“Con Borsellino c’era un rapporto come tra padre a figlio, simbiotico per certi versi… A mia moglie, nel luglio del 1992, Borsellino disse: ‘Gisella, con Peppe è capitato che ci siamo scontrati, anche duramente, come a volte capita tra uomini, ma io ho sempre avuto la consapevolezza di avere davanti una persona leale e che mi voleva bene, non come adesso a Palermo che non so più da chi mi devo guardare prima… A mio modo di vedere il difetto capitale di Borsellino era quello di non ‘tenere la guardia alta’, forse sembrerà paradossale quello che dico, ma tendeva a fidarsi delle persone, anche troppo, quando invece determinate situazioni, determinati contesti e determinate persone avrebbero dovuto renderlo più guardingo…”
Intervista al giudice oggi Sostituto Procuratore Generale a Venezia, che iniziò la carriera nella squadra di Paolo Borsellino a Marsala e nel ’92 lo sentì dire…
Giuseppe Salvo è magistrato dal 1984. Attualmente svolge funzioni di Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Venezia, ma nella sua vita professionale vi sono 5 anni, dal 1987 al 1992, in cui ha lavorato a Marsala quando il procuratore era Paolo Borsellino, 5 anni intensi di vicinanza professionale e familiare. Per questo siamo andati a intervistarlo.
Beppe Salvo si è rivelato un uomo simpatico, umile e alla mano nonostante l’ufficio che ricopre. Ne è nata una conversazione che ha alternato momenti molto ironici ad alcuni molto toccanti, specie nel ricordare, con molta fatica, alcuni mesi terribili del 1992.
Abbiamo parlato di vari argomenti, degli inizi a Marsala e delle indagini di cui si occupavano (i Messina Denaro, i primi collaboratori, Spatola e Calcara), e poi il rientro temporaneo a Palermo con il processo per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il legame con Paolo Borsellino, il dossier mafia appalti e l’addio a Marsala.
La sensazione che abbiamo avuto è che Beppe Salvo sia dovuto andare via da Marsala per sopravvivere psicologicamente ad un anno, il 1992, che gli aveva portato via un pezzo della sua vita.
Visto che leggeranno molti ragazzi vorremmo chiederle che studi ha fatto prima di Giurisprudenza e come arrivò a Marsala.
“In realtà alla magistratura sono arrivato quasi per caso, c’entravo poco o niente. Già da dopo la scuola media avrei voluto fare altro tipo di studi, mi sarebbe piaciuto poter frequentare il Liceo Artistico ma l’istituto era Palermo, io vivevo con la mia famiglia a Marsala e, quindi, avendo 13-14 anni i miei non si posero minimamente la questione. Finii quindi per iscrivermi al Liceo Classico Giovanni XXIII; poi, terminati gli studi alle superiori, avrei voluto frequentare una famosa scuola di grafica pubblicitaria di Milano ma, anche quella volta, i miei non furono d’accordo che io mi trasferissi così lontano da casa, sicché alla fine, obtorto collo, mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo.
Dopo la laurea ho bazzicato per un po’ come “apprendista” in una agenzia di assicurazioni, per poi iniziare la pratica per avvocato: non durò molto, perché il dominus dello studio legale, notando un mio certo disimpegno riguardo ad alcuni aspetti della professione legale, mi fece presente che forse non ero particolarmente versato per l’avvocatura e mi congedò amabilmente suggerendomi di studiare per magistratura.
Devo comunque dire che, in un certo qual modo, avvertivo il fascino della carriera in magistratura, essendo i miei genitori buoni amici del dr. Antonino Marino, all’epoca presidente di sezione della Corte d’Appello di Palermo, e fu proprio lui a consigliarmi di cominciare lo studio per il concorso di magistratura ed a propormi di iscrivermi alla scuola di preparazione, i cui corsi erano tenuti nelle aule dell’istituto “Gonzaga” da due magistrati (Antonio Ardito- pretore del lavoro con una grande passione per il diritto penale – ed Ettore Criscuoli – civilista di gran vaglia- ) e da un valente avvocato dello Stato (Beppe Dell’Aira), che ci insegnava diritto amministrativo.
Cominciai a seguire le lezioni a corso già avviato, era gennaio del 1982, e sei mesi dopo, a giugno, volli provare il concorso di recente bandito, contro lo stesso parere dei miei “insegnanti” perché, a loro avviso, non ancora maturo e pronto per sostenere la prova scritta. Feci di testa mia e sfidai la sorte, consegnando tutti i miei elaborati, anche se avevo forti riserve sulla qualità di almeno uno dei tre scritti.
In autunno ripresero le lezioni al “Gonzaga” fino a che, pochi giorni prima del Natale di quell’anno, durante una lezione il dr. Criscuoli mi si avvicinò per chiedermi se per caso avessi anche un secondo nome un po’ “strano”; risposi “si, mi chiamo Giuseppe e anche Costanzo”, e lui di rimando ”Bene, allora tu sei passato… insieme alla “collega” Flora Randazzo (ben magro bottino, quell’anno, per i corsisti della scuola).
Il 16 febbraio del 1983 – ancora sull’onda emotiva del recentissimo omicidio del Sostituto Procuratore della Repubblica di Trapani, Giangiacomo Ciaccio Montalto, sostenni gli esami orali negli uffici di via Arenula del Ministero di Grazia e Giustizia (al tempo ancora si chiamava così); mi congedai dal Banco di Sicilia, dopo aver vinto un concorso per accesso all’ufficio legale della banca, e restai in attesa del c.d. decreto di nomina.
