Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino ci svelano le caratteristiche e le trasformazioni delle organizzazioni mafiose di cui si sono occupati nella loro lunghissima esperienza da Palermo a Reggio Calabria, fino alle più recenti inchieste che hanno coinvolto la capitale. Il libro analizza il dna della mafia siciliana e di quella calabrese: la struttura organizzativa su cui entrambe si fondano, la ‘famiglia’ in cui si entra mediante cerimonie solenni e, infine, il sistema di relazioni che le collegano a soggetti esterni (imprenditori e manager, esponenti politici, uomini della burocrazia, liberi professionisti). Un’ampia parte – aggiornatissima alle ultime decisioni dei giudici romani – è dedicata alla presenza della mafia nel Lazio e nella capitale. Dalle vicende romane si prende spunto per affrontare un aspetto oggi centrale nelle pratiche mafiose: l’utilizzo sistematico dei metodi corruttivi e collusivi, senza mai dimenticare che mafia e corruzione sono due cose diverse. Infine gli autori prendono in esame gli scenari più recenti e di frontiera della criminalità economica, particolarmente preoccupanti perché l’espansione delle mafie e la penetrazione dei capitali illeciti nell’economia legale mettono in pericolo le basi stesse della vita democratica.
- (AUDIO) PRESENTAZIONE DEL LIBRO “MODELLI CRIMINALI. MAFIE DI IERI E DI OGGI” DI GIUSEPPE PIGNATONE E MICHELE PRESTIPINO – Radio Radicale 20.2.2012
- (AUDIO) a Radio Capital Pignatone e Prestipino – 21.2.2019
all’Osservatorio Criminalità Organizzata di Milano – VIDEO
di Michele Prestipino
di Giuseppe Pignatone
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I procuratori svelano le caratteristiche e le trasformazioni delle organizzazioni mafiose di cui si sono occupati nella loro lunghissima carriera. La criminalità organizzata ha esteso i suoi confini ben oltre la Sicilia, patria di Cosa nostra. Ma non tutte le mafie sono uguali: conoscerle è il primo fondamentale passo per poterle sconfiggere.
Gli ultimi trent’anni di indagini e processi hanno assicurato un flusso di informazioni di grande rilievo ai fini della ricostruzione dei modelli operativi adottati nel corso del tempo da Cosa nostra e dalla ’ndrangheta per esercitare il proprio potere criminale. Nell’azione di contrasto a Cosa nostra, possiamo individuare il vero e proprio spartiacque nel maxiprocesso e poi nelle stragi del 1992-1993, che del resto proprio nella sentenza già ricordata pronunciata il 30 gennaio 1992 trovano la loro causa scatenante.
Dopo quegli eventi la reazione dello Stato, in termini di impegno delle risorse umane e materiali, è risultata vincente: lo testimoniano i successi conseguiti. I devastanti effetti delle numerose collaborazioni con la giustizia e delle penetranti iniziative investigative hanno prodotto, con significativa continuità e progressione, un gran numero di condanne definitive inflitte a capi e gregari, di patrimoni confiscati e di capi latitanti assicurati alla giustizia, consentendo di ridimensionare drasticamente e in qualche caso di smantellare molte articolazioni e strutture operative dell’organizzazione mafiosa e di dare concretezza all’esigenza di riaffermare la presenza dello Stato e il principio di legalità.
Al riguardo, la conferma più «qualificata» giunge dalle parole degli stessi mafiosi. Il boss palermitano Salvatore Lo Piccolo già il 19 giugno 2005, scrivendo all’allora capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano a proposito di una vecchia delibera della Commissione, sottolinea: «Si tratta di un impegno e di una decisione di almeno venticinque anni fa, da allora ad oggi molte persone non ci sono più […]. Siamo arrivati al punto che siamo quasi tutti rovinati, e i pentiti che ci hanno consumato girano indisturbati. Purtroppo ci troviamo in una situazione triste e non sappiamo come nasconderci». All’epoca latitanti, i due boss Provenzano e Lo Piccolo di lì a poco sarebbero anch’essi stati tratti in arresto.
