«Mi chiedi come ha reagito la città alla sentenza di appello del processo “Trattativa”? Direi con totale indifferenza. Gli unici che si sono fatti notare sono stati alcuni garantisti ritardatari. In prima fila quelli del Pd».
Giuseppe Di Lello parla al telefono dalla sua casa di Palermo. Abruzzese di Villa Santa Maria, il paese dei cuochi di cui è stato anche sindaco, in Sicilia è arrivato esattamente cinquanta anni fa, autunno 1971, giudice trentenne destinato alla pretura di Alia. Ha fatto parte del primo pool antimafia, quello di Rocco Chinnici, «ci dividevamo la blindata e il maresciallo dei carabinieri Trapassi per la protezione».
Dopo l’autobomba di Cosa nostra che nel 1983 uccise Chinnici (e anche Trapassi), Di Lello ha fatto parte del secondo pool, quello del capo ufficio istruzione Antonino Caponnetto con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta. Quando nel novembre del 1984 viene arrestato Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo la cui figura è rimasta al centro del processo Trattativa, è proprio lui a scrivere il mandato di cattura «a casa di Falcone, con una sua sgangherata Lettera 22 e sotto la dettatura di Borsellino».
Figura di spicco di Magistratura democratica, Di Lello ha lasciato la toga negli anni Novanta ed è stato prima deputato e poi parlamentare europeo, consigliere comunale a Palermo e infine senatore di Rifondazione comunista. Del manifesto è un compagno di viaggio assai più che un collaboratore: il suo primo articolo su questo giornale è del 1989.
Al «romanzone trattativa», come lo hai definito in un tuo pezzo, manca solo il capitolo finale della Cassazione. Dopo le assoluzioni della Corte di assise di appello i sostenitori delle tesi della procura spiegano che la sentenza riconosce comunque che una trattativa c’è stata. I carabinieri l’hanno condotta, anche se non è stata riconosciuta come reato. Sei d’accordo?
Per niente. Non dobbiamo dimenticare qual era la tesi della pubblica accusa: che la politica, cioè Calogero Mannino, avrebbe avviato la trattativa per interesse personale, cioè salvarsi la pelle. E questo avrebbe indotto i mafiosi ad accelerare sempre le stragi proprio per avere più morti e più forza contrattuale con lo Stato. Le concessioni alle quali i mafiosi puntavano erano l’abolizione del carcere duro, la restituzione dei patrimoni e la revisione dei processi. Bene.
Non solo tutto questo non c’è stato, ma addirittura è stato il governo Berlusconi a inasprire alcune misure. Stabilizzando il 41-bis nell’ordinamento penitenziario e allargando, con l’aiuto della Cassazione, lo spettro dei sequestri e delle confische. Di revisione dei processi non si è mai parlato.
Quando io, adesso, leggo i tifosi della procura di Palermo raccontare che sì, è vero, magari nell’immediato non ci furono concessioni dello stato di fronte alle richieste dei boss, ma poi più avanti… Ma quando mai! Non si allargò proprio niente. I mafiosi volevano indietro la roba, i soldi, e volevano la cancellazione degli ergastoli. Non si può spacciare l’alleggerimento del carcere duro per un po’ di mafiosi di mezza tacca, deciso da Conso anche perché al 41 bis c’era ormai un numero esagerato di detenuti, per chissà quale concessione.
Non scherziamo. La sentenza di appello ha completamente smantellato l’impianto accusatorio, del resto incoerente dal principio. Se fossero state vere quelle accuse, allora, dal punto di vista logico, carabinieri e politica andavano imputati di concorso nelle stragi visto che avrebbero rafforzato in Cosa nostra la convenienza di fare attentati.
Secondo te cosa ha incrinato la trama del «romanzone» tra primo e secondo grado? Solo l’assoluzione definitiva di Mannino che ha cancellato la premessa?
Io credo che in primo grado abbia pesato molto la mancata perquisizione del covo di Riina. Questo fatto non c’era nel processo Trattativa, ma sicuramente ha fischiato nelle orecchie dei giudici popolari. Come una specie di prova che qualcosa da nascondere nei rapporti tra polizia giudiziaria e cupola mafiosa in fondo c’era.
La grande contraddizione della procura di Palermo è che al termine delle indagini sulla mancata perquisizione del covo, un episodio accaduto all’interno del periodo in cui ci sarebbe stata la trattativa, ha sempre chiesto l’archiviazione. È stata la gip a imporre il giudizio, al termine del quale i pm hanno chiesto l’assoluzione. Due pesi e due misure, evidentemente per la procura di Palermo a quell’epoca non si facevano trattative.
Anche il ministro della giustizia di allora, Claudio Martelli, critica le tesi dell’accusa, ma afferma che i carabinieri del generale Mori si erano spinti troppo avanti. Evitando di informare la procura e la neonata Direzione investigativa.
Così ci avviciniamo alla verità. Ci sarà stata un’operazione di polizia giudiziaria, anche spregiudicata, da parte dei carabinieri che cercavano innanzitutto di mettere le mani su Riina. Non hanno informato chi di dovere? Male, ma non facciamo finta di scoprire solo adesso come si muovono abitualmente i corpi militari di polizia giudiziaria.
Qualcuno si ricorda del generale Dalla Chiesa che consegna il memoriale di Moro direttamente ad Andreotti invece che al procuratore della Repubblica? Certo, è così, i Ros in particolare sono molto autoreferenziali.
Cito dal tuo unico libro, “Giudici”, del 1994: «Le gesta rivoluzionarie di alcuni magistrati rischiano di appannare la realtà complessiva di una casta che è stata, e resta ancora in molti suoi componenti, con indifferenza o con calcolo, organica a questa borghesia sempre uguale a se stessa». Allora ti riferivi al pool milanese di Mani Pulite. Oggi cosa pensi dei magistrati che, di fronte alle assoluzioni di Palermo, concludono che la verità su quegli anni e quelle trame è troppo grande per entrare in un’aula di tribunale?
Potrei dire che è un’affermazione che prova troppo, ma preferisco considerarla per quello che probabilmente è: una via d’uscita furbesca. Quello che oggi possiamo dire, aspettando la Cassazione, è che la ricostruzione della procura di Palermo è stata smentita dalla sentenza di appello. La storia adesso è questa. Ovviamente, e non ci sarebbe bisogno di dirlo, questo esito non mette in discussione la profondità dei rapporti che ci sono sempre stati tra mafia e politica e anche tra la mafia e i corpi di polizia. Ma non è con i romanzi che li si combatte.
In questo processo la condanna etica del concetto di trattativa ha preceduto quella penale. Ti domando: la relazione che lo Stato cerca con i collaboratori di giustizia non è essa stessa una trattativa?
Certamente, è una trattativa istituzionalizzata, codificata. E ha consentito molti successi nella lotta alla mafia. Ricordo che Tommaso Buscetta mise immediatamente, già nei primissimi colloqui con Falcone, le mani avanti. Disse: “Io di me non parlerò mai”. E infatti non disse nulla dei suoi traffici di droga e dei suoi omicidi. E purtuttavia la sua è stata una collaborazione fondamentale, com’è noto a tutti per la storia del maxi processo. Anche quella fu una trattativa. Gli dicemmo: “Va bene Buscetta, dei fatti tuoi non parliamo e andiamo avanti. Dicci tutto quello che sai su tutto il resto”.
A breve saranno trent’anni dalla conclusione del maxi processo. Da allora i grandi successi processuali della magistratura inquirente non sono stati molti. Si è perso un metodo?