Passarono mesi, e siccome cominciavo un po’ ad annoiarmi per la lunga e improduttiva attesa, un amico di mio fratello, Giovanni “Nanni” Barracco, che era Pretore a Marsala, mi trovò una collocazione per un apprendistato “non ufficiale”, ad ore perse, presso il dr. Paolo Borsellino, suo caro amico e collega di concorso, a quel tempo Giudice Istruttore presso il Tribunale di Palermo: fu così che ancor prima della mia nomina ad uditore giudiziario – febbraio 1984 – conobbi Borsellino e cominciai a frequentarne l’ufficio.
Andavo a Palermo un paio di mattine alla settimana, assistevo a qualche atto istruttorio (testimoni, interrogatori) seduto ad una piccola scrivania di fianco, prendevo appunti e spunti, era per me un’esperienza bellissima, incredibile… non mi sembrava vero.
A marzo del 1984 iniziò il tirocinio ufficiale (c.d. uditorato) e, dopo essere stato assegnato per un trimestre a rotazione a diversi uffici, all’inizio dell’ estate – complice un periodo feriale un po’ travagliato – si creò un vuoto nella programmazione, per rimediare al quale venni collocato all’Ufficio Istruzione ed affidato al dr. Leonardo Guarnotta, con l’intesa che mi sarei trattenuto non più di un paio di settimane (a quel tempo norme regolamentari vietavano agli uditori di prima nomina di svolgere le delicate funzioni di giudice istruttore, per cui non era prevista l’assegnazione in tirocinio a quell’ufficio).
Quelle prime due settimane alla fine furono in realtà l’intera estate del 1984, visto che Guarnotta mi aveva preso in simpatia e si era offerto di “custodirmi” fino alla fine del periodo feriale. Ero dentro il “bunker”, quello che sarebbe presto diventato l’Ufficio Istruzione più conosciuto e famoso d’Italia, ne facevo a mio modo parte, potevo finalmente conoscere e osservare da vicino quei magistrati (Borsellino, Falcone, Di Lello, Guarnotta, Caponnetto) che fino, a quel momento, erano stati per me figure mitizzate.
C’era il quotidiano rito del caffè della mattina, da prendere al bar interno al palazzo di giustizia, a cui venivo ammesso, giusto perché Falcone, quando incontrava gli altri colleghi, potesse dedicarmi la sua battuta preferita: “Vi presento il collega Salvo … della nota famiglia”; si era proprio fissato con questa storia della battuta sulla mia presunta parentela mafiosa, gli piaceva assai, alludeva agli omonimi Salvo, i cugini Nino e Ignazio, che erano già nel focus delle indagini dei giudici istruttori e che sarebbero stati arrestati nel novembre di quell’anno.
Logicamente Guarnotta mi faceva fare cose ordinarie, niente di complesso, fascicoletti contro ignoti, furtarelli, piccole rapine da strada; però c’era anche di mezzo la comune passionaccia per il calcio e la rituale partita del martedì sera. Guarnotta già era scortato e mi diceva: “Peppe, mi raccomando, stasera alle 8, puntuale come al solito sotto casa mia e poi si va al campo”. Io arrivavo lì con la mia Simca Talbot bianca e lo trovavo davanti alla portineria del condominio dove abitava, già cambiato in pantaloncini, scarpette e con la tuta, lo caricavo in macchina e andavamo al campo nel quartiere San Lorenzo, zona ad alta densità mafiosa.
Nel giugno del 1985 il mio primo incarico, giudice al Tribunale di Mondovì, in provincia di Cuneo, ma prima che partissi Borsellino mi aveva confidato che stava pensando di “cambiare aria” e valutava di trasferirsi da Palermo, per cui gli promisi che se lo avessero nominato Procuratore della Repubblica a Marsala avrei subito fatto domanda per quell’Ufficio, come poi sostanzialmente avvenne, perché lui prese servizio a Marsala il 4 agosto del 1986, ed io a fine luglio dell’anno dopo, nel 1987″.
Quindi ha conosciuto anche il dr. Giovanni Falcone?
“Non ho mai lavorato con Giovanni Falcone, è vero però che con lui ho avuto il privilegio di condividere anche più di un caffè. Talvolta capitava che la domenica fossi a pranzo a casa di Borsellino coi miei familiari e che, nel primo pomeriggio, venissero in visita Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo, ricordo una volta anche il consigliere Caponnetto con sua moglie.
Non posso dire “che i miei maestri sono stati Falcone e Borsellino ”, affermazione che spesso è corsa sulla bocca di colleghi che li avevano conosciuti assai meno di me, e frequentati ancor meno. Pur essendo da sempre stato per me figura di riferimento idealizzata, Falcone non è stato un mio “maestro”, nel senso che non mi ha trasmesso conoscenze professionali e non mi ha insegnato metodi e tecniche di lavoro. È con Borsellino che mi sono avvicinato per la prima volta al mondo delle indagini, cercando di fare tesoro dei suoi insegnamenti, non solo di lavoro ma, anche e soprattutto, umani e personali. C’era un rapporto come tra padre a figlio, simbiotico per certi versi; certo, scandito dalle rispettive peculiarità caratteriali e a volte da confronti, anche “vivaci”, ma con una sintonia sempre viva degli affetti di fondo: nell’87/88 mia figlia Bianca aveva un paio di anni e lo “zio Paolo” stravedeva per lei, la mozzicava affettuosamente sul naso, poi nel 1989 tenne a battesimo la mia seconda figlia, Laura”.
Quando lei è arrivato a Marsala vi occupavate anche di mafia visto che non c’era ancora la Direzione Distrettuale Antimafia.
“A Marsala fui proiettato in una dimensione lavorativa che all’inizio non capivo, nel senso che essendo giovane e inesperto avevo una consapevolezza relativa del contesto operativo e dei moduli di lavoro di una Procura della Repubblica. C’era Borsellino, a cui mi affidavo completamente, e questo spianava qualsiasi ostacolo e risolveva ogni difficoltà, tutto quello che è avvenuto negli anni successivi è stato conseguenziale. Non è che io avessi un’idea compiuta di strategie o tecniche di indagini su questa o quella materia, la mia scelta professionale si era risolta nel tenere fede a quella mia promessa del 1985, raggiungere Borsellino alla Procura di Marsala ed avere finalmente la possibilità di lavorare assieme a lui”.
All’epoca nell’ufficio c’era solo Diego Cavaliero?
“C’erano il Procuratore della Repubblica ed un solo Sostituto, Diego Cavaliero, che da circa un anno era “di turno” 365 giorni su 365, h.24; io ero il secondo Sostituto, poi arrivò la collega Stefania Mazzacori e, nel 1989, altri uditori: Alessandra Camassa, Antonio Ingroia, Lina Tosi e Luciano Costantini, cui da ultimo si aggiunsero Massimo Russo, che proveniva dalla locale Pretura, ed il mio carissimo amico dai tempi del liceo e dell’università Francesco Parrinello che il Pretore l’aveva fatto nella Val di Susa: in pratica nel giro di due anni la nostra “pianta” era cresciuta fino a nove Sostituti, un vero ufficio ben organizzato”.
A Marsala come “ha conosciuto“ il fenomeno mafioso? Che indagini si facevano?
“Non avevo particolare conoscenza “diretta” del fenomeno mafioso, perché ero al mio primo incarico in una Procura della Repubblica e, prima, per due anni avevo fatto il giudice, tutt’altro lavoro e, per di più, in una sede del Piemonte. Fare il Sostituto Procuratore in Sicilia, addirittura mia stessa città natale, era una esperienza assolutamente inedita, tutto mi era nuovo”.
Eppure doveva essere più facile perché lei conosceva di più le persone del luogo o comunque le zone.
“No, per me non fu così. Il primo approccio reale e concreto con “la mafia”, il mio battesimo del fuoco, furono chiaramente gli “omicidi di mafia”, e quell’estate del 1987 esordii con l’omicidio di Cocò “Nasca” Zichittella, un uomo d’onore della “famiglia” mafiosa di Cosa Nostra di Marsala, ucciso a colpi di arma da fuoco mentre si godeva una passeggiata in Vespa sul lungomare della c.da Spagnola. Quello fu il primo incrocio con la realtà operatività delle “famiglie” di mafia. Ricordo ancora l’autopsia dello Zichittella , nell’ obitorio del cimitero di Marsala, insieme al medico legale Michele Marino, vecchio amico di tante “battaglie”, vidi il cadavere steso sul tavolo settorio di marmo e, prima che me ne rendessi, conto me ne scappai fuori di corsa trattenendo a stento conati di vomito, per l’odore nauseabondo che pervadeva i locali. Fu la prima e l’ultima volta che misi piede in una sala autoptica, mi recavo sempre all’obitorio per le autopsie, perché era necessario, ma declinavo garbatamente l’invito ad assistere e me ne stavo fuori, tranquillamente in attesa che il medico finisse il suo lavoro e mi mettesse a parte delle sue valutazioni.
Questo accadeva nell’estate del 1987. A dicembre di quell’anno Calogero “Rino o Lillo” Germanà, allora dirigente del Commissariato della Polizia di Stato di Mazara del Vallo, completò il rapporto giudiziario intestato Agate Mariano +72, tre volumi in tutto, di cui due di allegati, rilegato con nastro adesivo verde e di cui conservo ancora una copia, uno spaccato competente, lucido e dettagliato della geografia mafiosa della parte meridionale della Provincia di Trapani, da cui nel febbraio del 1988 originò l’ operazione della Procura della Repubblica di Marsala, personalmente coordinata e gestita da Borsellino, con l’arresto di numerosi uomini d’onore della “famiglia” mafiosa di Cosa di Nostra di Mazara. Per me un primo interessantissimo ed utilissimo osservatorio”.
La famiglia dei Messina Denaro però era conosciuta. Germanà, ha riferito in una sua deposizione che quando nel 1987 uccisero Vincenzo Luppino, fece eseguire un tampone-stub- per il prelievo di eventuali residui da sparo sulla persona di Matteo Messina Denaro e che, già prima, nel 1985, aveva personalmente partecipato ad una perquisizione domiciliare nell’abitazione del padre, Francesco Messina Denaro.
“So di questa deposizione, ed a questo riguardo faccio la seguente considerazione: se un personaggio di assoluto rilievo e dello spessore criminale di Francesco Messina Denaro subisce per la prima volta una perquisizione domiciliare – assolutamente routinaria per ricerca armi ai sensi dell’art. 41 T.u.l.p.s. – solo nel 1985, già all’età di 57 anni, sembra evidente che l’attenzione degli investigatori sul nucleo dei Messina Denaro è stata fino ad un certo momento blanda o, comunque, non tempestiva. In quel periodo le figure che animavano il panorama mafioso di Cosa Nostra nel Circondario di Marsala e su cui convergevano gli interessi degli inquirenti erano, ad esempio, gli Agate a Mazara del Vallo, gli Spezia o i L’Ala a Campobello di Mazara, gli Accardo a Partanna, cui facevano da contraltare nella parte nord del Trapanese i Minore. Senza promuovere letture dietrologiche, mi limito ad osservare che sui Messina Denaro si è cominciato a lavorare tardi”.
E il primo rapporto di polizia sui Messina Denaro quando arriva?
“Cronologicamente partendo dal dicembre 1987 vi è quello su Agate Mariano del Commissariato di Polizia di Mazara del Vallo che si concentra sulla “famiglia” mazarese, ma il filo che lega Mazara a Campobello di Mazara, Castelvetrano e Partanna è un continuum, vi era una saldatura molto evidente tra le diverse realtà di quelle zone. Successivamente, nel febbraio del 1989 Arma dei Carabinieri e Commissariato di Polizia di Castelvetrano presentarono all’Autorità Giudiziaria un rapporto congiunto, in cui concentravano le risultanze di più aggiornate attività investigative sulle attività delle “famiglie” mafiose di quel territorio. Restavano un po’ in ombra i “marsalesi”, “famiglia” agitata da conflittualità armata interna tra il gruppo degli Zichittella ed i loro oppositori”.
E mentre lei era a Marsala inizia a collaborare Rosario Spatola, dalla cui dichiarazioni nasce un processo, Alfano Nicolò +15, sconosciuto ai più ma che presenta interessanti peculiarità sia per le questioni tecniche-giuridiche, sia per l’impiego delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. L’ “Alfano” fu il primo processo di mafia celebrato in Italia secondo le norme del nuovo codice di procedura penale del 1989 (forse contemporaneo ad altro processo “milanese” a carico di Angelo Epaminonda, detto “il tebano”); è stato il primo processo di mafia in cui si fecero trasferte nelle aule bunker del Nord per l’audizione di collaboratori di giustizia; è stato il primo processo di mafia in cui la camera di consiglio si svolse in una struttura militare, la locale base marsalese dell’Aeronautica Militare; inoltre fu il primo processo nel quale vennero affrontate questioni delicate procedurali in seguito trattate sulle rassegne di giurisprudenza. Soprattutto, è stato l’unico processo che vide come imputato Francesco Messina Denaro, definitivamente condannato in latitanza a dieci anni di reclusione per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. Quel collegio era formato dal presidente Antonio Spina, dall’estensore della sentenza Bernardo “Dino” Petralia, attuale direttore del D.A.P., e dalla giudice Marina Ingoglia.
Vorremmo che ci raccontasse come nacque quel processo partendo dalla comparsa sulla scena di Spatola nel settembre 1989.
“Nel settembre del 1989 un certo Spatola si mette in contatto telefonico con la Procura della Repubblica di Marsala, dice di essere sottoposto ad una misura di prevenzione – credo un obbligo di soggiorno a Messina o nella Provincia di Messina – afferma di essere in pericolo e manifesta propositi di collaborazione riguardo alle attività delittuose di personaggi di spessore criminale di Campobello di Mazara, suo paese natìo. Diceva di non potere raggiungere Marsala con mezzi propri e che, in ogni caso, aveva paura a farlo, sicché venne prelevato nel Messinese da personale della nostra Sezione Polizia Giudiziaria dei Carabinieri, delegati da Borsellino.
Cominciano gli interrogatori di Rosario Spatola, in stato di libertà, condotti da Borsellino, cui presenzio sin dalla prima verbalizzazione, con l’assistenza “tecnica” del comandante della locale Sezione di Polizia Giudiziaria dei Carabinieri della Procura della Repubblica. Spatola parlava di traffici di droga, chiamando in causa personaggi di Campobello di Mazara, e le sue dichiarazioni venivano di volta in volta vagliate dalla polizia giudiziaria, cui il Procuratore Borsellino delegava specifici punti di accertamento e verifica. Queste verbalizzazioni proseguirono fino al dicembre del 1989, Spatola ricostruiva trame e protagonisti di traffici di droga, sul Territorio ed all’Estero, in cui egli stesso era stato coinvolto insieme a malavitosi di Campobello di Mazara e di Marsala, e le sue dichiarazioni ricevevano sempre puntuale verifica e riscontro.
Ad un certo punto, all’inizio del 1990, Spatola cominciò ad avanzare qualche rivendicazione di tipo economico, e sembrava essere sul punto di interrompere la collaborazione e di scappare, per cui venne emesso nei suoi confronti un mandato di arresto, eseguito con la successiva traduzione nel carcere romano di Rebibbia. Borsellino ed io andammo ad interrogarlo in carcere, e in quel momento Spatola aprì il capitolo mafia, di cui prima non aveva mai parlato. Fu sorprendente apprendere di un rito di affiliazione fatto addirittura in Svizzera, di cui sarebbe stato “padrino” tale Angelo Caravà, originario di Campobello di Mazara, frattanto deceduto. Spatola stesso, quindi, si accreditava di essere appartenente a Cosa Nostra, come ritualmente affiliato secondo il tradizionale rituale di iniziazione. Su questa parte delle sue dichiarazioni non abbiamo mai nascosto nostre (di Borsellino e mie) personali riserve e, tuttavia, Spatola forniva informazioni assai dettagliate su appartenenti all’organizzazione mafiosa gravitanti nel Circondario della Procura della Repubblica di Marsala, parlando anche di Francesco Messina Denaro.
