Il procuratore DE LUCIA: il pizzo c’é ancora e tanti imprenditori chiedono favori ai boss
VIDEO – Mafia, il commerciante paga il pizzo e chiede al boss: “Non scrivere il mio nome sul libro mastro”
In Sicilia il pizzo non muore mai
Le estorsioni mafiose sembrano un problema antico e invece continuano a proliferare tra commercianti e imprenditori. La maggior parte di loro non denuncia e il sistema si riproduce, materializzando la forma più arcaica del potere di Cosa nostro.
Campare la famiglia. Anzi, le famiglie. Mentre si consolida la zona grigia delle mafie, con ingerenze e business in settori legali e pubblici, questa rimane la motivazione principale per cui Cosa nostra in Sicilia non abbandona un’attività tradizionale: la richiesta del pizzo. Più rischiosa e meno redditizia di un grande appalto, ma con due obiettivi ancora preziosi: liquidità immediata per sfamare i parenti dei detenuti e controllo del territorio. Così tradizionale da non fare quasi più notizia, eppure non c’è operazione antimafia sull’Isola che non riporti tra la lista dei reati contestati proprio l’estorsione. La richiesta dei clan a commercianti e imprenditori negli anni si è adeguata ai tempi, pur rimanendo uguale a se stessa.
Il welfare mafioso
La pandemia è riuscita a intaccare il modus operandi di Cosa nostra. “In un periodo di vacche grasse, la distinzione tra gli affari dell’associazione mafiosa e quelli del singolo uomo d’onore non comporta particolari conseguenze – scriveva nella relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia) del secondo semestre 2020 il procuratore Francesco Lo Voi – ma attualmente le casse di molte famiglie e mandamenti mafiosi, di regola foraggiate per lo più con i proventi delle estorsioni, sono in sofferenza. Da ciò potrebbe conseguire una crescente difficoltà economica”. A fronte di minori entrate, Cosa nostra ha “aiutato” esercenti e imprenditori in difficoltà, attraverso i soliti prestiti a tassi da usura o con azioni plateali come quella del capomafia palermitano Giuseppe Cusimano, diventato punto di riferimento per le famiglie indigenti del quartiere Zen dopo avere distribuito alimenti durante i primi mesi di chiusura forzata. Nell’ambito del cosiddetto welfare mafioso, la criminalità organizzata ha dimostrato paziente attesa – ma sarebbe stato difficile comportarsi diversamente – anche nel pagamento del pizzo. “Qua ci siamo dovuti fermare per questo corna virus…”, raccontava il gestore di un’attività al suo estortore, che nell’occasione si dimostra particolarmente comprensivo: “Lo so, lo so… La gente sta impazzendo. Purtroppo lo Stato italiano non è buono… Nello Stato italiano non va niente”.
Questione di connivenza
Nei primi dieci mesi del 2021, a Palermo, i casi di racket sono stati 220. I carabinieri ne hanno seguiti circa la metà, ricevendo solo sette denunce
Nei primi dieci mesi del 2021, a Palermo, i casi di racket accertati sono stati 220. Circa la metà seguiti dai carabinieri del capoluogo siciliano, che però hanno ricevuto solo sette denunce. “Poco rilevanti da un punto di vista quantitativo, ma di sicuro impatto da un punto di vista qualitativo – scriveva ancora Lo Voi –. Peraltro sono sempre più numerosi gli imprenditori che oppongono resistenza passiva e, pur non denunciando, tentano di non pagare la messa a posto“. Come un ristoratore di Palermo, costretto a non servire carne nel proprio locale e a far mangiare gratis i componenti del clan e i loro ospiti finché non si fosse deciso a rifornirsi dalla loro macelleria o a pagare il pizzo. Una forma di mediazione.
Di contro, cresce la quantità di commercianti e imprenditori che fanno il primo passo, chiedendo di pagare quando ancora non è richiesto. Un fenomeno diventato addirittura preponderante rispetto a chi cede sotto minaccia, secondo la storica associazione palermitana Addiopizzo: “La maggior parte di chi paga lo fa perché instaura relazioni di connivenza con Cosa nostra – spiega Daniele Marannano, presidente e fondatore del movimento antimafia –. Commercianti e imprenditori che in cambio del pizzo chiedono servizi alla criminalità organizzata, come scalzare i concorrenti o recuperare crediti fra i propri clienti, dirimere vertenze con i dipendenti e risolvere problemi di vicinato. C’è chi paga e non denuncia perché appartiene a Cosa nostra o perché il pizzo lo corrisponde senza remore al proprio cugino o genero, che è l’estorsore del rione. È illusorio aspettarsi collaborazioni e risulta fuorviante non interrogarsi sui profili di chi paga. C’è l’esigenza di ridefinire l’analisi e la narrazione, anche per adottare nuovi strumenti amministrativi utili a rendere sconvenienti queste relazioni di connivenza”. Con variegate sfumature di grigio, come quella di un gioielliere catanese che consentiva a un capo clan compravendite in contanti di diamanti, orologi e gioielli senza alcun documento fiscale, permettendogli così, a fronte del proprio guadagno, di riciclare soldi sporchi. “Una società di fatto con dazione reciproca del denaro da attività lecite e illecite“, scrivono gli investigatori.
Imprenditori, tra vittime e complici
“Spesso le prime richieste non sono aggressive, si chiede un contributo di solidarietà per le famiglie dei detenuti o una garbata offerta di protezione”Alessandro Sciacca – Commissario di polizia a Lentini (Sr)
“Fin da quando studiavo giurisprudenza – spiega Alessandro Sciacca, commissario di polizia a Lentini, in provincia di Siracusa – esiste la differenza tra l’imprenditore vittima e l’imprenditore complice. Il pizzo non è solo un fenomeno criminale e reprimerlo non può bastare. Serve un processo culturale. Per snaturare la percezione del racket come normale rischio d’impresa – continua il poliziotto – a volte si cerca la protezione prima ancora di aprire l’azienda, senza capire che con le estorsioni Cosa nostra entra nel cuore delle attività economiche”. Negli anni, non sembrano cambiate neppure le modalità di aggancio della vittima. “Spesso le prime richieste non sono aggressive – racconta il commissario –. Si chiede un contributo di solidarietà per le famiglie dei detenuti o una garbata offerta di protezione. In questa fase può intervenire anche la figura dell’intermediario, il buono, l’amico che promette di convincere l’organizzazione mafiosa a prendere una somma più piccola ma che ovviamente è loro complice”. A quel punto scatta la richiesta vera e propria: non solo denaro, ma anche la pretesa di beni e servizi gratuiti o l’imposizione degli stessi.