Anche nei confronti della ’ndrangheta, negli ultimi vent’anni, si sono succedute iniziative investigative e processuali di grande importanza: a partire dagli anni Novanta si sono stratificate diverse ricostruzioni del fenomeno ’ndranghetista e del suo modello operativo, fatto di elementi quasi immutabili e di altri in continua evoluzione, di regole arcaiche e scelte di modernità. Tali ricostruzioni hanno tuttavia illuminato solo alcune zone – sia pure significative – di tale mondo criminale, con la conseguenza che per lungo tempo è mancata una lettura aggiornata della situazione complessiva di questa organizzazione criminale. Si è già detto, infatti, che in questa materia la bontà delle ricostruzioni dipende inevitabilmente dalla quantità e dalla qualità dei dati di conoscenza che emergono dalle indagini. Negli ultimi anni sono emersi elementi e fatti nuovi che, insieme a quelli già acquisiti, hanno reso possibile una ricostruzione per linee più generali e complessive anche di questo modello criminale. Della valenza di tali attività investigative ha dato conto Ernesto Lupo (primo presidente della Corte di Cassazione dal 2010 al 2013) nella Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011: Sono stati evidenziati l’intensità dei collegamenti della ’ndrangheta con organizzazioni criminali operanti in altre parti del territorio nazionale e su scala internazionale; il collegamento egemonico con insediamenti ’ndranghetisti nell’Italia centrale e settentrionale, dediti alle varie attività illecite e, in particolare, al traffico di sostanze stupefacenti e alla consumazione di reati conseguenti il reimpiego di capitali illecitamente acquisiti. Mentre permangono le preoccupazioni per la pressione estorsiva in danno d’imprese impegnate nella costruzione di tratti autostradali calabresi, è stata fortemente sottolineata l’avvenuta sprovincializzazione della ’ndrangheta, che ha assunto dimensioni interregionali e internazionali, acquisendo le peggiori connotazioni delle altre più antiche organizzazioni criminali, anche con tendenza al superamento della dimensione di microcosmi a struttura familiare e localistica verso la caratterizzazione di cellule interdipendenti e collegate al vertice da strutture sovraordinate. È una questione che merita di essere approfondita, con una premessa di metodo. Se sono davvero molte – tutte di significativo rilievo – le iniziative investigative avviate negli ultimi anni sulla ’ndrangheta, e già pervenute con successo a numerose verifiche giurisdizionali, anche definitive, l’indagine dalla quale sono scaturiti in gran numero fatti dimostrativi, elementi informativi e spunti di riflessione di portata davvero straordinaria è quella mediaticamente conosciuta come «Crimine», per la parte sviluppatasi a Reggio Calabria e nella sua provincia, e come «Infinito», per la parte che ha riguardato la Lombardia. Ci riferiamo all’indagine condotta tra il 2009 e 2010 in costante coordinamento investigativo dalla Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Reggio Calabria e da quella di Milano. Lo storico inglese John Dickie, nel suo volume Onorate Società, ha sottolineato come «l’‘Operazione Crimine’ […] a prescindere da quale sarà l’esito finale rappresenta una lezione di umiltà per chiunque cerchi di scrivere del mondo segreto della criminalità organizzata italiana: in qualsiasi momento le certezze storiche possono essere rovesciate da nuove indagini della polizia, o da qualche nuova scoperta in uno dei tanti archivi non ancora esplorati». In realtà, non si tratta di una sola attività investigativa, ma di più attività i cui risultati sono derivati dall’ascolto, dall’analisi e dalla valutazione di una grande quantità di prove, costituite in particolare da attività di intercettazione. Queste attività sono state effettuate da diverse forze di polizia, nell’ambito di procedimenti distinti, pur se collegati, dalle Direzioni distrettuali antimafia di Reggio Calabria e Milano prima e da quella di Torino poi. La circostanza non è irrilevante perché l’esperienza giudiziaria dimostra che l’indice di validazione di una ricostruzione è tanto più alto quanto maggiori sono i contesti investigativi, soprattutto se non omogenei, nei quali essa può trovare riscontro. E in effetti queste risultanze probatorie sono state sottoposte con esito positivo al vaglio di più giudici, il vero banco di prova di ogni ipotesi ricostruttiva. Si fa riferimento alle pronunce dei diversi giudici di merito, prima, della Corte di Cassazione, poi, che – come si è già ricordato – hanno definito i diversi tronconi processuali che hanno avuto origine dalle due indagini. Ebbene, sono proprio tutte queste risultanze probatorie, raccolte negli ultimi trent’anni, sia con riferimento a Cosa nostra che alla ’ndrangheta, che evidenziano l’emergere con forza di alcuni profili principali, ognuno scomponibile in più questioni, che costituiscono altrettanti parametri sulla scorta dei quali può senz’altro essere orientata un’analisi, anche comparativa, sui due modelli criminali. Il primo profilo è quello connesso alla dimensione organizzativa, e di questo tratteremo nei paragrafi che seguono. Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino
- Michele Prestipino, in magistratura dal 1984, è procuratore aggiunto di Roma, dopo aver fatto parte della Direzione distrettuale antimafia di Palermo ed essere stato procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria.
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A cura di Claudio Ramaccini Resp. Ufficio Stampa e Comunicazione Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco