“Il giudice Paolo Borsellino ha vissuto l’inferno nel suo ufficio, un palazzo di giustizia che era diventato un luogo in cui non si trovava più a suo agio, un luogo in cui venne umiliato”. È all’isolamento del giudice ucciso in via d’Amelioche l’avvocato Fabio Trizzino ha dedicato la prima parte della sua audizione davanti alla commissione Antimafia. Il legale rappresenta tutti i tre figli del magistrato ed è stato convocato a Palazzo San Macuto insieme alla moglie, Lucia Borsellino. “Siamo convinti, dopo avere assistito al percorrere di varie piste investigative, che non sono stati forniti del tutto atti, documenti e prove testimoniali che potessero portare a elementi, a nostro avviso indispensabili, per comprendere il contesto nel quale mio padre operava e il profondo stato di prostrazione e isolamento in cui ha vissuto fino all’ultimo giorno della sua vita”, ha detto la figlia maggiore del magistrato assassinato in via d’Amelio il 19 luglio del 1992. “Ciò che chiediamo – ha aggiunto – senza alcuna pretesa di volere sostenere una tesi piuttosto che un’altra, perché non siamo tecnici a differenza dei nostri avvocati, è offrire una ricostruzione completa”. La presidente Chiara Colosimo, che ha chiesto personalmente l’audizione, è intervenuta per sostenere di non avere “nessun esito già scritto, vogliamo fare piena luce soprattutto a partire da quello che finora non è stato detto”. In realtà, lungo tutta l’audizione, è sembrato che nella ricerca dei moventi coperti di via d’Amelio una pista sia quella prediletta. Ma andiamo con ordine.
Il nido di vipere – A parlare davanti ai parlamentari di San Macuto è stato soprattutto Trizzino, che ha tenuto un’audizione lunga quasi due ore. Dopo un dettagliato prologo, che ha ricostruito il contesto dei primi mesi del 1992, il legale ha particolarmente insistito sui rapporti tra Borsellino e i suoi superiori. Lo ha fatto citando la testimonianza della moglie del magistrato, Agnese Piraino Leto, alla quale Borsellino aveva detto: “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica, forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”. Secondo Trizzino “quel riferimento a ‘i miei colleghi‘ è stato costantemente espunto. Se noi incrociamo questa confidenza di Borsellino con la testimonianza del 2009 in cui si dice che lui definiva il suo ufficio ‘un nido di vipere‘, allora dobbiamo andare a cercare dentro l’ufficio della procura di Palermo per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione, indicazione come target e obiettivo di Paolo Borsellino: sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre proceduto gli omicidi eccellenti a Palermo”. A rendere difficile la vita in procura a Borsellino era il suo capo, Pietro Giammanco: “Bisogna andare a vedere se già nel ’92 vi erano elementi sulla cui base ricostruire le dinamiche comportamentali che avevano potuto giustificare quell’affermazione incredibile – ha detto Trizzino – Dinamiche che, messe in atto dall’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco, resero di fatto impossibile la vita di Borsellino. La cosa gravissima è che Giammanco non è mai stato sentito nell’ambito dei procedimenti per strage”.
“Giammanco non fu mai interrogato” – E in effetti è così: fino al momento della sua morte, nel 2018, l’ex procuratore capo non fu mai ascoltato come testimone, nonostante su via d’Amelio fossero stati già celebrati quattro processi. E dire che sarebbero state parecchie le domande da porre a Giammanco. Il magistrato è l’uomo che la mattina del 19 luglio, alle 7 e 15, telefona Borsellino per dirgli che ha deciso di concedergli la delega per indagare sulla mafia a Palermo. “Così la partita è chiusa”, dice il procuratore capo. “No, la partita è aperta”, replica Borsellino, riferendo il contenuto della chiamata a sua moglie. Quella mattina è una domenica: perché un procuratore capo chiama un suo sottoposto per una comunicazione d’ufficio la domenica alle sette e un quarto? Perché non può aspettare lunedì? Il problema è che al giorno successivo Borsellino non arriverà mai: verrà ucciso quello stesso pomeriggio. “Il dottor Borsellino – ha detto Trizzino – ha appreso sul conto del procuratore Giammanco delle notizie così terribili e ha interrotto il flusso delle sue conversazioni col procuratore capo. E di questo Borsellino ne ha parlato con alcuni pm come Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi e Antonio Ingroia“. L’avvocato si chiede inoltre il motivo per cui “nessuno ha chiesto a Giammanco perché non avesse mai avvisato Borsellino dell’informativa sull’arrivo di una quantità di tritolo a lui destinato. Salvo Andò (ex ministro della Difesa ndr) gli dice questa cosa dell’informativa di Subranni (capo del Ros dei carabinieri ndr) di fronte alla moglie Agnese Borsellino, e Borsellino risponde: Vedi che bel procuratore ho? Amico di D’Acquisto (ex presidente della Regione Siciliana, andreottiano, ndr), amico di Lima!’”. “Non c’e’ un verbale in 19 anni – ha aggiunto Trizzino – in cui un magistrato della procura chieda conto di questo atteggiamento a Giammanco”. Il legale ha battuto spesso su un punto: “Anche la magistratura deve essere pronta a guardare dentro di sé e a quello che ha combinato in quel frangente della storia repubblicana. In questi anni non ho mai sentito un mea culpa“.
La questione di Mafia e appalti – Lungo la sua tutta la sua deposizione Trizzino è tornato spesso a citare l’indagine Mafia e appalti, che era nata da un rapporto del Ros dei Carabinieri. E’ un’indagine sui legami miliardari tra Cosa nostra, la politica e l’imprenditoria. “Il chiodo fisso di Falcone era il rapporto mafia-appalti e lo fu anche di Borsellino, che era convinto che lì vi fosse la chiave della spiegazione della strategia criminale in corso. E’ un falso storico dire che Borsellino non conosceva il contenuto del rapporto del Ros su mafia-appalti”, ha sostenuto il legale. Quell’indagine ha una storia tormentata, tra veleni e fughe di notizie che hanno contrapposto alti ufficiali del Ros come Mario Mori e Giuseppe De Donno alla procura di Palermo. Contrasti che esploderanno solo negli mesi successivi alla morte di Borsellino: nei vari processi in cui sono stati imputati, i carabinieri hanno sempre sostenuto che Mafia e appalti è la pista da seguire per spiegare le stragi di Capaci e di via d’Amelio. Posizione storicamente sostenuta dalla coalizione della presidente dell’Antimafia: anche per la destra, infatti, l’eliminazione di Borsellino è da collegare al suo interesse per Mafia e appalti e non invece – come sostengono altri familiari del giudice, come il fratello Salvatore – agli elementi che il magistrato aveva raccolto sulla ‘pista nera’ dietro alla strage di Capaci. E neanche a quanto sostenuto da alcune inchieste poi archiviate: collegavano via D’Amelio a informazioni che il magistrato poteva aver avuto sui legami esistenti tra l’entourage di Silvio Berlusconi e Cosa nostra. “Il dossier Mafia e appalti era un dossier molto importante, certa era un atto imperfetto, non possiamo considerarlo un rapporto perfetto. Bisognava starci sopra, d’altra parte Falcone disse che bisognava affinare le metodologie di indagine”, ha spiegato Trizzino, paragondando il dossier del Ros alla confessione di Mario Chiesa, da cui poi si arrivò alla maxitangente Enimont. Secondo l’avvocato, dunque, Borsellino fu ucciso sia perché voleva indagare su Mafia e appalti, ma anche perché aveva scoperto come il movente della strage di Capaci fosse l’interesse dell’amico Falcone per quel rapporto. “L’accelerazione della strage di via d’Amelio – ha aggiunto – non ha senso guardando agli interessi puri e semplici del’organizzazione mafiosa di Totò Riina”. Il riferimento è al fatto che l’8 agosto il Parlamento avrebbe dovuto votare per convertire in legge il decreto sul 41bis, il carcere duro per i mafiosi, varato dopo la morte di Falcone: organizzare un’altra strage, dopo quella di Capaci, voleva dire provocare la conferma di quel provvedimento. In pratica era un boomerang per Cosa nostra. “Non si può ammazzare Borsellino e sperare che lo Stato non reagisca quindi ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Riina va sopra gli interessi dell’organizzazione. Deve, su suggerimento di terzi, fermare i magistrati che possono mettere in pericolo il già morente sistema dei partiti. Non dimenticate che doveva morire anche Di Pietro, quindi devono morire quei magistrato che hanno a che fare con inchieste che possono svelare il sistema, marcio, dei partiti”, ha proseguito l’avvocato.