Fino a raggiungere sfumature grottesche: dalla scelta obbligata dei cantanti neomelodici da far esibire a Palermo durante le manifestazioni in onore di Madre Sant’Anna, patrona del quartiere Borgo Vecchio, alle ceste natalizie ordinate dal carcere dal boss catanese Giuseppe Zucchero. Una decina a titolo di pizzo, “per monetizzare vendendole o per omaggiare i responsabili del gruppo mafioso del quartiere Civita, per rinforzare i legami tra i due sodalizi mafiosi“, si legge negli atti degli inquirenti. Un “gentile pensiero” non sempre alternativo alla richiesta di denaro. Come accaduto sempre in provincia di Catania, a Paternò, dove le donne di un gruppo affiliato alla famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano, trovandosi a gestire il giro di estorsioni per indisponibilità degli uomini, tutti in carcere, pretendevano costosi regali sotto Pasqua o Natale: dalle casse di champagne ai dolci. “I generi alimentari che mi venivano richiesti per le festività erano di qualità e quantità tale da avere un valore superiore, di fatto, all’importo dell’estorsione che pagavo”, ha raccontato la vittima ai magistrati.
Metodi nuovi e antichi
Le somme di denaro richieste variano in base al fatturato dell’imprenditore e all’eventuale convenienza reciproca. “Dai racconti dei commercianti, registriamo che oggi viene chiesta una cifra inferiore ma in più momenti rispetto alla tradizionale richiesta mensile – spiega Nicola Grassi, presidente di Asaec, associazione antiestorsione di Catania –. All’inizio si pretendono 300-500 euro, a cui si aggiunge una seconda richiesta per le feste, Natale, Pasqua e Ferragosto. Poi avanti senza una precisa periodicità, in base al principio che meno ci si fa vedere e meno rischi si corrono”. Una prassi adeguata ai tempi, ma che non si applica alle vittime storiche, come racconta l’indagine Sangue blu: tra le estorsioni, anche quella al titolare di un negozio di giocattoli di Misterbianco, nel Catanese, durata più di trent’anni. “Intorno al 1989-1990, dopo aver subìto una rapina, si presentò una persona e mi disse che avrei dovuto sistemarmi pagando una quota annuale”, racconta il giocattolaio. Due milioni di vecchie lire diventate poi duemila euro all’anno, sempre nello stesso periodo: i primi giorni di novembre, dopo le festività di tutti i Santi e della commemorazione dei defunti. La festa dei morti, sentita in Sicilia come e più del Natale, con il tradizionale giocattolo da regalare ai bambini come pensiero da parte di chi non c’è più. Come in questo caso, spesso “l’azione investigativa si scontra con l’atteggiamento poco collaborativo delle vittime, sempre meno inclini alla denuncia – scrivono gli investigatori della Dia –. Ne deriva un trend di apparente diminuzione, sebbene non accennino a diminuire i danneggiamenti”.
Denunciano in pochi
Solo nel primo semestre del 2020, in provincia di Caltanissetta, territorio a scarsa vocazione imprenditoriale, si sono registrati 334 episodi, di cui 43 con incendio. Triste primato quello di Gela, dove sono state accese più della metà delle fiamme dell’intera provincia. Primo sintomo delle richieste di pizzo. “Il fenomeno del racket è di scarsa visibilità – conferma il commissario Sciacca –. Le denunce sono poche perché la gente ha paura e per il particolare rapporto che si crea tra la vittima e l’estortore. Noi, per farci un’idea e indagare dobbiamo affidarci a dei segnali indice, piccoli danneggiamenti, serrature bloccate, voci di popolo e il prezioso impulso dell’associazionismo”. Tanti gruppi che lavorano su due fronti: la sensibilizzazione e l’affiancamento a chi decide di denunciare, per affrontare il lungo percorso in tribunale e quello burocratico per ottenere i ristori previsti dalla legge. “Le poche denunce che riceviamo nascono dalla vastità del fenomeno – spiega Grassi –. Noi di Asaec ne raccogliamo due o tre all’anno, forse prima della pandemia qualcosa in più”. Numeri che tendono allo zero rispetto all’ampiezza del fenomeno, ma che diventano ancora più piccoli nelle zone a vocazione agricola.
Riguardo ai contributi regionali destinati alle associazioni antiestorsione, per evitare che si trasformino per alcuni in un’opportunità di carriera o facili guadagni, sono stati resi più stringenti i parametri per il loro ottenimento (ad esempio, non si possono percepire contributi da altri enti locali e almeno la metà dei soci devono essere imprenditori o commercianti vittime di pizzo). Criteri che si aggiungono a quelli necessari per l’iscrizione nelle liste delle prefetture – passaggio fondamentale per supportare i denuncianti nell’iter burocratico che porta al risarcimento – tra cui almeno una costituzione di parte civile nei processi a fianco di una vittima ogni due anni. “Solo che al numero delle associazioni iscritte all’albo non corrisponde una effettiva capacità di intervenire in maniera efficace sul territorio – ammette Grassi –. Probabilmente è fallito il metodo messo in campo dalle associazioni e ci stiamo interrogando per capire se quel modello sia ancora valido. Di sicuro, serve più sensibilità da parte delle istituzioni, mentre in Sicilia non esiste nemmeno un tavolo permanente sul racket, né al livello prefettizio né comunale, per far conoscere gli strumenti a favore delle vittime”. Argomento su cui grava più di un pregiudizio e non tutti sono infondati. “Gli imprenditori vittime di pizzo spesso non hanno fiducia nelle capacità degli investigatori, che invece sono efficaci. Si è velocizzato l’iter per i risarcimenti messi a disposizione dal fondo nazionale per le vittime di racket e usura, che adesso arrivano, in media, dopo circa un anno dal rinvio a giudizio degli estortori. Mentre il dubbio sulla celere risposta della giustizia rimane fondato, perché la certezza e la velocità della pena sono ancora vacillanti”.
Il metodo Confindustria
Nel 2007 Confindustria annunciò una linea dura che prevedeva l’espulsione per gli iscritti collusi e la possibilità di redenzione per chi sceglieva di denunciare. Nei cinque anni successivi, la misura colpì una trentina di imprenditori siciliani, poi non se ne seppe più nulla. “Solo perché non abbiamo più avuto elementi per affermare che qualcuno ha davvero pagato il pizzo”, spiega il presidente di Confindustria Sicilia Alessandro Albanese, che non nega la vastità del fenomeno, semmai ne sottolinea la complessità. “Se guardiamo a Palermo – aggiunge – esistono zone dove il pagamento è diffuso a tappeto tra i piccoli e piccolissimi esercenti. I nostri associati sono medi e grandi imprenditori, con i quali negli anni è stato fatto un lavoro, specie nelle aree industriali, mirato a far comprendere loro come al giorno d’oggi pagare non sia più necessario, ma diventa un atto volontario. Chi continuava a farlo o era stupido, e allora non poteva fare l’imprenditore, oppure era colluso e in cerca di scorciatoie”.
Una categoria, quest’ultima, che non è certamente scomparsa. “Penso a certi marchi in franchising, che hanno affidato dei lavori di ristrutturazione ad aziende colluse o utilizzate dalla mafia. Chi arriva in una nuova città e vuole capire come funzionano le cose può percorrere due strade: quella legale è fatta di interlocuzioni con il sindaco, incontri con la camera di commercio e le associazioni di categoria; la via alternativa è rappresentata dalla mafia, che offre scorciatoie per le autorizzazioni. Dopo gli scandali che ci hanno investito in passato, preferiamo non creare strutture apposite sulla legalità o fare proclami. Nessuna passerella e nessuna possibilità di indossare la veste di paladini. Quando un nuovo aderente presenta domanda – dice Albanese – facciamo innanzitutto un controllo cartaceo, che però è superabile servendosi di un prestanome. Si apre quindi una discussione interna ai direttivi locali, dove con il passaparola cerchiamo di recuperare informazioni e capire chi può accedere e chi invece no. In passato ci sono stati dei casi dubbi e abbiamo preferito declinare. D’altronde siamo una libera associazione e possiamo scegliere”.
Claudia Campese direttore responsabile di MeridioNews 22 dicembre 2022
«Chi oggi non denuncia il pizzo è connivente con la mafia»
A trentuno anni dall’omicidio di Libero Grassi si può affermare che a Palermo si è creata, grazie in particolare a forze dell’ordine e magistratura, la possibilità di denunciare le estorsioni. I processi degli ultimi due decenni raccontano infatti che a Palermo sono maturate centinaia di denunce di commercianti e imprenditori che si sono opposti a Cosa nostra. Tuttavia, a fronte di un fenomeno non più capillarmente diffuso, va ribadito come c’è ancora chi paga e non denuncia.
Su questa tendenza va ridefinita l’analisi e aggiornata la narrazione, approfondendo le condotte di chi corrisponde le estorsioni e si ostina persino a negarne l’evidenza. Oggi, a differenza del passato, il tema che investe la maggior parte di coloro che pagano non è più quello della paura né tanto meno della solitudine, ma quello della connivenza. Emergono a più riprese dai processi relazioni di grave contiguità tra chi paga senza remore le estorsioni e Cosa nostra.
Si tratta di commercianti e imprenditori che in cambio del pizzo pagato chiedono servizi alla criminalità organizzata: c’è chi paga e non denuncia perché si rivolge al suo estorsore per impedire l’apertura di concorrenti nel proprio quartiere oppure per recuperare crediti presso i propri clienti, dirimere vertenze con i dipendenti e risolvere problemi di vicinato. C’è chi paga e non denuncia perché appartiene a Cosa nostra o perché il pizzo lo corrisponde al proprio cugino o genero, che è l’estorsore del rione. Dinanzi a tali casi è illusorio aspettarsi collaborazioni proprio per gli interessi e le relazioni tra chi paga e Cosa nostra. Da qui l’esigenza di ridefinire l’analisi perché le estorsioni e soprattutto chi paga non hanno più, su Palermo, le caratteristiche di vent’anni fa. Per tale ragione molti di coloro che sono acquiescenti alle estorsioni non possono considerarsi vittime.
Negli ultimi due decenni il contrasto a tale fenomeno a Palermo è stato contrassegnato da un trend di denunce e collaborazioni più o meno costante, senza diminuzioni o incrementi esponenziali.
Da un lato singole denunce, dall’altro significative anche se isolate ribellioni collettive registrate nelle cinque operazioni Addiopizzo nel 2008 sul mandamento San Lorenzo; nell’area industriale di Carini nel 2009; nell’operazione Apocalisse del 2014 sul mandamento di Resuttana; in via Maqueda nell’operazione nata con le denunce dei commercianti bengalesi nel 2016; e per ultimo nell’operazione Resilienza a Borgo Vecchio nel 2020.
Oggi però, se si vuole segnare una svolta, occorre ripartire da due imprescindibili direttrici. In primo luogo, la riformulazione dell’analisi sul fenomeno delle estorsioni per giungere all’adozione di nuovi strumenti amministrativi, utili a rendere sconvenienti le relazioni di connivenza che lesionano il mercato e sterilizzano la libera concorrenza a danno di imprese e consumatori. La seconda, specie in un momento in cui si registra un calo di interesse sui temi della lotta alle mafie nell’agenda elettorale dei partiti, riguarda chi si candida a rappresentare i cittadini che non può ignorare il tema della «qualità del consenso». Fu proprio Libero Grassi nell’aprile del 1991 a rilanciare tale questione sostenendo la necessità di mettere al bando «le cattive raccolte di voti». Del resto non si può chiedere a commercianti ed imprenditori di denunciare le estorsioni se da chi governa e amministra non proviene il buon esempio
A Palermo il pizzo non è solo una questione di paura
In alcune zone c’è una forte contiguità tra vittime e clan mafiosi, e molti pagano gli estorsori per abitudine o per avere servizi
Secondo l’ultimo dato disponibile nella provincia di Palermo, da gennaio a ottobre del 2021, sono state accertate delle forze dell’ordine circa 220 estorsioni. Poche però sono state quelle denunciate dalle vittime. Molte per paura, ma molte altre per convenienza, perché hanno interesse ad avere un appoggio nella cosca mafiosa, o per abitudine. Giuseppe De Liso, comandante provinciale dei Carabinieri, ha detto di aver seguito «115 episodi estorsivi, ma le denunce ricevute sono state solo sette».
A Palermo il fenomeno del pizzo, o come viene detto in gergo mafioso della “messa a posto”, è ancora molto presente anche se negli ultimi vent’anni le operazioni di magistratura e forze dell’ordine hanno colpito pesantemente le organizzazioni mafiose. Non si è tornati indietro agli anni in cui le denunce si contavano, in un anno, sulle dita di una mano: il numero di chi si rivolge a forze dell’ordine e magistratura, con l’aiuto delle associazioni antiracket, è cresciuto.
Ma chi lo fa rimane una minoranza: molti commercianti non denunciano, e anzi spesso anche dopo le operazioni delle forze dell’ordine negano di aver mai pagato. Per molti pagare il pizzo è come un attenersi a un adempimento burocratico che legittima la possibilità di operare sul mercato. Ma, appunto, c’è anche chi paga per convenienza: si rivolge alla cosca mafiosa come se si trattasse di una società di servizi, pagando il pizzo come se fosse un abbonamento a un’entità che risolve i problemi.
Non è una novità, ma solo di recente è una situazione che sta iniziando a essere descritta pubblicamente e con chiarezza. Salvo Caradonna, socio fondatore e avvocato dell’associazione Addiopizzo, spiega che «siamo abituati ai racconti, sulla stampa, di una città dove tutti pagano il pizzo per terrore oppure al contrario dove all’improvviso ci sono rivoluzioni con la rivolta dei commercianti che si ribellano al racket». Questi due fenomeni esistono, ma «ogni zona, ogni periodo, ogni cosca e anche ogni vittima ha la sua peculiarità».
Caradonna dice che «se restiamo ai fatti bisogna dire che non c’è solo chi paga il pizzo perché ha paura, ma anche chi lo fa perché ha interesse a pagarlo, perché così si assicura un servizio da parte dell’organizzazione criminale, oppure perché semplicemente vive e lavora in quella zona da 30 anni e così è stato abituato a fare». Se a un certo punto queste persone rifiutassero il pizzo andrebbero con ogni probabilità incontro a ritorsioni violente: ma non è questo il motivo principale per cui pagano. La storia e le condizioni sociali ed economiche di alcuni quartieri di Palermo hanno reso il pizzo parte del panorama, una tassa a cui è normale adeguarsi.
Nell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Palermo, il presidente della Corte d’appello Matteo Frasca ha spiegato che c’è stato un aumento di denunce di estorsioni ma che «tale incremento, purtroppo si è manifestato a macchia di leopardo: mentre nel mandamento mafioso di Porta Nuova ben 15 imprenditori, soprattutto del settore edile, indicavano compiutamente gli autori dei reati, nel mandamento di Brancaccio-Ciaculli non una sola vittima di estorsione si è fatta avanti».
Il caso di Brancaccio-Ciaculli, quartiere a sud est del centro, è emblematico. Nel luglio del 2021 16 persone furono arrestate per 50 episodi estorsivi ricostruiti dalle forze dell’ordine. Nessuna vittima però aveva denunciato, e nemmeno confermò in seguito di essere stata colpita da estorsione. Eppure, per qualsiasi esercizio commerciale nella zona, qualsiasi locale o negozio, si doveva pagare il pizzo: supermercati, concessionarie di auto, autodemolitori, bar, farmacie, discoteche, panettieri, imprese edili. Addirittura, dalle intercettazioni telefoniche ordinate dalla magistratura risultò che un commerciante ambulante doveva pagare 5 euro di pizzo per potere sistemare la propria merce in un mercato domenicale.
A gestire le estorsioni era tra gli altri Giuseppe Greco, figlio di Salvatore “il senatore”, a sua volta fratello di Michele Greco, “il papa”, chiamato così per la sua abilità di mediatore tra le varie famiglie mafiose. Fu lui che durante il maxiprocesso del 1986 chiese la parola e disse rivolto alla giuria: «Io desidero fare un augurio. Vi auguro la pace signor presidente, a tutti voi auguro la pace perché la pace è la tranquillità e la serenità dello spirito e della coscienza e per il compito che vi aspetta la serenità è la base fondamentale per giudicare». È una famiglia, quella dei Greco, che non si è mai spostata da Brancaccio e che continua ad avere il controllo del territorio. Tra gli estorsori c’era anche Gaspare Sanseverino, nipote di Gaspare Spatuzza, uno dei più famosi pentiti di mafia.
Gli interrogatori e le intercettazioni dell’operazione effettuata dalle forze dell’ordine nel quartiere Brancaccio spiegano bene alcuni dei motivi che stanno alla base della decisione di non denunciare e di sottomettersi all’ordine mafioso. «È una delle aree», dice Caradonna, «in cui al di là dell’incessante opera di repressione di magistrati e forze dell’ordine e del lavoro di poche realtà sociali e scolastiche, il territorio è caratterizzato da una forte relazione di contiguità culturale ed economica tra vittime ed esattori».
Un commerciante per esempio disse esplicitamente all’estorsore di non aver nessun problema a pagare, bastava però non comparire in quello che chiamava «libro mastro». Un altro commerciante suggerì all’uomo della cosca cosa dire alle forze dell’ordine nel caso lo avessero fermato con i soldi fuori dal negozio. C’è poi il caso dell’ambulante che, in vista di un concerto di un cantante neomelodico nel parcheggio di un centro commerciale, chiese al suo estorsore di fare in modo che un suo concorrente quella sera non fosse presente. Anche il concorrente però pagava il pizzo e questo creò non pochi dilemmi agli uomini della cosca.
