6.10.2023 COMMISSIONE ANTIMAFIA – Resoconto stenografico audizione LUCIA BORSELLINO – FABIO TRIZZINO

RESOCONTO STENOGRAFICO

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere
RESOCONTO STENOGRAFICO Seduta n. 14 di Venerdì 6 ottobre 2023 – Bozza non corretta
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE  CHIARA COLOSIMO

  La seduta comincia alle 9.35.

  PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’audizione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino, legale di Lucia Manfredi e Fiammetta Borsellino, che accolgo con piacere di nuovo qui e ringrazio per la loro presenza e la loro continua disponibilità.
  Ricordo che la seduta odierna si svolge nelle forme di audizione libera ed è aperta alla partecipazione da remoto dei componenti della Commissione.
  I lavori potranno proseguire in forma segreta a richiesta dell’audito o dei colleghi. In tal caso non sarà più consentita la partecipazione da remoto e verrà interrotta la trasmissione via streaming sulla web tv.
  Do la parola per le conclusioni all’avvocato Trizzino, che ringrazio ancora per la cortesia e la disponibilità.

 FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Grazie presidente e buongiorno a tutti voi. Mi avvio alla conclusione cercando rapidamente di fare prima un riepilogo delle cose che ho detto fin qui, per poi concludere la

ricostruzione dei 57 giorni del giudice Borsellino, alla luce (come tengo a dire) dei verbali della commissione del 1992 che ci hanno reso possibile (ripeto, ed è questo l’oggetto fondamentale della mia relazione) spiegare a noi stessi quella frase terribile del giudice Borsellino che definì il proprio ufficio un «nido di vipere».
  Vi ho detto che il giudice Borsellino rientra a Palermo il 12 luglio. Il giudice Borsellino va in Germania dal 6 al 9, tra Francoforte e Mannheim. Poi il 10 e l’11 sta a Roma, dove incontra il generale Subranni e lì ha un incontro molto fugace anche con il colonnello Mori. Poi il dottor Borsellino, che deve recarsi a Salerno in quanto era stato designato padrino del primo figliolo di un sostituto procuratore a lui molto vicino, il dottor Diego Cavaliero, chiede al generale Subranni di farsi accompagnare con l’elicottero e sorvolano la Costa Amalfitana. Canale, che era con loro, dirà che quello fu uno degli ultimi momenti felici della vita del dottor Borsellino. Quindi arriviamo a quello che è il dato fondamentale, cioè noi abbiamo sempre letto nei processi sulla strage di via D’Amelio che c’era stata l’archiviazione del 13 (è documentale, la richiesta viene fatta dai dottori Scarpinato e Lo Forte) delle posizioni residue del procedimento legato all’annotazione del ROS e che era confluita appunto nel fascicolo Calderone.
C’era una tempistica che ci aveva lasciato un po’ così, nel senso che tutto avviene, la richiesta viene accolta il 14 di agosto da parte del GIP La Commare. Va be’, per noi era un dato neutro.
Sennonché, attraverso la lettura dei verbali della commissione, veniamo a sapere che il giorno 14 luglio il dottor Borsellino partecipa a una riunione della direzione distrettuale, riunione voluta dal dottor Giammanco e allargata a tutti i magistrati, anche i magistrati della procura ordinaria, perché con riferimento alla gestione del rapporto «mafia-appalti» – già in una fase strettamente antecedente al primo sbocco procedimentale successivo al deposito del 20 febbraio, cioè la richiesta di arresto del 25 giugno del 1992 a carico di Siino, Li Pera, Falletta, Morici e Cataldo Farinella – attorno alla gestione del dossier «mafia-appalti» c’era mediaticamente una certa pressione e tutta la questione viene risolta dalla dottoressa Gilda Loforti. Vi rimando sostanzialmente a quel provvedimento per gli approfondimenti, però devo dire che già dal primo sbocco procedimentale c’erano delle polemiche.
  Abbiamo un secondo sbocco procedimentale che è l’arresto il 17 febbraio del 1992 se non ricordo male di Vito Buscemi e di Cascio Rosario, dopodiché l’indagine in qualche modo va avanti ma venne lamentata (e questo lo trovate anche nel provvedimento di archiviazione di Gilda Loforti, archiviazione che nasce su un’indagine connessa a delle denunce reciproche tra Siino, De Donno e Lo Forte) già in quella sede si parlò di illecita divulgazione, cioè il rapporto del ROS di fatto non rimase granché segreto. Vi ho raccontato della discovery illegittima compiuta dal dottor Giammanco con l’invio del plico ad autorità politiche, poi la dottoressa Gilda Loforti lamenta un’eccessiva discovery proprio sotto il profilo delle notizie contenute nella richiesta di arresto depositata al tribunale del riesame, perché secondo la dottoressa Gilda Loforti potevano omissarsi altre parti.
  Da questo punto di vista se lo riterrete potrei fare un esempio con riferimento alla famosa telefonata tra Giorgio Zito e Catti De Gasperi con riferimento alla mediazione che avrebbe fatto il Li Pera per conto di Siino e altri per spingere Catti De Gasperi (poi se volete vi spiego chi è Catti De Gasperi) a ritirare la propria offerta (l’offerta della Tor di Valle, una delle più grandi imprese nazionali indicate nel rapporto). La dottoressa Loforti lo dice in maniera larvale, a mio giudizio facendo un’analisi e una lettura attenta dell’intercettazione completa, è evidente che qualche parte (ma questa è una mia valutazione, prendetela per quello che è) poteva al limite essere omissata.
  Cosa succede nella riunione del 14 luglio a cui partecipano come titolare delle indagini il dottor Lo Forte, il principale, e per una sorta di conoscenza del fascicolo anche il dottor Pignatone, il quale lascia l’inchiesta nel novembre del 1991, dopo aver fatto il 26 luglio del 1991 la cosiddetta delega Sirap e una serie di invii alle procure territoriali competenti in relazione a fatti compresi anche nell’associazione, perché il 26 luglio del 1991 non è ancora entrata in vigore la normativa del 1991, che attrae le indagini per mafia alla procura del capoluogo del distretto (quindi le procure circondariali il 26 luglio del 1992 potevano anche compiere indagini per mafia).
  Questo è importante, perché nella riunione del 14 (ce lo dicono Patronaggio, ce lo dice il dottor Nico Gozzo, ce lo dice la dottoressa Consiglio, ce lo dice il dottor Matassa che era da qualche giorno lì) il dottor Borsellino chiede conto di carte mandate dalla procura di Marsala, carte che vengono sollecitate dalla procura di Palermo ex articolo 117 c.p.p. con riferimento al verbale di una segretaria di Nino Spezia che aveva cominciato a parlare.
  La lettera viene trasmessa il 18 febbraio del 1992. Io tra gli allegati ho proprio la richiesta e la risposta del dottor Antonio Ingroia.
  Il dottor Ingroia dice: «Attenzione, la segretaria di Spezia sta parlando, siccome noi procediamo per 416 normale con riferimento a reati finalizzati alla turbativa dell’incanto di alcune gare per cui è competente il circondario di Marsala» – dà la raccomandazione – «tenete segrete queste carte il più possibile, rendetele ostensibili nei limiti del possibile per non pregiudicare le indagini per associazione semplice finalizzata alla turbativa degli incanti che noi stiamo conducendo a Marsala»..
  Il dottor Scarpinato non è presente a quella riunione per motivi familiari, aveva i genitori che non stavano bene.
  Il dottor Borsellino chiede innanzitutto al dottor Lo Forte… Queste sono testimonianze del dottor Patronaggio, del dottor Gozzo, della dottoressa Antonella Consiglio, ognuno ovviamente in gradazione diversa, i particolari scemano in relazione alle dichiarazioni. Molto più precisi sono il dottor Patronaggio e il dottor Gozzo. Il dottor Matassa è importante perché ci dice che si parla del processo a carico di Siino.
  È importante questo perché la tempistica va tenuta presente: il 18 febbraio arrivano le carte da Marsala, il 9 marzo c’è la richiesta di rinvio a giudizio, il 17 maggio 1992 abbiamo il decreto che dispone il giudizio e la prima udienza avrebbe dovuto compiersi il 19 ottobre del 1992.
  Quindi Borsellino che aveva trasmesso le carte, perché Borsellino prende possesso definitivamente dell’ufficio della procura della Repubblica il primo marzo. Borsellino fino al 28 febbraio fa un po’ e un po’, è un piede qua e un piede là, conosce tutto quello che avviene a Marsala e tutto quello che… Per questo chiede conto e ragione di quelle carte.
  Non solo, il dottor Borsellino dice: «devo andare in Germania, questa cosa poi la continuiamo, anche perché c’è un nuovo collaboratore che sta parlando».
  E dall’altra parte il dottor Lo Forte gli dice: «vedremo se possiamo acquisirlo».
  Qui ci sono i commenti dei magistrati auditi in commissione che dicono: «ma il dottor Borsellino era chiaro, preciso, faceva degli appunti precisi, e dall’altra parte si rispose evasivamente». 

