ottenere informazioni da un Paese straniero che tra un Cantone e l’altro.
«Se le Polizie cantonali oggi non possono accedere ai registri dei reati di ogni Cantone perché i sistemi non sono congruenti, come possiamo avere un’analisi globale della sicurezza del nostro Paese? È una mancanza grave, una debolezza enorme per la nostra sicurezza pubblica. Non possiamo permetterci di continuare ad andare avanti così».
Come si potrebbero cambiare le cose?
«La Conferenza delle direttrici e dei direttori dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia e la Conferenza dei Comandanti delle polizie cantonali stanno lavorando su questo tema. Credo che occorra trovare una soluzione che vada bene al nostro Paese, attraverso una legge o un Concordato. Ma una soluzione va trovata alla svelta perché il sistema di oggi è inaccettabile».
Un’altra frammentazione esistente oggi tra i vari Cantoni è quella dei registri di commercio e dei registri fondiari. Anche questa frammentazione potrebbe essere migliorata per perseguire meglio determinati reati, come ad esempio il riciclaggio di denaro?
«Le regole che determinano il mantenimento di questi registri sono nazionali, sono previsti dalle nostre leggi. Leggi che prevedono che l’esecuzione sia di competenza dei Cantoni. Centralizzare questi registri significherebbe andare contro l’essenza stessa del nostro federalismo e contro l’organizzazione del nostro Stato».
Quindi non vede anche questo problema come grave?
«Spetta alle polizie passare da un registro cantonale all’altro. Non lo vedo come un ostacolo alle attività investigative e non è un lavoro insormontabile, anche se è un po’ complicato, questo sì, lo ammetto».
Tornando al riciclaggio di denaro, esattamente 25 anni fa è entrata in vigore la legge contro appunto il riciclaggio. Non crede che l’attività di perseguimento penale andrebbe ampliata anche al settore immobiliare, al commercio di oggetti d’arte e alle società di consulenza?
«Il riciclaggio è sempre punibile. Il problema è la sorveglianza. La sorveglianza come la conosciamo oggi avviene attraverso la FINMA che si occupa degli intermediari finanziari e non degli intermediari nel settore immobiliare e del commercio di oggetti d’arte che oggi, è vero, non sono sotto controllo. Ma investire fondi conseguiti in maniera illecita nell’immobiliare e nell’arte costituisce sempre reato».
Va precisato però che quando parliamo di riciclaggio vediamo molto spesso che i fondi destinati ad un investimento in Svizzera sono frutto di attività illecite commesse all’estero
Quindi la sorveglianza, che non è la stessa, andrebbe ampliata?
«È una domanda politica che deve essere discussa in Parlamento. Va precisato però che quando parliamo di riciclaggio vediamo molto spesso che i fondi destinati ad un investimento in Svizzera sono frutto di attività illecite commesse all’estero. Il nostro problema principale è ottenere gli elementi sufficienti per poter provare che si tratta di un atto criminale e che i soldi sono quindi il prodotto di un reato. Un compito non sempre semplice perché normalmente questi proventi sono stati riciclati più volte prima di essere ”ripuliti” ancora in Svizzera. Molte volte siamo davanti all’impossibilità di provare l’atto criminale all’estero».
Una difficoltà che richiama la collaborazione con le autorità di perseguimento penale di altre Nazioni.
«Questo spiega perché alcuni casi richiedono così tanto tempo. Senza l’aiuto di un Paese straniero non possiamo proseguire perché manca l’elemento centrale della prova del riciclaggio di denaro. Dipendiamo in larga misura dalla collaborazione con l’estero».
Una collaborazione che cambia probabilmente da Paese a Paese.
«Ci sono Paesi che non ci rispondono nemmeno, soprattutto in altri Continenti. Viceversa, la collaborazione con i Paesi dell’Europa occidentale funziona molto bene, anche grazie all’esistenza di accordi di cooperazione specifici».
Un’altra lotta che ha una matrice sia interna che sul piano internazionale è quella contro la corruzione. Una lotta che apparentemente produce poche condanne.
«Gli atti di corruzione sono quasi sempre collegati al riciclaggio di denaro. Il più delle volte la corruzione si concretizza all’estero, mentre il reato di riciclaggio avviene in Svizzera. Per questo motivo la lotta alla corruzione emerge meno nelle statistiche. Ma ci siamo. Anche l’OCSE ha giudicato positivamente le nostre attività».
D’accordo, c’è però chi dice che le pene per i reati di corruzione siano un po’ troppo leggere.
«Il nostro diritto penale e in particolare l’articolo 102 del Codice penale permette di condannare un’azienda che dimostra di avere delle mancanze nella sua organizzazione suscettibili di reati, come la corruzione, con una pena massima di 5 milioni di franchi. Se l’azienda in questione è una multinazionale che fa utili per decine di miliardi, manca una proporzionalità. Credo che occorra rivedere l’articolo 102».
Guardo al presente e al futuro e per me è chiaro che la criminalità organizzata di stampo mafioso esiste anche in Svizzera così come è altrettanto chiaro che non possiamo agire da soli
Rivederlo come?
«Dobbiamo alzare i limiti della pena massima, tenendo conto del bilancio di un’azienda, altrimenti non c’è alcuna prevenzione. Non possiamo continuare in questo modo, è limitante».
Un altro campo di attività del Ministero pubblico della Confederazione è quello della lotta alla criminalità organizzata. Rispondendo nel 2021 a una mozione del consigliere nazionale Marco Romano il Consiglio federale ha dichiarato che negli ultimi decenni la presenza e le attività delle organizzazioni di stampo mafioso in Svizzera sono state sottovalutate. Concorda anche lei con questa affermazione?
«Non ho niente da aggiungere a quello che ha detto il Consiglio federale. Guardo al presente e al futuro e per me è chiaro che la criminalità organizzata di stampo mafioso esiste anche in Svizzera così come è altrettanto chiaro che non possiamo agire da soli ma in stretta collaborazione con i nostri colleghi italiani. Ho ad esempio eccellenti rapporti con il responsabile della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Melillo. Un mese fa mi sono recato a Roma per continuare il nostro dialogo. Solo una cooperazione stretta, aperta e fiduciosa può produrre i risultati che vogliamo ottenere nella lotta contro la criminalità organizzata».
È però vero che nel 2021 a Lugano la direttrice della FedPol Nicoletta Della Valle ha detto che le mafie si sono infiltrate anche nell’amministrazione federale, specificando che si tratta di persone che hanno vincoli di parentela con famiglie sotto inchiesta e che non è facile applicare gli strumenti a disposizione in Svizzera.
«Apprezzo molto le analisi della FedPol perché ci dicono dove concentrare meglio gli sforzi e le indagini. Quello che è importante è che vengano sporte denunce che ci permettano di aprire i casi e portare avanti le inchieste. So che non è sempre facile perché una delle caratteristiche delle organizzazioni criminali italiane è la segretezza. Penetrare questo cerchio di persone che hanno legami familiari, cooperano in modo molto stretto e comunicano nel loro dialetto è molto difficile. Al contempo nel nostro Stato di diritto sono le prove a essere centrali. Senza prove non possiamo presupporre che una persona appartiene a una organizzazione mafiosa».
Già, ma come si fanno a ottenere le prove
«Il nostro codice penale prevede mezzi e strumenti di sorveglianza della comunicazione, come pure la possibilità di infiltrazione di agenti nelle organizzazioni criminali. Ma infiltrare qualcuno in una organizzazione di questo tipo è molto difficile e potrebbe essere impiegato anche un altro strumento».
Quale?
«In Italia c’è il sistema dei pentiti, da noi no. Ritengo sia necessario riaprire il dibattito già affrontato in Parlamento».
I pentiti? Sono favorevole a una discussione sull’introduzione di un dispositivo di questo tipo
Quindi sarebbe favorevole ai pentiti?
«Sono favorevole a una discussione sull’introduzione di un dispositivo di questo tipo».
In Italia giusto per rimanere in tema esistono anche diversi strumenti personali e patrimoniali di prevenzione antimafia, non presenti in Svizzera, nati con l’idea di contrastare la zona grigia composta da quei professionisti che si mettono a disposizione delle organizzazioni criminali.
«Capisco perché l’Italia ha dovuto introdurli, essendo le organizzazioni mafiose molto radicate nella società. In Svizzera la situazione è diversa e le organizzazioni sono meno radicate. Il nostro Paese offre però molte opportunità di investimento per queste realtà che sfruttano il nostro sistema economico molto liberale».
Quindi?
«Il successo economico del nostro Paese dipende dal nostro sistema liberale, che è la fonte del nostro benessere e sviluppo. Con più controlli e regolamenti dell’economia possono essere scoperte più rapidamente eventuali attività criminali, ma possono anche essere limitate le attività economiche. Ci troviamo insomma tra due fuochi».
E come se ne esce?
«Ritengo che non possiamo punire il 99% della nostra economia con regole troppo stringenti perché l’1% usa male il sistema. Ciò detto, credo sia opportuno discutere alcune regole probabilmente necessarie per avere una migliore sorveglianza. Mi rendo conto che è una strada difficile da percorrere e non ho una soluzione pronta, perché ogni sistema di controllo significa più impedimenti e questa non può essere la direzione di uno Stato che si basa sulla libera economia».
Regole? Quali?
«Come dicevo poc’anzi andrebbe ripresa la discussione su un regolamento per i pentiti e andrebbe modificato l’articolo 102 del Codice penale per quanto riguarda i casi di corruzione. Oltre a ciò, bisogna anche insistere sulla cooperazione tra Cantoni, Procure cantonali e federali, che oggi funziona. Perché è proprio la cooperazione la nostra chiave del successo. Anche nei confronti degli Stati vicini».
Un altro punto molto importante riguarda il perseguimento dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità
A proposito di obiettivi, lei dirige il Ministero pubblico della Confederazione dal 1° gennaio 2022 ed è stato appena rieletto. Quali sono e saranno i suoi principali campi d’azione alla testa della Procura federale?
