Trentuno anni senza verità sulla strage di via D’Amelio sono un tragico vulnus alla credibilità delle istituzioni. C’è un inquietante filo di continuità fra il clima obliquo in cui maturò l’attentato della mafia contro Borsellino e i depistaggi che hanno segnato il corso delle inchieste. L’unico amaro verdetto emerso dai nove gradi di giudizio celebrati è il tradimento dello Stato nei confronti di uno dei suoi più grandi servitori.
E’ su questo che i professionisti dell’antimafia dovrebbero interrogarsi, invece di accanirsi su teoremi indimostrabili e cercare pretesti per attaccare il governo.Invece anche quest’anno la commemorazione della strage in cui morirono, oltre a Borsellino, i cinque agenti della scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina), si svolge in un clima avvelenato, in linea purtroppo con quanto più volte accaduto in passato, e questa volta la polemica alimentata ad arte riguarda la mancata partecipazione della premier alla fiaccolata. Nel 2010, ad esempio, durante il corteo che andava da via D’Amelio all’albero di Falcone si diffuse la voce della possibile partecipazione (che non era prevista) dell’allora presidente del Senato Schifani, e alcuni gruppuscoli del movimento delle Agende rosse (un nome, un programma) presidiarono via D’Amelio per impedire l’eventuale arrivo della seconda carica dello Stato.
Un comportamento vergognoso, perché lo Stato ha ottenuto i suoi maggiori successi contro la mafia quando il centrodestra è stato al governo, una verità che i professionisti della disinformazione non hanno mai riconosciuto, ma sia l’inasprimento del regime di carcere duro (il 41 bis) che la confisca dei patrimoni delle cosche – che ha progressivamente fatto terra bruciata intorno ai boss – furono decisi dai governi Berlusconi: è stata l’antimafia dei fatti, insomma, a varare le norme più severe per sconfiggere la mafia.
Ma oggi, trentunesimo anniversario della strage, l’accento va messo sul tormentato e discusso iter processuale, fatto di depistaggi e clamorosi errori. A partire dalla teoria secondo cui l’attentato fu anticipato a causa del fallimento della trattativa Stato-mafia: un falso storico su cui la Cassazione ha recentemente scritto la parola fine. Una delle poche certezze è che Borsellino, soprattutto nei mesi prima di essere ucciso, stava lavorando alacremente sul dossier mafia-appalti. Proprio quel fascicolo potrebbe essere stato il motivo scatenante della decisione di uccidere Borsellino, e fa riflettere il fatto che quell’inchiesta sia stata frettolosamente messa da parte tre giorni dopo la strage con la richiesta di archiviazione da parte della procura di Palermo. Una scelta misteriosa su cui non è mai stata fatta luce, ma una spiegazione potrebbe essere trovata nello scontro di potere in atto da tempo all’interno di quella procura che lo stesso Borsellino non aveva esitato a definire come “un nido di vipere”.
Ecco: per onorare la memoria del giudice-eroe Borsellino sarebbe meglio ricordare chi allora lo contrastò, e chi fece terra bruciata intorno a Falcone, invece di lanciare anatemi contro inesistenti nemici della lotta alla mafia.