Questo è un commento che fanno i magistrati nell’audizione al CSM di cui alla riunione del 14, di cui noi fino a quando non l’abbiamo trovata non sapevamo nulla.
  Perché è plausibile sostanzialmente ritenere che il dottor Borsellino non fosse stato informato di quella archiviazione?
  Primo, in quella riunione nessuno, ed era una riunione di magistrati, non era una riunione di un quisque de populo, nessuno cita un istituto fondamentale regolato dal codice di procedura penale, dell’archiviazione nessuno ne parla.
  Ma poi arriva Ingroia al processo Depistaggio e ci dice una cosa che dal mio punto di vista è tranciante.
  Perché dice: «alla fine di quella riunione Paolo si rivolge ai due e dice con un tono scherzoso, con cui lui era solito dire le cose sferzanti, voi due non me la raccontate giusta».
  Questa è la testimonianza dell’avvocato Antonio Ingroia al processo Depistaggio nel 2021.
  Attenzione, questo è un punto fondamentale perché io non ci sto a fare passare in questa sede il dottor Borsellino come uno che usa le parole tanto per. Perché il dottor Borsellino se gli avessero detto che c’era un’archiviazione non penso che avrebbe detto a dei colleghi che comunque rispettava «voi non me la raccontate giusta». Perché se uno dice io faccio la richiesta di archiviazione, il dottor Borsellino poteva dire «è un’archiviazione allo stato degli atti, vediamo».
  Dire «voi non me la raccontate giusta» vuol dire che dall’altra parte non viene contemplato un istituto previsto dal codice di procedura penale.
  Poi andiamo alla sostanza delle posizioni archiviate.
  Le posizioni archiviate, l’ho detto nel corso della mia audizione, sono quelle di Buscemi Antonino, quella di Lipari Giuseppe. Ma Lipari Giuseppe chi è? Ce lo dirà Siino.
Attenzione, io non voglio utilizzare le conoscenze successive, però questa testimonianza di Siino ci serve per dire quanto fosse importante la figura di Lipari.
  Lipari che nel rapporto è oggetto di una costante attività di osservazione e pedinamento da parte del ROS, che vedono che egli si continua a incontrare con Lipari Giuseppe in viale Croce Rossa 23, dove vi erano le sedi di Bernardo Provenzano e dove risiedeva Gariffo, nipote di Bernardo Provenzano.
  Nel rapporto i ROS mettono in evidenza questo continuo interloquire, con la differenza che non è Lipari che va a trovare Siino ma è Siino che va a trovare Lipari, stabilendo gerarchicamente quindi un rapporto ben preciso.
  Sto per concludere perché voglio lasciare spazio alle vostre domande.
  Chi è Lipari Giuseppe?
  Lipari Giuseppe, ci dice Siino, è colui che dice la seguente frase: «Con l’arrivo di Borsellino alla procura di Palermo è finita la pace per quel santo cristiano di Giammanco».
  Questo è Lipari Giuseppe, la cui archiviazione è fatta con tre righe il 13 luglio del 1992. Tre righe tre. Noi abbiamo sempre avuto la sensazione che questa archiviazione fosse stata in qualche modo velocizzata. Del resto sappiamo che il dottor Giammanco era uno che quando doveva chiudere pressava. Ve l’ho dimostrato con riferimento all’indagine della dottoressa Enza Sabatino relativa ai piani integrati del Mediterraneo. Sollecitava quando le indagini avevano delle refluenze politiche, anche.
  Un’altra cosa fondamentale nel merito, Borsellino per come conosceva perfettamente lo sviluppo delle indagini relative a Pantelleria (gara della circonvallazione, gara sulla contrada Scauri e gara sulla contrada Renella) mai e dico mai a mio giudizio avrebbe acconsentito, avrebbe voluto un approfondimento su altri tre importanti archiviati: Puccio Bulgarella, Antonino Spezia e Rosario Equizi.
  Quindi sono questi indici fattuali che ci fanno ritenere plausibile il fatto che di quell’archiviazione il dottor Borsellino non fosse informato.
  Questo per noi è un dato fondamentale, questo è l’ulteriore elemento di novità assoluta che si introduce nella narrazione di quei 57 giorni.
  Ricordatevi la frase di Ingroia: «quei due non me la raccontano giusta».
  D’altra parte Ingroia aveva detto che già a Marsala il dottor Borsellino aveva espresso il suo giudizio circa il fatto che a Palermo stessero insabbiando quell’indagine. D’altra parte la dottoressa Liliana Ferraro ci racconta che Falcone commentò l’invio del plico dicendo anche lui che quell’indagine la stavano insabbiando.
  Il 15 è un giorno molto importante, tenete conto che il 15 è come se a Roma è la festa di San Pietro e Paolo, è tutto chiuso. Il dottor Borsellino si reca in ufficio dopo quella riunione. Ma noi non lo sapevamo, noi sapevamo che il dottor Borsellino si reca in ufficio il 15, ci mancava la riunione del 14 quale elemento di conoscenza.
  Il 15 si reca in ufficio e lì ci va il dottor Ingroia a dire «Paolo, io ho bisogno di 10 giorni». E Borsellino dice secondo la testimonianza di Ingroia una cosa incredibile: «Proprio ora che se ne vanno in ferie e noi dobbiamo lavorare tu mi vieni a dire che te ne vai in ferie? Vattene in ferie, vattene in ferie». Cioè lo tratta male. Di questo Ingroia dà un ampio resoconto.
  Poi il 15 si pone la famosa confidenza sul generale Subranni. Sulla scorta di tutto quello che ho detto, vi invito a leggere la dichiarazione resa da Agnese Borsellino il 18 agosto del 2009.