Nel maggio del 1990 a Campobello di Mazara veniva ucciso Natale L’Ala, figura di spicco di quella “famiglia” mafiosa di Cosa Nostra e, all’inizio dell’autunno, Giacoma Filippello, che per anni ne era stata la convivente, ricercò un contatto con gli inquirenti marsalesi, cui si propose di riferire fatti e circostanze riguardanti l’appartenenza mafiosa del L’Ala, le sue attività delittuose ed i suoi vincoli di appartenenza mafiosa. La saldatura tra le dichiarazioni di Rosario Spatola e quelle di Giacoma Filippello, unitamente alle risultanze dei già citati rapporti giudiziari di Germanà del 1987, del Commissariato di Polizia e della Compagnia dei Carabinieri di Castelvetrano del 1989, diedero linfa a due distinti filoni processuali: uno celebrato col vecchio codice di procedura penale, ed uno di “nuovo rito”, ovvero il suddetto “ALFANO Nicolò +15”.
A processo Alfano già iniziato, si acquisirono nuovi spunti investigativi provenienti da Vincenzo Calcara che, all’epoca detenuto nel carcere di Favignana, chiese un permesso per ottenere un colloquio con l’ Autorità Giudiziaria di Marsala, cui avrebbe raccontato fatti e circostanze di interesse per il processo in corso (era il novembre del 1991).
A quel punto, l’accusa contava sui contributi dichiarativi di Spatola, della Filippello e di Calcara, cui si aggiungevano significativi elementi di conoscenza della realtà mafiosa del Circondario, attraverso il recupero “postumo” di verbali di s.i.t. – sommarie informazioni testimoniali – di due vecchi uomini d’onore, Melchiorre Allegra, del luglio 1937, e Giuseppe Luppino, del marzo 1958.
Il mancato arresto di Francesco Messina Denaro, resosi latitante al tempo dei primi arresti, rimase il vero buco nell’acqua di quella vicenda, frutto – evidentemente – di una accorta e mirata fuga di notizie.
Nel corso del processo vennero esaminati importanti collaboratori di giustizia appartenuti a Cosa Nostra – Francesco Marino Mannoia, il chimico della droga della “famiglia” mafiosa palermitana di Santa Maria del Gesù, ed Antonino Calderone, fratello di Giuseppe “Pippo” Calderone, già capo della commissione interprovinciale (la Regione) di Cosa Nostra – ed entrambi fornirono dichiarazioni in tutto collimanti, quanto alla operatività di cosche mafiose nel territori de Circondario di Marsala ed alla identità degli appartenenti alle stesse, con quelle già rese disponibili da Spatola, Filippello e Calcara. In definitiva, partendo da materiale investigativo che si potrebbe anche definire spurio, se non “di risulta”, in corso d’opera avevamo creato un impianto accusatorio che si sarebbe tradotto in esiti di condanna che sarebbero stati poi confermati definitivamente nel giudizio di Cassazione”.
Quindi il contributo di Calcara è stato il minore tra le varie dichiarazioni?
“Calcara era uno che, come Spatola, era stato molto addentro nel traffico degli stupefacenti, in Italia ed all’estero. Spatola trafficava con la Spagna, mentre Calcara gravitava sulla Germania: pur essendo stati impiegati per lo più in attività di narcotraffico, entrambi condividevano il background delle famiglie mafiose preposte alla gestione dei traffici, e ne avevano rivelato agli inquirenti l’interessante spaccato operativo, indicando coloro che ne facevano parte in modo organico”.
Invece Calcara a un certo momento racconta di essere affiliato..
“Non solo Calcara, anche Spatola. A parte la Filippello, ad un certo punto viene introdotto il racconto del rito di affiliazione, circostanza di cui si è tenuto conto relativamente, e fino a un certo punto, considerato che i contributi significativi in quel processo, dal punto di vista della rilevanza probatoria, erano altri”.
Le dichiarazioni di Calcara e Spatola vengono ridimensionate già nell’appello della sentenza Alagna+30, relativa al processo nato dalle dichiarazioni dello stesso Calcara. Successivamente, nel 1998, nella sentenza Ciaccio Montalto, e poi nella sentenza d’appello del processo Aspromonte, Calcara fu dichiarato inattendibile. Addirittura nella sentenza Aspromonte i giudici scrissero “Si è pervenuti alla conclusione che le propalazioni accusatorie provenienti da tal personaggio, oltre ad essere palesemente sospette e troppo puntuali per rispondere al vero non hanno trovato in atti sufficienti riscontri estrinseci..[…] Pur avendo riferito un episodio che lo vedeva penalmente coinvolto in prima persona ( e per il quale, stranamente, non risulta imputato nel presente processo), mancano in atti riscontri esterni univoci e certi delle propalazioni rese del Calcara.” E poi ancora nel 2014 con la sentenza del processo Rostagno fu ritenuto completamente inattendibile.
“Certo perché poi quando si pentono Andrea Mangiaracina, Vincenzo Sinacori, Antonino Patti ci dicono:”Ma questi due (Spatola e Calcara) chi sono? Chi li ha mai conosciuti?”
“Io a questa cosa del progetto di attentato di cui Calcara si autoaccusava non ho mai creduto, ed è dichiarazione che, per quanto mi consta, non ho mai processualmente utilizzato. Personalmente l’ho sempre considerata una vanteria, che ad un certo punto forse gli prese la mano, visto che Calcara cominciò a parlare addirittura di fucili di precisione. Quale credito potevano avere queste dichiarazioni? Per me zero. Possibile che l’esecuzione di un progetto omicida di mafia di assoluto livello, come l’uccisione del Procuratore Borsellino, potesse essere affidata da Riina ad un oscuro personaggio del sottobosco malavitoso come Calcara? Vi era parte dei contributi dichiarativi del Calcara che doveva essere “filtrata” dal setaccio investigativo, e quel che non passava dentro al setaccio veniva scartato. Ho interrogato varie volte Calcara e la mia impressione era che fosse una persona caratterialmente debole, dai tratti istrionici, ma quando parlava di stupefacenti sapeva perfettamente quello di cui parlava.