L’indagine maledetta – Più volte investigatori e addetti ai lavori hanno dibattutto sull’interesse di Falcone e Borsellino per il dossier del Ros. Un elemento che, però, non è sembrato sufficiente a giustificarne l’eliminazione, almeno con quei tempi e quelle modalità. Per esempio: anche se Borsellino era interessato all’indagine dei carabinieri, cos’è che avrebbe potuto fare nei giorni successivi al 19 luglio per spingere Riina ad anticipare la sua eliminazione? La gestione di un’inchiesta – per quanto dirompente come Mafia e appalti – è un iter lungo: non si risolve in pochi giorni. Ma allora perché Cosa nostra decide di uccidere subito Borsellino, provocando la reazione dello Stato? Non poteva prima aspettare che il Parlamento si esprimesse sul 41bis? È dalla risposta a queste domande che è legata la verità su via d’Amelio. Sulla gestione di Mafia e appalti la procura di Caltanissetta ha aperto di recente un nuovo fascicolo. I pm nisseni ricostruiranno probabilmente lo scontro avvenuto alla fine degli anni ’90 tra i carabinieri del Ros e la procura di Palermo. Si tratta di una vicenda che torna ciclicamente a creare polemica. Nel 1999 l’ufficio inquirente siciliano, all’epoca guidato da Gian Carlo Caselli, depositò al Parlamento una dettagliata relazione per ricostrure la storia di Mafia e appalti. I pm scrivono che fino al settembre del 1992 non vennero mai informati dell’esistenza di intercettazioni telefoniche su politici nazionali. Cosa che avvenne soltanto con un’informativa del Ros depositata nel settembre del 1992, un anno e mezzo dopo la consegna del primo dossier su Mafia e appalti. La procura di Caselli citava, tra gli altri, il caso di una telefonata del 6 aprile 1990, intercettata tra Salvo Lima, il potente vicerè di Andreotti in Sicilia, e un dirigente della Sirap, l’ente sviluppo delle aree industriali e artigiane sull’isola. Al telefono Lima diceva esplicitamente di essere in buoni rapporti con l’imprenditore Cataldo Farinella, esponente di Cosa nostra già citato nel dossier consegnato dal Ros in procura il 16 febbraio 1991. In quell’informativa compariva il nome di Farinella, ma non quello di Lima. E nessun cenno si farà a quella registrazione anche quando Lima verrà assassinato, il 12 marzo del 1992. “Altri nomi di uomini politici di rilevanza nazionale venivano per la prima volta a conoscenza della Procura della Repubblica di Palermo addirittura soltanto il 5 settembre 1992, allorquando con una informativa a firma del Cap. De Donno venivano per la prima volta riferiti l’esistenza ed il contenuto di intercettazioni telefoniche eseguite e in gran parte già trascritte nel 1990 e nel 1991 recanti la citazione di personalità politiche nazionali”, scriverà l’ufficio inquirente siciliano nella sua relazione al Parlamento. Sono passati quasi 25 anni, ma la vicenda sembra tornata d’attualità.
Giuseppe Pipitone| 27 Settembre 2023 FQ