Ve ne sono due di dichiarazioni di Agnese Borsellino, questa è la prima e poi vi è la seconda.
  Secondo il mio criterio epistemologico, con cui vi ho detto che vi metto davanti tutte le versioni, vi devo dire che la versione del 2010 è molto più stringata, mancano i particolari che sono contenuti nel verbale, per due secondi ve lo devo leggere.
  È la procura distrettuale di Caltanissetta che sta interrogando la signora Agnese Piraino in relazione al fatto che Caltanissetta deve capire se l’accelerazione è in qualche modo connessa alla cosiddetta trattativa Stato-mafia, quindi è giusto che la procura di Caltanissetta abbia solcato quest’altra possibilità.
  A domanda risponde: «Circa i rapporti tra mio marito e il generale Subranni di cui mi chiedono le Signorie Loro, posso dire che Paolo ebbe modo di conoscerlo quando lo stesso era comandante della Legione Sicilia ed ebbe occasione di frequentarlo sporadicamente. I rapporti tra i due erano quindi solo di tipo professionale».
  «Prendo atto che le Signorie Loro mi rappresentano che la dottoressa Alessandra Camassa e il dottor Massimo Russo hanno riferito di essere stati testimoni di uno sfogo di Paolo, il quale piangendo disse di essere stato tradito da un amico. Ignoro a chi si riferisse mio marito e pertanto non posso affermare che si trattasse del generale Subranni, tuttavia ricordo un episodio che all’epoca mi colpì moltissimo e del quale finora non ho mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri, alla quale mi legano rapporti di stima e ammirazione. Mi riferisco a una vicenda…» Tutto questo nel verbale del 2010 non c’è. Non c’è, è tutto molto stringato.
  «Mi riferisco a una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992, – questo nel verbale 2010 non c’è, la contestualizzazione temporale non c’è nel 2010 – ricordo la data perché come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le Signorie Loro mostrano il giorno 16 luglio mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro» – è andato a sentire come sapete Mutolo – «e ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza.»
  «Mi trovavo a casa con mio marito verso sera, alle ore 19, e conversando con lo stesso nel balcone della nostra abitazione notai Paolo sconvolto. Nell’occasione mi disse testualmente: ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni è “punciutu”. Non chiesi tuttavia a Paolo da chi avesse ricevuto tale confidenza, anche se non potei fare a meno di rammentare che in quei giorni egli stava sentendo i collaboratori Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri».
  Quindi come vedete questa è la dichiarazione netta e semplice della signora Agnese Borsellino. Sta a voi fare la ricostruzione sintattica della frase «ho visto la mafia in diretta perché» quel perché è fondamentale a nostro giudizio.
  Ora spazio alle vostre domande perché non voglio togliere altro spazio.

  SAVERIO CONGEDO. Volevamo sapere il significato del termine «punciutu».

 FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Ah, scusate! Non semplicemente affiliato, perché esistevano anche gli affiliati riservati. Qui si va oltre, contravvenendo alle regole elementari di cosa nostra, per cui uno sbirro o chi è comunque vicino alle forze di polizia o di qualunque tipo non potrebbe mai essere «punciutu».

  PRESIDENTE. So che anche la dottoressa Lucia Borsellino vuole fare delle conclusioni e quindi le lascio la parola prima delle domande dei commissari.

  LUCIA BORSELLINO. Grazie presidente. Sarò veramente breve, soltanto qualche piccola considerazione che voglio consegnare a questa Commissione anche da parte dei miei fratelli Manfredi e Fiammetta, in aggiunta a quanto è stato ampiamente riferito dall’avvocato Fabio Trizzino per nostro conto.
  Non volendo rievocare dalla memoria in questa sede anche altri momenti che affondano nella nostra sfera più intima e quindi anche più dolorosi, non manchiamo però tuttavia di sottolineare ancora una volta come qualunque ricostruzione dei fatti non possa prescindere da riscontri documentali, testimonianze qualificate raccolte con assoluto rigore metodologico.
  È passato troppo tempo dalla strage del 1992, ben trentuno anni, per cui non siamo più disposti, commissari e presidente, ad accettare verità che non rispondono a questo rigore.
  Tutto ciò tenendo conto che una ricostruzione anche solo sul piano storico delle vicende che hanno caratterizzato prima e dopo la strage di via D’Amelio sconta degli ostacoli che a nostro avviso per il tempo trascorso sono divenuti ormai insormontabili, spero di essere smentita in questo.
  Il primo ostacolo è il buio istituzionale che avvolge la vicenda della sottrazione dell’agenda rossa dalla borsa di mio padre che aveva con sé il giorno in cui la strage è stata compiuta, sottrazione della quale naturalmente risentono le indagini perché sarebbe stata una fonte inoppugnabile di informazioni che ci avrebbe consentito di colmare (penso di ritenere) tutti i tasselli mancanti di questa storia.
  Peraltro non ci è dato sapere come mai non fu fatto nell’immediato del dopo strage l’esame del DNA sulla borsa di nostro padre, tenuto conto che l’esplosione comunque non l’aveva distrutta e l’aveva mantenuta integra, sebbene un po’ ammaccata da qualche parte e bruciacchiata. Tra l’altro mi risulta che per la strage di Capaci questo esame venne fatto.
  Devo constatare purtroppo che solo dopo vent’anni sono stati fatti prelievi salivari a me, ai miei fratelli e a mia madre per eseguire questo esame, ma voi sapete bene (io non sono un tecnico) che dopo vent’anni questo esame è assolutamente inattendibile. Tra l’altro non abbiamo avuto neanche un esito, per quanto questo non fosse attendibile.
  Un altro aspetto che abbiamo constatato in tutti questi anni sono il silenzio e i non ricordo, ahimè, di molti uomini delle istituzioni, che non ci hanno consentito di risalire ai veri responsabili del depistaggio. Perché voglio ricordare che la sottrazione dell’agenda rossa, si è detto più volte, è il primo tassello di quel gravissimo depistaggio che ne ha coinvolto le indagini già il giorno stesso della strage.
  Questi silenzi chiaramente non hanno aiutato gli apparati investigativi, quindi coloro che lavoravano sulla strage di via D’Amelio, a risalire alla verità ma ancor più ai responsabili del depistaggio stesso, nonché ai mandanti ancora occulti e ai corresponsabili morali della strage di via D’Amelio.
  L’enorme tempo trascorso inoltre è stato reso ancora più infruttuoso da un altro aspetto che è sotto gli occhi di tutti: c’è stato un assoluto mancato coordinamento tra le procure di Palermo e Caltanissetta. Penso per esempio alla gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, con esiti giudiziari che in taluni casi sono stati antitetici se non addirittura contrastanti tra le due procure.
  La mancata citazione come persona informata sui fatti del procuratore Giammanco della procura di Palermo, oggi deceduto. Lo abbiamo detto più volte, non si poteva prescindere da una testimonianza così importante da parte del capo dell’ufficio.
  Questa è una scoperta più recente, abbiamo subìto un’altra sottrazione, quella delle chiamate in entrata del traffico telefonico del cellulare dell’utenza mobile in uso a mio padre (altra fonte informativa preziosissima della quale se volete approfondiremo dopo), che ci avrebbe consentito di risalire alla rete di contatti che mio padre aveva tenuto fino all’ultimo giorno della sua vita. Ma ancor più avrebbe potuto forse consentire di decifrare, o meglio comprendere, le confidenze che lui aveva reso oltre che a mia madre a pochi altri in quel periodo. E, non ultimo per importanza, ci avrebbe consentito di arrivare a quei livelli istituzionali presso cui va ricercata la responsabilità di azioni e omissioni in questa vicenda.
  Un dato è certo, quello che ci è stato consegnato in tutti questi anni in cui abbiamo assistito allo svolgersi di svariate vicende processuali con sentenze passate in giudicato attraverso i tre gradi di giudizio, è, per dirla con le parole di mia sorella Fiammetta, la verità della menzogna, perché non abbiamo trovato altre frasi per appellare il depistaggio che è stato consumato sulla strage di via D’Amelio.
  Nonostante tutto, e questo ci tengo a sottolinearlo, il nostro rispetto e la nostra fiducia nei confronti della magistratura e degli apparati investigativi e delle istituzioni nel loro complesso è stata assolutamente massima e non è mai venuta meno.
  Noi siamo cresciuti a pane e istituzioni, noi siamo figli di un magistrato, siamo nipoti di un magistrato, la magistratura è stata la nostra casa. Non potevamo venir meno a quello che è stato il principio guida che ha formato la nostra vita. Però, guardate, dopo tanto tempo – e questa fiducia spiega anche perché abbiamo atteso tanto tempo – non possiamo vederci negato come figli di un magistrato che è morto nell’adempimento del proprio dovere il diritto di porci e di porre domande, nonché di vederci chiaro dopo trentun anni di composto riserbo in cui c’è stata consegnata appunto la verità della menzogna o meglio una mancata verità.
  In questo momento non posso che rivolgere il mio pensiero e la totale riconoscenza mia e della mia famiglia, nei confronti di tutti quegli uomini dello Stato (magistrati, forze dell’ordine, apparati investigativi) che invece hanno continuato a lavorare silenziosamente sulla ricerca della verità, quella autentica. Ma non posso non pensare a tutti quegli uomini e donne dello Stato e della società civile, che proprio in nome della lotta alla mafia hanno sacrificato la loro vita, come soldati di un esercito silenzioso che ha lavorato combattendo una guerra a mani nude. Perché la differenza, rispetto a quanto è accaduto in passato, è che quei soldati combattevano a mani nude.
  I fatti che abbiamo rassegnato in queste audizioni sono fatti già noti agli addetti ai lavori, non vorrei svilire quanto abbiamo fatto in queste audizioni ma vi assicuro che non vi è un elemento, tra quelli che sono stati rassegnati, che non fosse già noto agli addetti ai lavori.
  Lo stupore di questi giorni che le nostre dichiarazioni hanno suscitato ritengo debba verosimilmente attribuirsi al fatto che non vi sia stata probabilmente una rappresentazione organica di questi fatti anche in relazione al contesto in cui sono maturati. Ma, poiché si tratta di fatti documentati, noi ci augureremmo di essere clamorosamente smentiti, solo per il dolore che alcuni di questi fatti ci procurano. Noi ci augureremmo di essere smentiti. Ma non ci possono essere fatti documentati che possano essere neutralizzati se non da altri fatti che abbiano un medesimo o addirittura superiore sostegno documentale.

A questo noi teniamo particolarmente, perché non siamo più nelle condizioni, non c’è più tempo, per potere accogliere ricostruzioni o accertamenti di verità che non siano adeguatamente supportate, perché non possiamo più tollerare oltre a furti di verità anche furti di memoria.
  È unicamente con questo spirito che noi vorremmo che il nostro intervento in questa sede venisse inteso. Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie dottoressa Borsellino anche per queste conclusioni che ci lascia, penso che le domande che seguiranno serviranno anche a poter dare quelle risposte che chiedete.
  Io ho già diversi iscritti a parlare. Come è stato detto in tutte le audizioni, darò ai commissari tutto il tempo possibile alle domande. Come esattamente farò io adesso, chiedo ai commissari di fare solo domande e in un’altra sede eventuali riflessioni perché questa è la sede dell’approfondimento.
  Io volevo chiedere all’avvocato Trizzino, che ha più volte fatto riferimento a un tentativo di corruzione del giudice Scaduti, volto probabilmente a influire sulla decisione del processo a carico dei responsabili dell’esecuzione del capitano Basile, se è stato individuato il movente per quella uccisione. Su questo riguardo alla dottoressa Borsellino se suo padre, oltre al dispiacere per la morte del capitano Basile, ha mai mostrato particolare preoccupazione, se le ha rivolto in questo caso qualche confidenza.
  Sempre alla dottoressa Borsellino, lei più volte nel corso dei suoi due momenti di audizione ha fatto riferimento a una delegittimazione che è stata posta in essere in danno suo e dei suoi familiari. Ci può spiegare meglio in che senso e di che cosa si è trattato

Soprattutto, può riferire alla Commissione se prima della strage pervennero minacce alla vostra abitazione e se dopo il 19 luglio quelle minacce sono cessate o se invece sono proseguite?
  In ultimo per entrambi, anche viste le ultime affermazioni, per caso potete riferire nel dettaglio (se lo sapete ovviamente) se il telefono del giudice Borsellino fu analizzato e se furono acquisiti i tabulati, quindi se sono state esaminate le telefonate in uscita e in entrata del telefono che era in uso al giudice Borsellino? Grazie.

  FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Per quanto riguarda la vicenda relativa al tentativo di corruzione, io per i particolari rimando alla testimonianza della dottoressa Camassa e del dottor Massimo Russo, entrambi (Russo in particolare) in maniera esemplare ricostruiscono la vicenda della telefonata che il notaio Ferraro fa al presidente Scaduti, presidente della corte d’assise d’appello, prima di ritirarsi in camera di consiglio. Lì troverete tutta la descrizione dei fatti. Il numero al notaio Ferraro lo diede il giudice Signorino. Anche questo è un episodio incredibile della opacità che in qualche modo governava all’interno della procura della Repubblica. Siamo nel febbraio del 1992, vi rimando a quella ricostruzione perché il dottor Massimo Russo si fa mille domande in quanto Marsala aveva delle indagini a carico di Gunnella e poi a carico di Culicchia. A Gunnella viene sequestrata in una cassetta di sicurezza un’agenda in cui c’è il numero di Signorino, tra le altre cose, lì vi è anche contenuta la raccomandazione che il giudice Signorino chiede al Gunnella con riferimento all’esame di maturità di Misia Caterina, che era la figlia dell’imprenditore vicino a Saro Riccobono, il costruttore della casa di Pallavicino. Secondo le successive dichiarazioni di Gaspare Mutolo questa casa sarebbe stata oggetto di donazione al Signorino.
  Ma qual è la cosa incredibile di tutto questo? Che il 12 arriva la telefonata, il 12 il dottor Massimo Russo e la dottoressa Tosi assistono alla telefonata del dottor Scaduti al dottor Borsellino presso l’ufficio della procura di Marsala e il dottor Borsellino consiglia al dottor Scaduti di fare la relazione. Chiude la telefonata e davanti a Russo e alla dottoressa Tosi dice: «Totò Riina gli ha mandato la minaccia, io gli ho detto di fare una relazione così si fa un’assicurazione sulla vita».
  Il 13 Scaduti fa la relazione e il 21 viene sentito.
  La cosa incredibile che dirà Russo, quando le carte per competenza arriveranno a Marsala nell’aprile, è che nella telefonata si dice: «Chi ti manda?» – «Mi manda Enzo, un deputato trombato alle elezioni di area manniniana».
  Perché Ferraro dice a Scaduti: «Lo so che sei severo», come una minaccia, cerca di moderare… prima di entrare in camera di consiglio.
  Vorrei ricordare che il presidente della corte d’assise che aveva condannato Riina e Greco per il processo Basile era Saetta, ammazzato col povero figliolo. Quindi quel processo era un processo a cui Salvatore Riina teneva particolarmente.
  Vi ricordate che ho detto nel corso dell’audizione che Riina riceve la seconda botta con la condanna da parte di Scaduti in relazione all’omicidio del capitano Basile? La cosa incredibile è che da Palermo succede una cosa pazzesca. Mandano l’indagine a Marsala dicendo che questo Enzo, che poi viene identificato in Culicchia, il quale poverino non c’entrava niente, benché non risultasse dalla telefonata, dalle relazioni, da niente, dalle SIT dello stesso Scaduti, viene indicato come il deputato che risiede nello stesso distretto notarile ed è paesano del notaio Ferraro. Quindi è Palermo a indirizzare Marsala verso Culicchia, a protezione di Vincenzo Inzerillo
  Vincenzo Inzerillo è l’uomo dei Graviano a Montecitorio nel corso della legislatura dal 1987 al 1992. Poi, proprio perché questi legami vengono accertati, sarà un impresentabile, non ricandidato. Ma Vincenzo Inzerillo è un amico di un avvocato romano originario di Mazara che ha contatti con Giovanni Bastone, di una loggia di Mazara del Vallo in cui vi è anche Mariano Agate, che è quello che fornisce l’esplosivo per Boboli, preannunciando fondamentalmente la stagione delle stragi. E soprattutto è colui, lo dice Sinacori e altri, che si incontra con i Graviano in un albergo e gli dice «ora con le bombe andate a finire».
  Quindi vedete che in questa strategia cominciamo a dare nomi, cognomi, perché le formule servizi deviati non… Io vi sto dicendo nomi e cognomi.
  La cosa incredibile – e finisco, rimandando totalmente alla lettura della relazione dell’audizione del 12 luglio 2017 del Russo e della Camassa in Commissione parlamentare antimafia della XVII Legislatura presieduta dal presidente Bindi – è che viene detto che il dottor Giammanco viene a sapere di questo fatto gravissimo il 19 febbraio 1992 presso il comitato d’ordine e sicurezza.
  È incredibile, subito dopo scrive una nota in cui dice che il Ferraro avrebbe detto al presidente Scaduti prima di iniziare il discorso: «Lei è della P2?» Quindi siccome sei della P2 possiamo parlare. Russo dice: «Non c’è in nessun atto, nella relazione o nelle indagini, nessun riferimento alla P2. Perché il procuratore Giammanco tira in mezzo la P2 che non risulta da nessuna parte, da nessuna delle informazioni contenute nel fascicolo raccolto a Palermo sulla 416-bis a carico del notaio Ferraro?»
  La cosa grave è che questo la procura di Marsala lo scopre dopo, non perché gliele manda Palermo le carte ma gliele manda Caltanissetta, a cui nel frattempo era stato fatto lo stralcio per minaccia aggravata dal metodo mafioso o per agevolare l’associazione nostra in quanto il dottor Scaduti è persona offesa.
  Poi c’è la questione Signorino. Signorino addirittura viene mandato a fare il reggente perché Paolo Borsellino si trova a Palermo, i giovani sostituti di Marsala hanno bisogno di una guida e chi mandano? Signorino, che doveva essere interrogato da quegli stessi magistrati in relazione al procedimento Gunnella per il nome trovato nell’agenda. E cosa fa Signorino? La prima cosa che fa chiede conto e ragione dei processi Gunnella, Culicchia, Petrillo, che era il sindaco su cui aveva indagato Paolo Borsellino in relazione alla gestione illecita degli appalti di Pantelleria.
  Quei ragazzi, cioè la Camassa e Russo, ebbero la forza, niente dicendo a Borsellino che venne in qualche modo poi criticato perché pensavano che ci fosse lui dietro la lettera scritta da loro a Signorino dicendo «noi non veniamo alla riunione del 5 maggio», perché il 4 maggio loro scrivono «noi ti dobbiamo sentire come testimone, perché tu sei venuto qua a fare l’esecutore di una volontà che è quella volta a insabbiare i procedimenti». Da qui si ha poi l’interrogatorio del 12 giugno.
  Devo andare di corsa, mi rendo conto che non sono in un processo, l’arringa sarebbe stata molto più precisa nei passaggi.
  La cosa che voglio dire è che Basile muore perché si pone sulla stessa linea del colonnello Russo e sulla stessa linea si porranno poi il capitano D’Aleo, che muore con i suoi fidati collaboratori Bommarito e Morici perché indagano sulla Litomix Costruzione e altre imprese, appalti, oltre che sulla mafia militare, infatti Totò Riina, Michele Greco e compagnia subito mandano la squadra per ammazzare questo valente capitano cui le deleghe di indagine erano state date proprio da Paolo Borsellino.

  LUCIA BORSELLINO. Presidente, mi collego direttamente a questo per dire che il compianto capitano Emanuele Basile è stato ucciso il 3 maggio, se non vado errata, nella notte tra il 2 e il 3 maggio del 1980. Io avevo solo dieci anni. Noi sapevamo quanto papà stimasse il capitano Emanuele Basile e quanto ne tenesse conto per le attività investigative. Nonostante avessi solo dieci anni ricordo però un episodio particolare che purtroppo mi vide per la prima volta di fronte a un padre con le lacrime, fu la prima volta che io vidi mio padre piangere. Mi stava accompagnando alla stazione di Palermo dove avevamo un appuntamento con i miei nonni, io sarei dovuta partire per Lourdes insieme a loro, ero la nipote più grande. Ricordo che proprio all’indomani dell’uccisione del capitano Emanuele Basile lui mi accompagnò e durante il tragitto si mise a piangere, lui non l’ha mai più fatto se non dopo tanti anni, quando è morto Giovanni Falcone, in cui mi sono ritrovata in un episodio simile. Gli chiesi perché piangesse, ritenevo che fosse perché era stato ucciso il capitano Basile. Peraltro la nostra vita è stata costellata di morti di persone, che oltre a essere validissimi collaboratori di mio padre erano anche colleghi e amici. Quindi da allora è iniziata una sequela di episodi che ha segnato profondamente la nostra vita. Quello che ricordo in particolare è che papà ritenne che quell’uccisione fu un avvertimento alla sua persona, perché vorrei ricordare che i progetti omicidiari in danno a mio padre risalgono proprio a quell’anno. Ne sono accaduti altri prima ancora della strage, ma poi per varie dinamiche, che se poi vorrete potremo approfondire, sono stati progetti che poi la mafia ritenne di non mettere in atto in quel particolare momento. Questo a significare che papà non ha cominciato a rischiare la vita soltanto nei 57 giorni che lo separarono dalla morte rispetto a quella di Giovanni Falcone, ma è evidente che in quei 57 giorni il suo destino era ancor più segnato e non dava spazio a censure anche mentali rispetto alla possibilità che questo potesse non accadere.
  Riguardo alle minacce, la nostra famiglia non è stata mai risparmiata da minacce, perché come dicevo nel mio intervento introduttivo il rischio che papà correva per la sua incolumità era potenziato anche dalla presenza nel suo nucleo familiare di altri componenti. Quindi quando la mafia vuole intimorire chiaramente allude anche alla possibilità che ci possano essere rischi per gli affetti più intimi.
  È vero che papà ci teneva spesso all’oscuro dalla lettura di queste minacce, perché alcune purtroppo sono arrivate anche a casa. Ma sicuramente in modo scherzoso, come lui sapeva fare, ce ne rendeva edotti. Non foss’altro perché noi avevamo rifiutato di vedere la nostra vita blindata con la scorta, per cui la scorta di fatto proteggeva papà, la maggior parte delle volte noi camminavamo da soli, però lui riteneva in via preventiva che era giusto che noi fossimo pienamente consapevoli, a fronte della nostra giovane età, che i rischi che noi potevamo correre come adolescenti sicuramente non erano quelli di ragazzi normali. Per cui questo serviva anche a giustificare ai nostri occhi la sua ansia nel non vederci arrivare a casa dopo qualche minuto rispetto all’orario prestabilito.
  Devo dire che un altro episodio è accaduto dopo la strage del 19 luglio, è stato un episodio fortunatamente isolato, almeno per quanto ne sia venuta a conoscenza, è accaduto proprio nell’immediato periodo successivo alla strage.
  Arrivavano varie lettere a casa nostra di solidarietà da parte di tutto il mondo, posso dirlo ed è questo affetto che ci ha sostenuto in tutti questi anni, ma è arrivata anche qualche lettera con delle croci segnate con il carbone, in particolare una che abbiamo consegnato in procura a Palermo ma trattandosi di anonimi chiaramente… potevano anche essere dei mitomani, noi abbiamo sempre voluto credere questo visto che ormai la cosa più preziosa che avevamo ci era stata sottratta.
  Per quanto riguarda il telefono, vi accennavo poc’anzi che un’altra sottrazione è stata quella di aver saputo che non sono stati acquisiti nel corso delle indagini i tabulati delle chiamate in ingresso dell’utenza mobile in uso a mio padre.
  La scoperta più recente che abbiamo fatto è stata proprio in occasione del processo Depistaggio su deposizione dell’avvocato Gioacchino Genchi, allora l’esperto informatico cui allora furono affidate le analisi dei tabulati, il quale ci disse che aveva reiterato più e più volte la richiesta alle autorità competenti per poter acquisire anche i tabulati delle chiamate in entrata sostenendo, lo stesso Genchi, che non era possibile che fossero state sviluppate le chiamate in uscita senza quelle in entrata, che tecnicamente rappresentano circa il 50 per cento del traffico complessivo.
  La cosa ancora più grave è che gli è stato riferito, in via assolutamente subdola, che questi file si sarebbero dispersi o sarebbero stati danneggiati dall’umidità. Fatto, anche questo, ci è stato detto dal tecnico assolutamente impossibile.
  La cosa ancora più incredibile è stata quella di aver appreso che ad avere negato l’acquisizione delle chiamate in ingresso è stata una nota del capo dello SCO, del reparto operativo speciale della Polizia di Stato a firma del dottor Pansa, ritualmente autorizzata dal dottor Petralia, nella quale senza alcuna motivazione veniva data autorizzazione solo per l’acquisizione delle chiamate in entrata.
  Questo è un fatto per noi sconcertante perché non abbiamo mai avuto alcuna motivazione. È una nota di un alto rappresentante dello Stato che pone questo diniego. Questo è quanto siamo venuti a sapere.

  FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. È vero che la verità e i fatti complessi è come una fattispecie a formazione progressiva, però noi possiamo capire che le acquisizioni vengano man mano che magari un mafioso decide di saltare il fosso.
  Il problema è che questo atto è entrato nel processo Depistaggio nell’ultima udienza prima della chiusura dell’istruzione dibattimentale dalla Difesa di Bo, del funzionario. Noi non lo conoscevamo, perché poi si dice acquisite questa lettera, se uno non me la manda prima io non la posso vedere, me la fai vedere in udienza, quindi è sfuggita a tutti, al PM, a noi, parte civile e tutti. Poi il giudice nella motivazione sviluppa questo aspetto.
  Io vi invito a considerare la dichiarazione di Santino Di Matteo, questo è un collaboratore che andrebbe spremuto come un limone per quanto mi riguarda. Perché lui nel corso di un’intercettazione ambientale con la moglie Ida Castellesi, che, per carità, capisco il momento ma sono passati trent’anni per tutti, dice: «Nella strage di via D’Amelio ci sono infiltrati della polizia».
  Noi, come vedete, stiamo dando nomi e cognomi.
  Il dottor Pansa, direttore della Criminalpol, chiede e ottiene da Carmelo Petralia (che grande ruolo ha avuto, sotto il profilo di un’efficienza deterministica, nel confezionamento di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria, in quanto è stato come minimo superficiale nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino) il 20 luglio. Il 20 di luglio!
  Noi stiamo facendo veramente nomi e cognomi, perché è il momento di fare nomi e cognomi.

  Il 24 luglio la famiglia affida a Caponnetto un comunicato sull’agenda rossa, dice: «Guardate, stiamo a denunciare il fatto che il nostro congiunto aveva con sé sempre un’agenda rossa».
  È dal mio punto di vista uno spunto investigativo che è un aiuto che la famiglia vuol dare agli investigatori.
  Dall’altra parte il 25 si risponde con un’ANSA, il dottor Arnaldo la Barbera, capo della squadra mobile: «L’agenda non c’è, se c’è è andata distrutta».
  Ma che motivo hai di dare una risposta immediata a un’informazione che ti viene dalla famiglia?
  Allora mettiamo insieme tutti questi dati, infiltrati della polizia della strage di via D’Amelio. Perché poi la cosa è che al di là dell’accertamento delle responsabilità penali, perché io sinceramente, per carità, la potestà punitiva lo Stato la deve esercitare, ma che me la devo prendere con Mattei piuttosto che con Ribaudo in uno scenario devastante come questo, vi rendete conto, che è come dire l’alambicco del tempo ci consegna un distillato per cui il pesce piccolo ci entra nell’alambicco ma il pesce grande non c’è mai entrato.
  Mi riconnetto alla figura del prefetto Rossi, che è ancora vivente tra l’altro. Voi avete chiesto prima del discorso di chi individua che Enzo è Inzerillo e non Culicchia. Il 19 maggio su delega del PM di Caltanissetta Russo e Camassa è Rino Germanà. Rino Germanà posa la relazione, il 19 viene convocato dal prefetto Rossi e mandato a Mazara, dove tenteranno di ammazzarlo nel settembre. Non degli «scassapagliari», ci vanno gli esponenti della super cosa: Matteo Messina Denaro, Bagarella e Graviano ad attentare alla vita di Germanà.
  Ma perché il prefetto Rossi, di fronte all’individuazione dell’Inzerillo perfetta, nel giugno finalmente incastra Matteo Messina Denaro con riferimento a due omicidi (Sciacca e Piazza), perché il prefetto Rossi si chiama il Germanà, lo retrocede lo manda nel luogo dove sarà oggetto di un attentato da cui esce vivo per miracolo.
  Questo noi denunciamo. Denuncio che tra la strage di via D’Amelio, l’esecuzione della strage, la sottrazione dell’agenda rossa e il depistaggio è un corpo dello Stato che agisce. C’è una connessione evidente.
  Questo si riconnette all’introduzione di contesto che vi ho fatto.
  È la partitocrazia con i suoi uomini che si mette in moto, in un’ottica preventiva, con l’alleanza che c’è sempre stata con cosa nostra. Una cosa nostra egemonica, una cosa nostra diversa, quella di Salvatore Riina, che non è la cosa nostra di Badalamenti, Bontate, Inzerillo, Greco, cioè della vecchia commissione. Perché i paradigmi interpretativi di tipo ideologico potrebbero reggere rispetto alla mafia dei perdenti, ma rispetto a Salvatore Riina no. Riina è un dittatore spregiudicato e che, come dirà Di Carlo, con questo suo modo di fare ha distrutto l’organizzazione. Perché pensava di saltare qualunque tavolo di mediazione. Comando io.
  Ma lo Stato decide di reagire, anche perché lo Stato, deve essere chiaro una volta per tutte, per tre quarti è fatto di persone onestissime, che credono in ciò che fanno.
  Io l’unica cosa che vi dico, io rispetto la magistratura, rispetto il legislatore, rispettiamo tutti, i poteri dello Stato vanno rispettati sempre, ci possono essere singoli uomini ma mai confondere la responsabilità di un singolo con l’istituzione che è fondamentale.