Quando sarebbero state acquisite le collaborazioni dei componenti organici delle “famiglie” di mafia di Cosa Nostra del Circondario marsalese (i citati Mangiaracina, Sinacori, Patti), che sconfessavano l’appartenenza mafiosa di Spatola e di Calcara io ero già andato via da Marsala, ma non è che, anche prima di quel disvelamento, l’appartenenza mafiosa di Spatola o di Calcara fosse stata considerata verità scolpita sulle tavole della legge, si faceva una attenta selezione delle fonti di prova disponibili, la parte che risultava verificata veniva valorizzata in chiave di accusa, il resto veniva scartato”.
“L’Afano” è stato probabilmente l’unico processo in cui si erano utilizzate anche propalazioni di Calcara e Spatola che ha retto fino in Cassazione.
“Ha retto fino in Cassazione perché alle dichiarazioni di Spatola e Calcara si sono aggiunte quelle del tutto collimanti di Francesco Marino Mannoia e di Antonino Calderone”.
Ma Spatola fu condannato per associazione mafiosa nel processo Alfano. Ci può spiegare questa apparente incongruenza con quelle che sono state le sue considerazioni sull’appartenenza di Spatola alla mafia?
“Fu condannato per mafia e per traffico di stupefacenti, in tutto a 2 anni e 10 mesi. Dunque, come detto, nutrivamo delle riserve sulla veridicità dell’affiliazione rituale dello Spatola a Cosa Nostra, non tornava il luogo della celebrazione del rito, addirittura in Svizzera e con l’assistenza di un appartenente già morto all’epoca delle sue dichiarazioni e, per di più, non convinceva il fatto che lo Spatola, come accertato, fosse figlio di un poliziotto. Però è processuale che Spatola commerciasse in droga per conto di esponenti di Cosa Nostra locale, e da questa circostanza egli traeva significativi elementi di conoscenza sull’articolazione della realtà mafiosa locale e sull’identità di quei protagonisti. Il dato processuale di partenza, a dispetto di talune nostre perplessità, alla fine si tradusse in un esito processuale di conferma dell’ipotesi di accusa, cosa che spesso succede nel corso di un processo e che non deve destare meraviglia”.
Si parla molto del dossier mafia-appalti e dell’interesse professionale che Borsellino aveva per quell’informativa del Ros. Sappiamo, anche dai racconti dei suoi colleghi, che il dossier arrivò a Marsala anche perché c’era un filone che riguardava l’isola di Pantelleria. Era arrivato solo il pezzo che riguardava Pantelleria?
“Formalmente credo di ricordare sia arrivato dalla Procura della Repubblica di Palermo uno stralcio di atti. Come usualmente avveniva se c’è un’attività investigativa che riguarda un Circondario, una zona, un territorio diverso, il Procuratore che riceve il rapporto – nella fattispecie quello di Palermo – trasmette gli atti all’ Ufficio Giudiziario omologo per quei fatti competente per territorio, nel nostro caso Marsala. E credo questo sia avvenuto. Poi che Borsellino nutrisse spiccato personale interesse di natura professionale per i contenuti di quel rapporto è cosa che posso affermare senza timore di smentita”.
Che Borsellino conoscesse il dossier nell’interezza è una idea sua o ha elementi per pensarlo?
“Non è una idea mia, nel senso che Borsellino ne parlava coi Sostituti, faceva considerazioni, riflessioni, quindi come avrebbe potuto parlare con noi di =qualcosa che non conosceva?”
Quindi parlava di tutto il dossier mafia-appalti o solo di Pantelleria?
“Questo non glielo so dire, entriamo nello specifico di un fascicolo di cui erano titolari altri colleghi. E’ certo che quel rapporto venne trasmesso alla Procura di Marsala, che Borsellino lo conoscesse e che coltivasse un interesse diretto per un’attività investigativa che riguardava l’intreccio imprenditoria, mafia e politica“.
Lei ci ha detto che ogni tanto con Borsellino vi scontravate caratterialmente. Avete mai litigato?
“Solo una volta e accade, per via di una testimonianza proprio al processo “Alfano”. Era metà dicembre del 1991. Uno dei primi testimoni introdotti dalla Procura era l’appartenente alla Polizia Giudiziaria che aveva eseguito i riscontri sulle dichiarazioni di Spatola e che doveva riferirne l’esito in dibattimento. E purtroppo questi si presentò in dibattimento facendo scena muta. Certo, era uno bravo nel suo lavoro, ma anziché venire là con il suo voluminoso dossier di accertamenti per illustrare contenuti di riscontri e verifiche si presentò a mani vuote, e alle mie domande rispondeva ”Credo…forse.. non so, non ricordo”. Questo creò non trascurabile difficoltà e notevole imbarazzo, palesato sia dallo stupore dei componenti del Collegio, sia da reazioni di fastidio degli avvocati. Fui costretto a sollecitare al Tribunale un aggiornamento dell’udienza per poter risentire il teste, trattandosi della più importante deposizione tra quelle degli appartenenti alla polizia giudiziaria. Me ne lamentai col diretto interessato e ne parlai anche coi colleghi. Un paio di giorni dopo mi chiamò al telefono Borsellino e mi fece una strigliata telefonica da rimanere non solo senza parole, ma pure senza fiato: ” Ancora non me ne sono andato da Marsala e già ti stai organizzando per distruggermi l’ufficio!!!” Evidentemente il nostro testimone si era lamentato col Procuratore raccontandogli “la mezza messa”, come si dice in Sicilia, ovvero una versione di parte a suo uso e consumo. Si trattò di uno sgarbo e di una grave scorrettezza nei miei confronti che, per di più, aveva innescato la reazione furiosa dell’inconsapevole Procuratore verso il suo Sostituto”.