«I punti strategici sui quali il Ministero pubblico della Confederazione intende lavorare sono la lotta alle mafie ed alla criminalità organizzata più in generale, la lotta alla corruzione internazionale, al riciclaggio di denaro, mantenendo al contempo il massimo impegno verso le minacce che non si vedono a occhio nudo, come le diverse forme di terrorismo e di preparazione e finanziamento di atti terroristici. Ma non è tutto».
Prego.
«Un altro punto molto importante riguarda il perseguimento dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità. Come Paese sede della Croce Rossa e come Stato depositario delle Convenzioni di Ginevra abbiamo il compito morale di aprire inchieste laddove abbiamo la competenza. Ma c’è ancora dell’altro».
Dica.
«Sempre più atti criminali sono commessi nel mondo digitale e dobbiamo essere pronti ad affrontare anche questa sfida legata alle nuove tecnologie»
CORRIERE DEL TICINO 24.6.2022
La multinazionale dei clan che sta conquistando il mondo
Come nasce il libro “Macromafia. La multinazionale dei clan che sta conquistando il mondo”?
L’idea di questo libro è nata nei Paesi Bassi. Ero andata lì per cercare di capire cosa ci fosse dietro il boom di sequestri di cocaina nel porto di Rotterdam, che non è Gioia Tauro ma il più importante e moderno terminal container d’Europa.
Mi sono trovata davanti un Paese terrorizzato per le azioni criminali e le minacce di un singolo boss, Ridouan Taghi, che dal nulla aveva creato un’organizzazione mafiosa così potente e feroce da sfidare apertamente lo Stato. Taghi ha realizzato in vent’anni quello che ai corleonesi ha richiesto mezzo secolo, importare centinaia di tonnellate di droga grazie a una rete logistica perfetta mentre le istituzioni dei Paesi Bassi non sono state in grado di comprendere come stesse diventando una vera mafia.
Questo mi ha spinto a concentrarmi sulle figure come lui che hanno reso possibile il salto di qualità nel narcotraffico, passando dal trasferimento attraverso l’Oceano di quintali di polvere a quello di tonnellate. E allo stesso tempo al modo in cui questi boss sono riusciti a sfruttare le nuove tecnologie e le falle nelle legislazioni internazionali in modo da incrementare i loro affari.
Le storie e le alleanze raccontate ci portano a guardare boss e criminali in un “macro” sistema illegale in cui il termine mafia sembra forse superato. È così?
Nella dimensione macro dei signori che arbitrano il prezzo della cocaina il termine mafia non è superato. Queste figure non sono semplici broker, perché nel caso dell’olandese Taghi, del bosniaco Gačanin e soprattutto dell’irlandese Kinahan il loro sistema aveva la testa nei grattacieli di Dubai ma i piedi ben piantati nel controllo delle periferie di Rotterdam, Sarajevo e Dublino.
L’unico, stando alle contestazioni dei magistrati, a non comandare un proprio clan è Raffaele Imperiale, a cui però è stato contestato il 416 bis perché il suo contributo all’associazione camorrista sarebbe stato tale da permettergli di vincere addirittura la faida di Secondigliano.
Siamo di fronte ad un’evoluzione del modello mafioso, in cui il controllo del territorio e la forza dell’intimidazione rimangono ma passano in secondo piano rispetto alla creazione di una rete logistico-finanziaria in apparenza pulita che permette di spostare merci proibite e denaro non tracciabile in tutto il mondo.
Dopo aver raccontato le inchieste della Dea e conosciuto le tecniche investigative nostrane, che idea si è fatta sulla possibilità di intercettare e reprimere il crimine organizzato? Quanto siamo indietro a livello di cooperazione internazionale?
L’Italia è stata all’avanguardia nella legislazione antimafia e negli strumenti tecnologici per combattere la criminalità organizzata. Ancora oggi la qualità dei nostri reparti investigativi è considerata straordinaria. Allo stesso tempo però le operazioni contro i sistemi di telefonia criptata che hanno permesso il dilagare del traffico di cocaina e la nascita della Macro Mafia hanno visto come protagonisti altri Paesi europei. Non possiamo pensare di imitare la Dea perché loro hanno la possibilità di compiere attività di provocazione su larga scala: hanno persino creato un operatore di telefonia criptata e lo hanno inserito sul mercato criminale. Ma molte polizie e magistrature europee si sono rivelate più dinamiche, perché i loro Paesi hanno introdotto leggi sulla cybersicurezza che si possono applicare anche ai server usati dai boss e reparti di indagine digitale con ampi poteri. In Italia invece si sta pensando persino di ridurre la possibilità di impiego dei trojan: non credo che ci sarà una spinta del governo o del Parlamento a migliorare le cose. La lezione di quello che è accaduto in Olanda però, dove boss venuti dal nulla hanno assassinato uno dei giornalisti investigativi più noti, fatto esplodere autobombe contro le redazioni e minacciato il premier dovrebbe farci aprire gli occhi sul pericolo di sottovalutare l’evoluzione tecnologica dei clan. DOMANI