  LUCIA BORSELLINO. Volevo fare ancora qualche precisazione con riferimento alle questioni legate al rischio di vita di nostro padre.
  Ho omesso un passaggio fondamentale che è stato quello che ci ha visto coinvolti insieme alla famiglia di Giovanni Falcone

nel soggiorno all’Asinara. Quello fu un momento in cui abbiamo sentito lo Stato particolarmente vicino, poi al netto della mia malattia o comunque delle altre vicende umane che si sono disvelate in quella circostanza, però quello è stato uno dei pochi momenti in cui veramente abbiamo sentito lo Stato accanto a noi. E, come ha potuto dire mia madre nel corso della sua audizione il 23 marzo 1995 di fronte ai magistrati di Caltanissetta: «Lo Stato in quel momento mi ha consentito di poter avere mio marito per altri otto anni».
  Chiaramente anche quell’esperienza, per quanto fosse stata traumatica, in quanto per la prima volta venivamo prelevati da casa e portati in una località segreta, devo dire col senno di poi che quando si è cominciato ad avvertire fortemente il rischio per la vita di papà noi provocatoriamente gli abbiamo chiesto, anzi non provocatoriamente ma con grande consapevolezza, gli abbiamo chiesto che era arrivato forse il momento che fossimo noi a chiedere, visto che non ce lo proponevano, di andar via da Palermo, anche per un certo periodo, purché lui potesse essere salvato. E lui ci disse questa volta seriamente che lo avrebbe accettato, purché gli avessero consentito di portare con sé oltre noi anche sua mamma, la mia nonna. Da questa frase ho capito che papà veramente aveva paura. Non è vero che mio padre non aveva paura, mio padre era un uomo come tutti gli altri. Mio padre accanto alla paura aveva il coraggio, ma aveva paura. Perché era un uomo e come per tutti gli uomini la paura della morte, anche di un cristiano, è legata al distacco dai propri familiari (è questa la vera paura) nonché all’ignoto, chiaramente, che accoglie qualunque uomo nel momento in cui comincia ad avvertire un rischio per la propria vita.
  Il presidente mi chiedeva quali fossero i momenti di delegittimazione che abbiamo avvertito nei riguardi delle nostre persone, parlo chiaramente di noi figli. Io non avrei voluto in questa sede fare questo cenno, ma lo faccio perché ritengo che la credibilità passa attraverso la necessaria legittimazione delle persone che vengono a parlare in questa sede. E poiché non basta essere figli di Paolo Borsellino per essere legittimati, noi abbiamo studiato, non ci siamo limitati a nasconderci dietro il nostro pesante oltre che onorato cognome, perché riteniamo che non si possa parlare di fatti come quelli che abbiamo raccontato se non ci addentrassimo proprio dentro lo studio e la lettura delle carte, dentro il lavoro che è stato svolto da chi è competente a farlo e che ne sa più di noi. Però tengo a sottolineare che in molti momenti il nostro ruolo, soprattutto dopo la morte di nostra madre, ha visto proprio questo rischio di delegittimazione e non è un’esagerazione.
  Io vi leggo un’intervista fatta dal dottor Ayala, riportata dalla redazione del quotidiano on line, La Sicilia del 4 luglio 2019, in cui egli, replicando a mia sorella Fiammetta Borsellino che aveva evidenziato – come era giusto perché lei era una parte civile al processo – la contraddittorietà delle numerose versioni rilasciate dal dottor Ayala a proposito dell’agenda rossa, con questo non volendo affermare nulla che non fosse il fatto che la borsa nella quale era contenuta l’agenda rossa fosse passata di mano in mano e che nessuno ricordasse chi l’aveva presa per primo e chi dopo. Questo tra l’altro avrebbe giustificato quell’esame del DNA che vi dicevo, proprio in ragione delle numerose manipolazioni che quella borsa ha subìto. Dovete sapere che in via D’Amelio, nel luogo della strage, per usare un’espressione sempre di mia sorella, è passata una mandria di bufali e io ne sono stata testimone.
  Recito testualmente la dichiarazione del dottor Ayala: «La figlia di Borsellino, invece di andare al carcere a sentire gli assassini del padre, può venire da me se ha bisogno di chiarimenti».

Non voglio commentare queste parole, ma voglio riconoscere da sorella il gesto memorabile che mia sorella ha compiuto in termini di forza interiore, anche perché non è stato un gesto isolato ma rientra all’interno di un percorso personale di riparazione del danno durato anni e che è cosa ben più complessa del disvalore che invece lasciano presumere le parole del dottor Ayala.
  Tra l’altro, da persone civili quali noi siamo e da non addetti ai lavori, è molto più facile parlare con un pentito che ha saltato il fosso piuttosto che trovarsi faccia a faccia con persone che il fosso non lo salteranno mai probabilmente.
  Trattandosi dei fratelli Graviano, in regime carcerario del 41-bis, proprio perché stanno in carcere in quel regime, è possibile sentire le conversazioni che si sono svolte tra mia sorella e loro. Noi non le abbiamo mai sentite, le abbiamo acquisite de relato da mia sorella direttamente, ma vi assicuro che è un esempio di cristianità della quale mia sorella è il principale specchio della cristianità e dell’insegnamento cristiano di mio padre.
  Un’altra circostanza risale a una intervista anche questa rilasciata a La Sicilia il 14 giugno 2019 dal dottor Carmelo Petralia, che, rispondendo a un’affermazione di mia sorella Fiammetta in commento all’esito dell’accertamento giudiziario del depistaggio con cui faceva generici riferimenti alla contaminazione di certi ambienti istituzionali politici e della magistratura nelle indagini, fatti che sono sotto gli occhi di tutti, ebbe a dire: «A lei che domanda dov’era lo Stato e dove erano i magistrati durante le indagini, dico dov’era lei nei giorni drammatici precedenti l’assassinio di suo padre e degli altri servitori dello Stato, in quei giorni tremendi che separarono Capaci da via D’Amelio. So bene che fu addirittura difficile rintracciarla per comunicarle quel che era accaduto il 19 luglio». Ebbene, mia sorella era l’unica assente giustificata in quel contesto, perché quell’assenza era stata voluta fermamente da mio padre per sottrarre una ragazzina di appena 19 anni da un clima terribile che si respirava a casa nostra e per questo motivo l’affidò al suo migliore amico, un ginecologo, del quale probabilmente voi non avete mai sentito parlare proprio perché era il migliore amico, a cui ha affidato mia sorella in quel periodo. All’epoca non esistevano i cellulari, quindi era ovvio che fosse difficile rintracciarla. Poi abbiamo saputo solo successivamente che mia sorella stette malissimo molto prima di sapere che mio padre stesse male, perché evidentemente lei temeva di non poterlo più rivedere. E fui io, e non il dottor Petralia sicuramente, a comunicarle l’accaduto.
  Un altro episodio, non ultimo, che può rientrare in questa categoria di insulti, perché non posso definirli in altro modo, è stata un’intercettazione in capo all’ex magistrato Silvana Saguto, indagata nell’inchiesta nissena della gestione dei beni confiscati alla mafia, pubblicata su la Repubblica del 21 ottobre 2015, che al telefono con un’amica senza sapere di essere intercettata perché era nel pieno delle sue funzioni, a seguito di una manifestazione, ahimè, sulla legalità il giorno dell’anniversario della morte di mio padre il 19 luglio dell’anno 2014, commentando la commozione di mio fratello espressa in occasione dell’incontro con il Presidente della Repubblica ebbe a dire: «Manfredi Borsellino è uno squilibrato, lo è sempre stato, lo era pure quando era piccolo e Lucia Borsellino è cretina precisa». Preciso che non abbiamo mai avuto rapporti neanche di mera conoscenza con la dottoressa Saguto. Devo dire che in quella circostanza mio fratello Manfredi intervenne dicendo: «Non vogliamo commentare espressioni che andrebbero catalogate alla voce cattiveria, solo parlandone rischieremmo perciò di attribuire importanza a chi quelle parole ha proferito».