C’è chi si affidava ai propri estorsori per recuperare un credito da un’altra persona e chi per impedire che nella sua zona aprisse un negozio concorrente. Molti pagavano perché vivevano in quella zona da 30 anni ed è quello che avevano sempre fatto. «C’è anche il caso del commerciante che pagava il pizzo a suo cognato: l’estorsore era suo parente», dice ancora Salvo Caradonna. «Pensate che ne avesse paura? No, semplicemente è una cosa che andava fatta. Non bisogna pensare sempre che chi paga è un vigliacco che sia terrorizzato. Le situazioni sono diverse, di volta in volta». Caradonna fa l’esempio di «un imprenditore edile che arriva in una zona per un lavoro e però non vive lì, magari non è nemmeno di Palermo, denuncerà più facilmente di un panettiere che vive da sempre in un quartiere e per sempre ci vivrà».
Dalle intercettazioni durante le indagini svolte a Brancaccio, ha spiegato il questore di Palermo Leopoldo Laricchia, «è emerso un quadro inquietante dove addirittura l’estorto viveva la sua condizione come fosse affetto dalla “Sindrome di Stoccolma”. La vittima vedeva il suo estorsore come il necessario percorso per giustificare l’esborso delle somme richieste».
Dalle indagini sulle estorsioni nella zona di Brancaccio è emersa anche la difficoltà per il clan, durante il lockdown, di esercitare il lavoro di riscossione. Questo comportò di conseguenza un problema con le famiglie dei mafiosi in carcere, a cui la cosca assicura un sostegno mensile. Lo spiegò il questore di Laricchia illustrando i risultati dell’operazione: «Dovevano giustificarsi con i parenti dei detenuti e affrontare le minacce delle mogli che dicevano “se non arrivano i soldi sapete cosa ci resta da fare”, alludendo alla possibilità che i familiari si pentissero».
Santo Lo Bocchiaro, un artigiano che aprì quattro anni fa un laboratorio di restauro a Brancaccio, raccontò di essere stato avvicinato poco dopo l’apertura della sua attività da un uomo dei clan che gli disse: «Perché si trova qua? Chi le ha detto di venire?». Poi l’uomo aggiunse: «secondo lei è giusto che i carcerati non abbiano neanche una cassata per le feste?». Lo Bocchiaro si rifiutò di pagare, e poco dopo ricevette una busta con due proiettili. Denunciò e i suoi estorsori vennero arrestati. Chiuse comunque l’attività e andò via da Palermo, in cerca di un lavoro: «Ancora oggi aspetto che lo stato mi dia il primo risarcimento stabilito dai giudici due anni fa» ha detto a Repubblica.
Durante il lockdown conseguente alla pandemia le cosche si sono comportate in maniera molto diversa l’una dall’altra. In alcuni mandamenti (le zone controllate da una famiglia o da una alleanza di famiglie mafiose) gli estorsori hanno continuato a esigere pagamenti regolari, nonostante le difficoltà dei commercianti. In altre zone invece il clan mafioso ha assunto l’aspetto di una società di mutuo soccorso. Ne ha parlato Annapaola Porzio, a capo dell’ufficio del Commissario straordinario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, che presentando la relazione annuale 2020 ha descritto l’esistenza di un «welfare mafioso di prossimità, ovvero quel sostegno attivo alle famiglie degli esercenti di attività commerciali e imprenditoriali in difficoltà o in crisi di liquidità».
Alcuni clan hanno attinto alla loro enorme disponibilità economica per aiutare imprese, locali ed esercizi commerciali in difficoltà e senza chiedere niente in cambio, ma con l’obiettivo poi di subentrare o di avere un ruolo in quell’azienda o in quell’attività. Secondo Annapaola Porzio, questo «ha determinato un’impennata del livello reputazionale delle conventicole criminali foriera di gravi conseguenze per il futuro». La mafia, in pratica, ha cercato consenso ed è riuscita a ottenerlo.
Non è sempre così. Accade anche che molti commercianti riescano a unirsi e, con l’aiuto delle associazioni antiracket, decidano di denunciare. Avvenne nel 2016 quando un gruppo di commercianti di via Maqueda, in maggioranza bengalesi ma anche di altri paesi, denunciò soprusi ed estorsioni da parte di un clan composto da nuove leve della mafia. I commercianti erano sottoposti a minacce e violenze se esitavano a pagare. Yusupha Susso, un giovane gambiano che reagì a un atto di sopraffazione, venne ferito con un colpo d’arma da fuoco alla testa.
Arrivò quindi la reazione dei commercianti e fu la prima volta che un caso di denuncia collettiva coinvolse un gruppo di persone immigrate. Vennero arrestate e rinviate a giudizio nove persone. «È stato un episodio importante», dice Caradonna, «ma senza attendere ribellioni collettive di questo tipo, va comunque registrato che le denunce contro il racket sono costanti, non ancora tante come sarebbe auspicabile però ci sono».
Certamente la situazione è molto cambiata da quando Libero Grassi, il 10 gennaio 1991, pubblicò sul Giornale di Sicilia la lettera aperta ai suoi estorsori. Cominciava così:
«Volevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. (…) Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui».
Non solo Condorelli: chi sono gli imprenditori che denunciano il pizzo e come funziona il “sistema”
Le richieste estorsive per mantenere il controllo del territorio e provvedere al sostentamento dei carcerati di Cosa nostra. Le storie di chi sceglie di non rassegnarsi, con l’aiuto della magistratura e il sostegno delle associazioni antiracket. Oggi la scelta di opporsi al pizzo, oltre ad essere possibile, non ha bisogno del clamore mediatico a cui fu costretto, suo malgrado, Libero Grassi. Ma non basta, se non interviene la politica
“Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al geometra Anzalone e diremo no a tutti quelli come lui”.
Era il 10 gennaio 1991: trent’anni fa il Giornale di Sicilia pubblicava la lettera-denuncia di Libero Grassi al “caro estortore”. L’imprenditore tessile siciliano scelse quest’azione plateale per scuotere le coscienze e ribellarsi al pizzo e agli emissari della mafia. In un contesto di silenzi, solitudine e sottovalutazione del problema, Libero Grassi pagò quel gesto con la vita: fu ucciso da Cosa nostra sette mesi dopo, il 29 agosto del 1991. Quel documento è una pietra miliare nella lotta per una Sicilia migliore, perché la “lettera al caro estortore” di fatto aprì la stagione della ribellione al pizzo. La stagione del risveglio.