Ma lei poi non riuscì a chiarire con Borsellino?
“Ci fu il saluto ufficiale del Procuratore della Repubblica a Marsala il 4 luglio del 1992, più volte rinviato, (anche per il tragico evento della strage di Capaci). Purtroppo non sentivo Borsellino da qualche mese. Ebbe parole di elogio per me durante il suo discorso, poi ci siamo parlati e riabbracciati; ed ancora dopo, più riservatamente nel suo vecchio ufficio, per una quindicina di minuti, c’era anche sua moglie Agnese, e ad un certo punto, rivolto a mia moglie, che per lui nutriva sconfinata ammirazione ed affetto, disse: ”Gisella, con Peppe è capitato che ci siamo scontrati, anche duramente, come a volte capita tra uomini, ma io ho sempre avuto la consapevolezza di avere davanti una persona leale e che mi voleva bene, non come adesso a Palermo che non so più da chi mi devo guardare prima”.
L’ho sentito al telefono ultima volta il 17 luglio del 1992 , non mi ricordo perché l’avessi chiamato, forse anche solo per un saluto, il 17 luglio è il giorno divenuto noto per via del suo ultimo interrogatorio a Gaspare Mutolo. E poi ci fu il 19 luglio… Stavo giocando a tennis, mi chiamò mio padre e mi disse che un amico aveva sentito in televisione che c’era stato un attentato a un giudice a Palermo, e così ho saputo. Sono arrivato in via D’Amelio circa un’ora dopo quella telefonata, il tempo di chiamare quelli della scorta e fare la strada a tutta velocità. Ricordo solo macerie fumanti… non c’era più niente. Non mi ricordo se ho incontrato qualcuno, delle persone, nulla… ricordo solo un autentico scenario di guerra con macerie dappertutto e colonne fumo denso che si alzavano al cielo… non ho altri ricordi”.
Borsellino era uno che si arrabbiava? A parte l’episodio che ci ha raccontato prima.
“Non ricordo fosse irascibile. Sanguigno si, ma non impulsivo, mentre io impulsivo lo ero. Forse, non so, lui mi vedeva poco allineato, un po’ esuberante, non condivideva – a ragion veduta, secondo lui – certe mie valutazioni dissonanti, ma mai nessun dissidio per ragioni di politica o di una propria personale visione del mondo. La dimensione del lavoro dentro al nostro ufficio era veramente coinvolgente, trovavi conforto, confronto autorevole, la presenza assidua e sempre partecipe di un Capo”.
Facevate delle riunioni mattutine?
“No. Era tutto molto estemporaneo, si entrava e si usciva dal suo ufficio, non c’erano turni e attese, in modo assai “libero” ed informale. C’era condivisione, circolazione continua e completa delle informazioni investigative tra i colleghi, nessuna gelosia o invidia professionale, un sentimento condiviso di affetto che andava ben oltre il mero spirito di colleganza, siamo cresciuti con questo insegnamento. E Borsellino parlava, parlava e poi ancora parlava… dei fascicoli, delle sue indagini, della famiglia, parlava sempre, di tutto, senza riserve e senza remore”.
Ma lei è stato trasferito per le minacce che arrivarono nell’estate del 92?
“La storia del mio trasferimento è particolare. Nell’estate del 1992, dopo la strage di via D’Amelio, il C.S.M. aveva sollecitato la mia disponibilità ad un trasferimento d’ufficio ad altra sede fuori dalla Sicilia per motivi di sicurezza. Eravamo nel pieno dello svolgimento del processo Alfano, non accettai di lasciare l’Ufficio ed il processo a metà strada. Preferii prendere tempo e completare il processo Alfano, valutando la possibilità di trasferirmi con domanda ordinaria. Presentai la domanda di trasferimento ad ottobre del 1992, anche perché dopo l’attentato a Rino Germanà, era il 14 settembre del 1992, ero a pezzi dal punto di vista della tenuta nervosa. Avevo subito il dolore immenso e la devastazione psicologica di quelle due stragi, nel giro di nemmeno due mesi, ed un altro prezioso collaboratore, cui ero legato da amicizia, era sfuggito per miracolo ad un attentato di mafia (altissima mafia, visto che i tre mancati killer del commando erano Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano), in quel momento non avevo più le risorse mentali per continuare a lavorare là, non era produttivo per me e non era produttivo per il mio ambiente di lavoro”.
Quando ci siamo sentiti qualche giorno fa ci ha raccontato di aver ascoltato di recente una deposizione del dr Germanà al processo contro Mario Bo ed altri che si sta svolgendo a Caltanissetta.