Non si è perso, se per metodo intendiamo le tecniche di indagine che erano state introdotte dal pool: indagini bancarie e societarie, il famosofollow the money, e l’uso delle intercettazioni. Si fa ancora così e anzi le tecniche sono più sviluppate e penetranti. Bisogna però convenire che la potenza della mafia è scemata molto.
Stai dicendo che gli «allievi che sbagliano» del professor Fiandaca, che si riferisce così a Ingroia, non hanno trovato trame all’altezza delle loro ambizioni?
Da anni non c’è più il collegamento forte, diretto, simbiotico della mafia con la politica. Sono finiti i tempi in cui in Sicilia la famiglia politica di Andreotti si confondeva con la famiglia criminale dei corleonesi. E in Campania non c’è più quella commistione che c’era tra la camorra e un’altra corrente della Dc.
Erano tempi in cui il mondo era diviso in blocchi e si poteva raccontare la favola della difesa della democrazia. Tempi in cui la mafia si poteva proporre persino come un baluardo contro il terrorismo. La commistione per gli affari c’è ancora, soprattutto negli appalti per i servizi alle amministrazioni pubbliche. Ma sono cose che comparate alle vicende precedenti scoloriscono.
L’integrazione stretta tra mafia e politica e i progetti condivisi, non ci sono più. Pensa agli omicidi di Piersanti Mattarella o di Pio La Torre. Rispondevano a interessi comuni. Vai a capire se a ordinarli era stata la politica o era stata la mafia. Quelle morti avvantaggiavano entrambe.
In questi giorni la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, ha detto: mio padre non pubblicizzava le sue inchieste e non avrebbe gradito il clamore mediatico che c’è stato attorno al processo Trattativa. Come andavano le cose ai vostri tempi?
Con i giornalisti parlavamo pochissimo. Non abbiamo quasi mai fatto conferenze stampa o comunicati stampa. Ma la differenza fondamentale è che allora non si organizzavano eventi di sostegno al processo e certo noi non vi avremmo partecipato. Negli ultimi anni, durante la lunga inchiesta e il lungo processo Trattativa, abbiamo assistito a scene da vergognarsi. I teatri con gli striscioni per i magistrati inquirenti, le raccolte di firme, le trasmissioni televisive in cui sono stati perennemente ospiti.
Oggi Ingroia che condanna la spettacolarizzazione dell’inchiesta mi fa ridere. Come se lui non c’entrasse niente. Era persino sul palco, alla festa del Fatto quotidiano, quando fischiarono il presidente della Repubblica Napolitano. C’erano lui e Di Matteo ed erano entrambi magistrati in servizio.
A proposito di esaltazione, a un certo punto in tv Di Matteo ha accusato l’ex ministro Bonafede, suo grande fan, di aver ceduto anche lui a una specie di trattativa per non averlo promosso al ministero.
Disse che Bonafede si era piegato alla richiesta dei boss. E io ho scritto che se era vero si doveva dimettere Bonafede, ma se non era vero si doveva dimettere Di Matteo dal Csm. Non abbiamo saputo più niente e tutto è passato in cavalleria. Anche io ho partecipato a qualche dibattito sul processo trattativa e mi pento amaramente, i miei dubbi e le mie osservazioni critiche sono finite travolte e Di Matteo è stato esaltato come l’idolo dell’Italia moralmente a posto.
Siamo precipitati di nuovo in quella commistione tra tifoserie e giustizia che avevamo sperimentato con l’entrata in scena di Berlusconi. Un personaggio ambiguo, borderline, ideale per confondere i discorsi sulla sua moralità con quelli sulle sue eventuali responsabilità penali. Nelle inchieste di mafia però è stato sempre tirato in ballo e sempre senza conseguenze.
La figlia di Borsellino ha detto anche che il processo trattativa ha distratto le forze dal più promettente filone mafia e appalti, quello che suo padre aveva in mano quando è stato ammazzato. Lo pensi anche tu?
A me risulta che la procura di Caltanissetta che è competente stia indagando ad ampio raggio su quei fatti a partire dalla ricerca delle verità sulla strage di via D’Amelio.
Nella sentenza di primo grado del processo Trattativa, quella che ha confermato le ipotesi dell’accusa, si legge che «Oggi si può dire che, come previsto da Giovanni Falcone con riferimento alla naturale conclusione di tutti i fenomeni umani ivi compreso quello della mafia, quell’organizzazione criminale plasmata dai corleonesi e caratterizzata da precise regole e, soprattutto, gerarchie, non esiste più». Un tuo amico, lo storico Salvatore Lupo, dice da tempo che è arrivato il momento di superare lo stato emergenziale, che poi significa le leggi di emergenza. Lo pensi anche tu?
Il grande problema è che da noi le leggi eccezionali si sono espanse. Le leggi antimafia sulle misure di prevenzione come sequestro e confisca hanno avuto uno sviluppo abnorme. Prima si sono allargate alla corruzione e a tutti i reati degli amministratori pubblici, poi le misure di prevenzione sono arrivate anche a carico dei disturbatori del decoro urbano e dei tifosi del calcio.
I giuristi spiegano quanto questa espansione innaturale e pericolosa abbia svilito, tra le altre cose, proprio il concetto di lotta alla mafia. Sarebbe il momento di rivedere tutta la legislazione antimafia e casomai di focalizzarla sulla lotta alla corruzione. Anche perché, nel frattempo, la composizione sociale delle carceri è persino peggiorata. Le galere sono piene di poveracci e delle vittime del disagio sociale.
L’attività della magistratura è gravata da una marea di reati e di processi inutili. Per questo io sono convinto che senza una seria depenalizzazione, cominciando dai reati legati alle droghe e all’immigrazione, la riforma della ministra Cartabia è un’utopia. I tempi dei processi non diminuiranno, casomai con l’improcedibilità ci sarà una moria indiscriminata di procedimenti.
Mentre devo dirti che il fatto che sia stata prevista un’indicazione del parlamento sulle priorità di politica criminale non mi preoccupa. Prevedo che le camere per mettersi al riparo indicheranno più o meno tutto il codice penale. Mi pare una novità più inutile che pericolosa.
Giuseppe Di Lello nato a Finuoli Villa Santa Maria il 24 novembre 1940
Ha esercitato a Palermo la professione di magistrato, chiamato dal capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, Antonino Caponnetto nel pool antimafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in cui fu giudice istruttore.
Nell’XI legislatura del Parlamento Italiano è stato consulente della Commissione parlamentare antimafia (1992-1994). Nel 1994 è eletto deputato alla Camera in Abruzzo, nel proporzionale, nella lista “Progressisti”, fino al 1996.[1]
Accetta la candidatura nelle file del Partito della Rifondazione Comunista nel 1999 e viene eletto al Parlamento europeo, dove resta fino al 2004. È stato anche consigliere comunale a Palermo dal 2001 al 2007.
Eletto quindi per la circoscrizione Abruzzo, il 9 aprile 2006, alla carica di senatore della Repubblica, sempre per Rifondazione. In quella legislatura è stato nominato membro della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari.
Ha presentato come primo firmatario un disegno di legge per l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare
È inoltre cofirmatario, su iniziativa di Luigi Malabarba, di una proposta di inchiesta parlamentare sull’Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle vicende relative ai fatti accaduti a Genova nel luglio 2001 in occasione del vertice G8 e delle manifestazioni del Genoa Social Forum[2].
Cessata nel 2008 la carica parlamentare, abbandona Rifondazione ed è magistrato in quiescenza dal 2009.
Nel 2018 s’iscrive nuovamente a Rifondazione Comunista.
Opere
- Giudici, Sellerio, Palermo, 1994
WIKIPEDIA
Di Lello ricorda Falcone: «Non lo capii quando andò a Roma, ma aveva ragione»