Il sistema del pizzo e le denunce degli imprenditori
Trent’anni dopo le cose sono cambiate, ed è anche merito di Libero Grassi. Oggi, in Sicilia, c’è più consapevolezza. Nonostante ci sia ancora chi continua a pagare e in certe circostanze a negare l’evidenza, c’è una concreta alternativa oltre la condizione, per tanto tempo ineluttabile, di tacere e pagare le estorsioni. Chi sceglie di non rassegnarsi e non pagare per difendere la propria azienda e il proprio territorio può contare sull’impegno costante di magistratura e forze dell’ordine, oltre che sull’assistenza di tante associazioni antiracket che rappresentano un supporto contro la solitudine, la paura e le incertezze delle vittime di usura ed estorsioni. Chi denuncia il pizzo può farlo in sicurezza, e non è solo. Sono centinaia le denunce presentate dagli imprenditori siciliani contro il racket nel 2020. “Si tratta di un dato parziale, perché per ogni impresa che presenta domanda per accedere ai benefici previsti dalla legge per le vittime del pizzo ce ne sono altre nove che non lo fanno. Ma queste denunce sono il sintomo di un’accresciuta consapevolezza tra gli imprenditori”, ha spiegato Luigi Cuomo, presidente nazionale di Sos Impresa, associazione per opporsi al racket delle estorsioni nata a Palermo su iniziativa di un gruppo di commercianti.
Non solo Condorelli
Giuseppe Condorelli, a capo dell’omonima azienda dolciaria del catanese famosa per i torroncini, finita nel mirino del clan mafioso etneo Santapaola-Ercolano, è l’esempio più recente di un imprenditore che ha avuto il coraggio e la forza di ribellarsi a Cosa nostra denunciando le richieste estorsive. Qualcuno aveva lasciato davanti ai cancelli dell’azienda, a Belpasso, una bottiglia contenente liquido infiammabile e un biglietto intimidatorio (“Mettiti a posto o ti facciamo saltare in aria, cercati un amico”). Condorelli non ha piegato la testa, si è fidato dello Stato e ha denunciato tutto ai carabinieri. La sua denuncia ha dato una spinta ulteriore all’inchiesta che ha disarticolato alcuni gruppi mafiosi operanti nel catanese.
Ma non c’è solo Condorelli. Come funziona oggi il “sistema” del pizzo? Accade spesso che si denunci un’estorsione? E cosa succede agli imprenditori che decidono di non rassegnarsi? Lo abbiamo chiesto a Daria Raiti e Sandra Figliuolo, due colleghe giornaliste di CataniaToday e PalermoToday che raccontano da anni il loro territorio anche attraverso le storie delle vittime del pizzo, di chi non piega la testa e denuncia. Da un po’ di tempo c’è una Sicilia che non si fa intimidire dalle minacce e vuole cambiare, con coraggio: è il messaggio, confortante, che emerge dal loro racconto di croniste “sul campo”.
L’amico e il compagno di scuola estorsori
“In realtà credo che, per l’assurdità del mondo mediatico, il fatto che un imprenditore come Condorelli denunci è assolutamente normale: se non lo fa lui, chi dovrebbe farlo? – sottolinea Figliuolo -. Ho incontrato diverse vittime di pizzo in questi anni e sono diverse le storie che meriterebbero di avere un’eco più vasta. Ne cito tre, a partire da quella di un imprenditore di un piccolo comune della provincia di Palermo che ha pagato il pizzo per una quindicina d’anni prima di ribellarsi. Per via degli arresti messi a segno nel tempo, i suoi estorsori sono cambiati. Tra di loro c’erano anche un suo amico e un suo compagno di scuola. Ha raccontato che avrebbe voluto denunciare prima, ma che si sentiva stritolato, avrebbe dovuto mettere nei guai persone che riteneva amiche, e soprattutto si vergognava. Ha atteso che le sue figlie diventassero grandi e si allontanassero dal paese per denunciare, in modo da evitare che a pagare eventuali conseguenze potessero essere loro”.
Il pizzo chiesto dal paladino dell’antimafia
L’altra storia è più nota, ma non meno emblematica. È quella dei fratelli Cottone, titolari del ristorante “La Braciera” a Palermo. Hanno pagato il pizzo per vent’anni e hanno avuto a che fare con ben undici estorsori diversi: ne arrestavano uno e ne spuntava un altro, tanto che fu detto loro che “questa cosa non finisce mai”. Nel 2016 fecero arrestare in flagranza gli ultimi due taglieggiatori e da lì, grazie al supporto dell’associazione Addiopizzo, hanno trovato il coraggio di denunciare tutto ciò che era accaduto prima. E hanno raccontato che già quando alla fine degli anni ’90 rilevarono l’attività, nel pacco era compreso anche il pagamento del pizzo. Poi c’è un’altra storia, anche questa abbastanza nota ma paradossale, perché il pizzo non lo chiede Cosa nostra. È quella di Santi Palazzolo, pasticciere di Cinisi (in provincia di Palermo), a cui il pizzo venne infatti chiesto addirittura dall’ex presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, paladino dell’antimafia e della lotta al racket. Helg venne arrestato mentre intascava i soldi per consentire all’imprenditore di aprire un punto vendita all’interno dell’aeroporto Falcone e Borsellino.
Sandra Figliuolo di PalermoToday osserva che “la maggior parte delle vittime non cerca la ribalta, racconta con fatica la propria esperienza e anche con grande dolore e imbarazzo, soprattutto nel caso di piccoli commercianti e a maggior ragione se di piccoli paesi della provincia. Non vogliono essere eroi, ma solo lavorare con serenità. Ecco perché diffido molto da chi riprende i suoi estorsori (che non farebbero paura a nessuno, si capisce che sono due miserabili) e poi va girando nei salotti televisivi. L’antimafia e l’antiracket (come dimostra il caso di Helg) possono essere anche dei business, un’opportunità per ottenere patenti di legalità e visibilità con scopi poco trasparenti”.
Il welfare della mafia e il controllo del territorio
Se nel corso degli anni è cambiato l’atteggiamento degli imprenditori, non si può dire altrettanto del “sistema” del pizzo. Oggi funziona esattamente come sempre. Il pizzo serve all’organizzazione criminale sia per il suo “welfare”, cioè il sostentamento dei carcerati e delle loro famiglie (ed è evidente che questa assistenza e “solidarietà” è uno dei punti di forza di Cosa nostra che non lascia solo nessuno in caso di difficoltà), ma serve anche per mantenere il controllo del territorio: chi apre un’attività o un cantiere deve rendere conto ai boss, piegarsi a loro.
“Cosa nostra, attraverso suoi emissari, fa sapere al commerciante o all’imprenditore che deve “mettersi a posto”, oppure che deve “aiutare i carcerati” – spiega Figliuolo – . Solitamente il pizzo si paga a Natale e a Pasqua. Di fronte a forme di resistenza o esitazione da parte delle vittime possono partire minacce e danneggiamenti (di solito colla nei lucchetti delle saracinesche dell’attività, ma anche incendi oppure furti di mezzi, in modo da far capire che per operare “in sicurezza” bisogna pagare). Naturalmente in un periodo di forte crisi economica e con l’emergenza sanitaria, la mafia non pretende chissà quali somme dagli imprenditori, per non strozzarli. Ma chiede comunque, per non perdere il suo potere. Inoltre, essendoci continuamente arresti, i carcerati da mantenere sono in numero sempre maggiore e i soldi del pizzo non bastano. Ed è anche per questo che Cosa nostra è tornata alla droga, seppure dipendendo dalle altre organizzazioni criminali, camorra e ‘ndrangheta, oggi molto più potenti”.
Le ceste regalo per Pasqua e Natale e le casse di champagne per gli estorsori
Cambia la provincia, non cambia il coraggio di chi sceglie di non rassegnarsi. Come Giuseppe Condorelli, nel Catanese nell’ultimo anno ci sono stati altri imprenditori vittime di estorsioni che, grazie alla loro denuncia, hanno permesso agli inquirenti di stringere il cerchio sui responsabili e sui mandanti. Negli ultimi mesi CataniaToday ha seguito due operazioni dei carabinieri scaturite proprio da imprenditori stanchi di subire che hanno trovato la forza di ribellarsi. L’operazione “Jukebox” (ottobre 2020), a seguito della denuncia di due imprenditori titolari di una catena di supermercati della provincia etnea, ha colpito esponenti apicali e affiliati del gruppo di San Giovanni Galermo e del clan Assinnata di Paternò, tutti inseriti nella famiglia di Cosa nostra catanese dei “Santapaola- Ercolano”, attiva nel capoluogo e in tutta la provincia etnea. Le indagini hanno ribadito la prassi consolidata del clan Santapaola della sottoposizione di commercianti e imprenditori al pagamento del pizzo in cambio di protezione mafiosa.
“I due imprenditori dal 2001 erano costretti a pagare rate mensili dapprima di euro 350, poi di 700, poi di mille e infine di 1.500 euro. Per un totale di 200 mila euro – racconta Daria Raiti – . Oltre alle rate, erano costretti a rifornire gli estorsori di ceste regalo per le festività natalizie e pasquali nonché di costose casse di champagne. Da notare anche il ruolo importante delle donne che, a seguito dell’arresto dei loro compagni o congiunti, li hanno sostituiti in tutto nella riscossione del pizzo nei confronti delle vittime. Dopo una pausa forzata nei versamenti dovuta al periodo covid, era stata proprio una delle mogli a recarsi in uno dei punti vendita chiedendo alla vittima di riprendere subito i pagamenti e il versamento degli arretrati, avvisando il titolare dell’esercizio commerciale che da quel momento non era più protetto da rapine e danneggiamenti. Il giorno successivo lo stesso supermercato ha subìto una rapina da parte di tre persone con il volto coperto, armate di pistola”.
“Da un po’ di tempo c’è una Sicilia che vuole cambiare”
Un’altra operazione scaturita dalla denuncia di un imprenditore è stata quella denominata “Malupassu”. Anche in questo caso le somme raccolte dal racket venivano destinate al mantenimento dei detenuti. “Il clan, sempre Santapaola, imponeva la sua forza e dominio del territorio anche con il traffico di marijuana e hashish, dimostrando capacità organizzativa nel perpetrare le attività illecite e con l’intento di acquisire, in modo diretto o indiretto, la gestione o comunque l’assoggettamento di attività economiche e altro per realizzare profitti o vantaggi ingiusti – spiega la collega di CataniaToday -. Sono stati molti i commercianti che hanno trovato il coraggio di ammettere i fatti confermando ulteriormente le responsabilità degli indagati. In totale sono stati contestati ben 15 episodi estorsivi. Oltre alla richiesta di denaro c’era anche l’imposizione di determinati prodotti alimentari all’interno di pasticcerie e slot machine all’interno di sale giochi. Quindi, quello che esce fuori è da un lato la “versatilità” e mutevolezza della mafia che si adatta a tutti gli scenari possibili, anche alla pandemia, ma dall’altro una maggiore propensione dei cittadini a dire no. Da un po’ di tempo c’è una Sicilia che vuole cambiare. È quella Sicilia onesta e libera che vuole mettere fine al meccanismo delle estorsioni. Una Sicilia che non vuole farsi intimidire dalle minacce ma anzi diventa più forte grazie al coraggio di denunciare”.
Cosa succede a chi si oppone?
Oggi la scelta di opporsi al pizzo, oltre ad essere possibile, non ha bisogno del clamore mediatico a cui fu costretto, suo malgrado, Libero Grassi. La lotta alle estorsioni, per fortuna, non ha più bisogno di eroi ma vive di esempi di normalità, di lavoratori onesti che scelgono la libertà senza piegarsi all’oppressione. Fondamentale è stato il ruolo di un’associazione come Addiopizzo, composta da giovani amici che, una notte del 2004, tappezzarono la città di Palermo di manifesti listati a lutto con la scritta “un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Grazie al risveglio delle coscienze e all’aiuto delle associazioni che offrono assistenza morale e legale, i mafiosi hanno iniziato ad avere paura delle denunce. Dalle intercettazioni emerge che preferiscono non andare da certe commercianti “perché hanno l’adesivo di Addiopizzo”, per esempio. “Più recentemente, nell’inchiesta “Cupola 2.0″, quella che ha sventato nel 2018 l’ultimo tentativo di ricostituire la Commissione provinciale di Cosa nostra, alcuni boss pensavano addirittura di non chiedere più il pizzo perché appunto esponeva a troppi rischi”, racconta Figliuolo.
Cosa succede a chi rivela un’estorsione alle forze dell’ordine? Il caso di una denuncia spontanea da parte dell’imprenditore taglieggiato è abbastanza raro. Ciò che accade più spesso è che le vittime decidono di collaborare e confermare ciò che gli investigatori scoprono durante le indagini, attraverso intercettazioni e documenti che registrano le richieste di pizzo. Chi nega di fronte all’evidenza rischia una denuncia per favoreggiamento. La collega di PalermoToday spiega che “non va affatto sottovalutata o ritenuta inutile questa forma di collaborazione, perché bisogna tenere a mente il contesto in cui ci muoviamo: spesso l’emissario di Cosa nostra che chiede di “mettersi a posto” è un commerciante vicino, una persona che si conosce da una vita, e specialmente nei paesi della provincia non è affatto facile decidere di andare in caserma e denunciare. Ed è la prova che la mafia utilizzi l’estorsione soprattutto per mantenere il controllo sul territorio”.
Recentemente si è assistito al caso di un imprenditore che ha deciso di filmare i suoi estorsori e che poi è finito su tutti i giornali e le tv come un eroe. “In realtà il suo è stato, dal mio punto di vista (ma anche secondo le associazioni e gli inquirenti), un gesto inutile: non c’è bisogno di esporsi a dei rischi di questo tipo perché la procura e le forze dell’ordine su questo fronte sono assolutamente presenti, se arriva una denuncia sanno esattamente come e quando intervenire. Non abbiamo bisogno di eroi, ma di persone civili che, in uno Stato democratico, di fronte a un atto illecito si rivolgono alle autorità preposte a sanzionarlo”.
L’imprenditore che denuncia viene tutelato, se necessario anche con vigilanze dinamiche o con scorte. E può accedere ai fondi contro il pizzo e l’usura che danno diritto anche ad agevolazioni fiscali. Le associazioni antiracket poi “accompagnano” gli imprenditori e i commercianti che si ribellano, aiutandoli sia da un punto di vista burocratico che giudiziario. “Molti di loro, anche se hanno denunciato solo quando convocati da carabinieri e polizia, si costituiscono parte civile nei processi e non esitano ad indicare i loro estorsori in aula. Il sostegno morale non va sottovalutato: permette a chi denuncia di non sentirsi solo in un contesto in cui comunque le ritorsioni sono sempre possibili”, conclude Figliuolo.
Perché le denunce non bastano
Ma non basta. A trent’anni dalla lettera al “caro estortore” di Libero Grassi, oltre alle denunce servono le politiche sociali e il lavoro, soprattutto in contesti colpiti da povertà e degrado dove l’illegalità diffusa diventa anche un ammortizzatore sociale che assicura la sopravvivenza. “Quello che in questo momento più ci preoccupa – spiega l’associazione Addiopizzo – non è tanto il rischio di recrudescenza dell’usura e del condizionamento mafioso di imprese e famiglie in difficoltà. Rispetto a tale pericolo i magistrati della procura di Palermo e le forze dell’ordine continuano a operare efficacemente liberando vittime di estorsione, pezzi di territorio e di economia dal controllo di Cosa nostra. Quello che più ci inquieta è che i vuoti creati dall’azione repressiva possano, nel tempo, rimanere tali e senza risposte politiche”.
Si tratta di vuoti che soprattutto in questo periodo drammatico, di crisi sanitaria ed economica, “diventano voragini se il lavoro, l’accesso al credito, la cassa integrazione, il sussidio alimentare, l’istruzione con l’accesso alle tecnologie informatiche e la salute rimangono più che diritti per tutti un miraggio per molti – spiega l’associazione che aiuta chi si oppone alle estorsioni -. Per queste ragioni siamo convinti che non sia ormai più sufficiente che le associazioni antiracket si limitino a sostenere commercianti e imprenditori a denunciare estorsioni ed usura se non si orienta il loro contributo anche per rimuovere le condizioni di povertà che contribuiscono ad alimentare fenomeni criminali e di illegalità diffusa”.
Ci sono aree di Palermo e altre città siciliane attraversate da sacche di povertà e degrado sociale e urbano dove l’emergenza sanitaria ha accentuato le disuguaglianze e favorito l’illegalità diffusa e organizzata. In questi mesi per provare a superare l’emergenza sono state stanziate decine di miliardi di euro per offrire soprattutto garanzie pubbliche per accedere al credito. “Ma piuttosto che investire, in particolare, su tali misure che rimangono per molti impantanate in ritardi e lungaggini burocratiche, perché non dotare delle risorse necessarie le leggi che esistono da anni e che sono senza fondi?”, si chiede Addiopizzo. Il riferimento, soprattutto, è alla legge regionale che vige in Sicilia dal 2008 e consente il rimborso degli oneri fiscali e previdenziali alle vittime di estorsione. Il varo di questa norma fu presentato come una novità che avrebbe segnato “la svolta nella prevenzione e contrasto al racket delle estorsioni”, ma “il sistema non è sempre efficiente e le risorse non sono mai adeguate”, denuncia Salvo Caradonna, socio fondatore e legale di Addiopizzo che abbiamo raggiunto al telefono.
A distanza di tredici anni dall’approvazione di quella legge, la maggior parte delle vittime che hanno trovato la forza e il coraggio di denunciare non hanno avuto alcuna possibilità di accedervi, “visto che le risorse sono state nel corso degli anni falcidiate da chi, senza distinzioni, si è avvicendato al governo della regione e sugli scranni dell’Assemblea regionale siciliana. In un momento in cui c’è bisogno di liquidità è paradossale che certe norme non abbiano risorse adeguate”, sottolinea Addiopizzo. È soprattutto questa la sfida in tema di lotta alle estorsioni in tempi di emergenza Covid-19. Servono risposte politiche concrete, oltre alle denunce degli uomini onesti.