“E non ho provato una bella sensazione. Conoscevo perfettamente la vicenda. All’età di soli 33 anni, andato via Borsellino, mi ritrovavo a essere il Procuratore reggente di quell’ Ufficio, e i colleghi Alessandra Camassa e Massimo Russo erano titolari dell’indagine sulla identificazione del famoso “Enzo, politico trombato di area manniniana”, il misterioso personaggio che aveva dato mandato al notaio Ferraro per un tentativo di aggiustamento del processo in Corte di Assise di Appello di Palermo per l’omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Ho cercato di rimuovere parte di quei ricordi, ho sofferto troppo per tutto quello che è successo in quel periodo. Poi sentire il racconto di Germanà … ha mostrato senso dello Stato che gli fa onore rievocando i fatti senza toni di vittimismo, perché davvero credo sia stato vittima dell’ istituzione cui apparteneva, ancor prima che dei mafiosi che gli hanno sparato”.
E quindi a Marzo del 1993 va a Treviso.
“C’erano tre sedi di Procura lontane dalla Sicilia. Una era Verona, ed era quella a cui io avrei ambito ma non avevo chance perché c’erano colleghi con maggiore anzianità che avevano fatto domanda; poi c’era Reggio Emilia, ma dopo aver conosciuto il Procuratore della Repubblica capii che non ci sarei andato molto d’accordo. A quel punto rimaneva Treviso, dove il Procuratore della Repubblica era Giancarlo Stiz, un magistrato che aveva fatto un pezzo della storia giudiziaria del Paese ai tempi delle indagini sulla strage della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano. Alla fine andai a Treviso, mantenendo le funzioni di Procura. Il passaggio dalla Sicilia a Treviso non fu esattamente come bere un bicchier d’acqua, ne è seguita una serie di complicate e difficili vicende personali e, soprattutto, mi è rimasto in bocca il sapore amaro di avere come battuto in ritirata, abbandonato il “fronte” nel momento del bisogno. Poi però ne è seguita anche un’altra bella storia familiare, completata da una splendida bambina che si chiama con quello stesso strano mio secondo nome, Costanza, che adesso ha nove anni, ama le sorelle maggiori e ne viene ri-amata”.
Ma poi nel 1997 torna a Palermo, applicato alla Procura della Repubblica.
“Nel maggio del 1997 diedi disponibilità per essere applicato dalla Procura della Repubblica di Treviso a quella di Palermo. Trascorsi quasi un paio di mesi in cui in Procura quasi non avevano lavoro da darmi, anzi, nemmeno avevo la scrivania e sempre lo stesso refrain: “Niente dottore torni domani, intanto si vada a fare una passeggiata”. A un certo punto mi convoca il Procuratore Giancarlo Caselli, e nel suo ufficio trovo il collega Alfonso Sabella, uno dei Sostituti di punta dell’Ufficio. Caselli mi chiede se me la sentivo di dare una mano a Sabella nel dibattimento che iniziava davanti alla Corte di Assise di Palermo per il sequestro e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo. La mia risposta era scontata. A quel processo ne venne riunito un altro riguardante 25 omicidi di mafia commessi tra il 1994 ed il 1995 per conto della “famiglia” mafiosa di Bancaccio dei Graviano e di Leoluca Bagarella. Seguii l’intero dibattimento fino al novembre del 1998, il processo sarebbe terminato nel febbraio del 1999, divenni amico fraterno di Sabella e lo sono tuttora”.
A proposito di quel processo, l’escussione di Vincenzo Chiodo in aula che descrisse il rapimento e l’agonia del piccolo fino allo strangolamento fu qualcosa di atroce, come l’ha vissuta?
“Eravamo a Venezia, all’aula bunker di Mestre. Vincenzo Chiodo è stato, insieme ad Enzo Brusca e a Giuseppe Monticciolo, uno dei killer che strangolarono Giuseppe Di Matteo. Era un passaggio dibattimentale assai complicato da affrontare dal punto di vista emotivo ed interiore, e allora prendi i verbali del collaboratore, prepari una “scaletta” di domande e vai avanti, non c’è un altro modo… Che poi è la metodologia a cui normalmente ci si affida in udienza nei dibattimenti di maggiore complessità, anche se non c’è di mezzo lo strangolamento di un bambino di nemmeno 12 anni, poi sciolto nell’acido. Ma dal punto di vista emotivo è stato credo il momento più impegnativo della mia storia lavorativa”.
Pregi e difetti del giudice Borsellino.
“A mio modo di vedere il difetto capitale di Borsellino era quello di non “tenere la guardia alta”, forse sembrerà paradossale quello che dico, ma tendeva a fidarsi delle persone, anche troppo, quando invece determinate situazioni, determinati contesti e determinate persone avrebbero dovuto renderlo più guardingo, pensava di essere in grado comunque di tenere le dinamiche delle situazioni sotto controllo e di poterle gestire.
I pregi, tanti, ovviamente. Cosa potrei aggiungere ancora riguardo alle qualità professionali di Borsellino? Era straordinario. Un senso di appartenenza alle istituzioni unico. Un capacità di tenere ritmi di lavoro intensi, di non darsi tregua. Una umanità davvero straordinaria, il sentimento paterno che nutriva verso di noi e i legami affettuosi che tendeva ad intrattenere. Borsellino riusciva “a fare famiglia con tutti”, Diego Cavaliero era come se l’avesse adottato, perché era fuori sede e viveva da solo. Ci invitava al villino di Villagrazia di Carini, da cui partì quel pomeriggio del 19 luglio 1992, diretto sul luogo della strage, veniva spesso a casa mia, a casa dei miei genitori, si andava a cena insieme, ci teneva a battezzare tuo figlio o a fare il testimone di nozze di uno dei suoi Sostituti, e se non glielo chiedevi magari si offendeva pure. Un rapporto umano ed un Procuratore del Repubblica che non ho mai più ritrovato in oltre 37 anni di vita lavorativa”.