Un’intuizione che le cose sarebbero andate, ahimè, verso questa direzione in alcuni momenti lo lasciava presagire anche quell’incontro che io ebbi con il vice questore Arnaldo La Barbera, allora capo della squadra mobile di Palermo, allorquando nel mese di novembre del 1992 ci consegnò la borsa di mio padre. Io mi trovavo a casa con mia madre, sono fatti ormai noti perché riferiti all’autorità giudiziaria, notai subito l’assenza dell’agenda rossa e ne chiesi spiegazione.
  Anche in quella circostanza lo stesso dottor La Barbera, che aveva provveduto a smentire prontamente la dichiarazione che Antonino Caponnetto (lo chiamo per nome perché è stata una persona che oltre a essere un collega di papà è stata una persona di famiglia), si affrettò a smentire appunto quello che il dottor Caponnetto aveva detto anche su sollecitazione di mia mamma, ebbe a dire a mia madre, visto il mio risentimento nel non avere trovato l’agenda, che io probabilmente avevo bisogno di un aiuto psicologico perché stavo delirando.
  Ci sarebbero altre circostanze che non intendo però riferire in quanto afferenti alla nostra sfera più intima, perché già per me è un fortissimo dolore doverle rievocare.

PRESIDENTE. Grazie. Passo alle domande dei commissari. Ho iscritto per primo a parlare il senatore Scarpinato.

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Presidente, una sola domanda per la dottoressa Lucia Borsellino e varie domande per l’avvocato Trizzino.
Dottoressa Lucia Borsellino, chiedo se le risulta che il dottor Giammanco fu costretto ad andare via dalla procura della Repubblica di Palermo a seguito di un documento sottoscritto da otto sostituti procuratori della DDA, nel quale si minacciava di dare le dimissioni se Giammanco non fosse stato allontanato. E se a seguito di questo documento ebbe inizio l’inchiesta del CSM, nel quale furono raccolte le dichiarazioni a cui ha fatto riferimento varie volte l’avvocato Trizzino, nel corso del quale i sostituti raccontavano quello che era successo. E se si ricorda chi prese l’iniziativa e chi furono i sottoscrittori di questo documento.
Per quanto riguarda invece l’avvocato Trizzino faccio una premessa. Io non farò alcuna domanda sulle parti della dichiarazione dell’avvocato Trizzino nelle quali ha fatto riferimento alla mia persona, questo per ragioni di eleganza istituzionale e anche perché, tenuto conto dell’esiguo tempo a mia disposizione, ritengo di dovermi concentrare soltanto sulle questioni rilevanti.
Ho fatto questa premessa affinché il mio silenzio al riguardo non venga frainteso come acquiescenza alle dichiarazioni dell’avvocato Trizzino, che ritengo in più punti inesatte. Fatta questa premessa vado alle domande.
L’avvocato Trizzino ha affermato che l’inchiesta «mafia-appalti», scaturita dall’annotazione del ROS depositata il 20 febbraio 1991, produsse solo sette arresti, che ha specificato nelle persone di Siino Angelo, Lipera Giuseppe, Farinella Cataldo, Falletta Alfredo, Morici Serafino, arrestati nel giugno del 1995, a cui si aggiungono Cascio Rosario e Buscemi Vito arrestati nel febbraio del 1992.
In sostanza, dunque, tenuto conto della portata dell’inchiesta la montagna aveva prodotto un topolino. Ciò sarebbe avvenuto perché la procura di Palermo aveva sottovalutato le risultanze processuali o, peggio, non aveva voluto approfondirle.
Più in particolare l’avvocato Trizzino ha dichiarato che la procura richiese nel febbraio del 1992 un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Vito Buscemi, definito dall’avvocato Trizzino il «Buscemino», perché poco rilevante a suo parere, e rimase invece inerte nei confronti di Buscemi Antonio, mafioso definito il «Buscemone», per sottolinearne l’importanza, che era socio occulto di imprese riconducibili al gruppo Ferruzzi il cui patron era Raul Gardini le cui imprese operavano in Sicilia.
Ciò premesso chiedo all’avvocato Trizzino se lei sia a conoscenza che la Commissione parlamentare antimafia in data 3 febbraio 1999 procedette all’audizione del procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Giancarlo Caselli, il quale depositò una relazione della procura di Palermo di 107 pagine, nella quale si ripercorreva analiticamente tutto lo sviluppo dell’indagine «mafia-appalti», originata dall’annotazione del ROS depositata il 20 febbraio 1991, mai archiviata, proseguita negli anni 1992-1993 e seguenti, con una successione analiticamente indicata in quella relazione di ordinanze di custodie cautelari nel corso delle quali venivano arrestati complessivamente circa 120 soggetti (tra mafiosi, imprenditori di respiro nazionale, politici, professionisti) e venivano richieste numerose richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di ministri e parlamentari.
In particolare chiedo all’avvocato Trizzino se le risulta che in quella relazione venne documentato che non è affatto vero che l’inchiesta si concluse negli anni 1991-1992 con sette arresti da lei citati, ma che già nel maggio del 1993 fu chiesta e ottenuta ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 25 persone, tra cui tutti i capi mafia che gestivano gli appalti (Riina, Giuseppe Lipera, uomini politici, dirigenti di enti regionali che gestiscono appalti per mille miliardi).
Le chiedo se le risulta che in quella relazione veniva documentato che unitamente a Salvatore Riina e altri mafiosi fu arrestato nel maggio del 1993 proprio quel Buscemi Antonino da lei definito «Buscemone», nei cui confronti la procura, secondo quanto lei ha affermato, avrebbe omesso di approfondire le indagini.
Se le risulta che ancor prima del maggio del 1993, già nell’ottobre del 1992 la procura della Repubblica aveva chiesto il sequestro e la confisca per misure di prevenzione di tutto il patrimonio dei Buscemi, comprese le quote riconducibili al gruppo Ferruzzi.
Quindi se può precisare alla Commissione in che senso la procura di Palermo non avrebbe sviluppato le indagini su Buscemi Antonino, lasciandolo indenne nel tempo da conseguenze giudiziarie.
Se le risulta che nel maggio del 1993 tra gli imprenditori di livello nazionale tratti in arresto dalla procura vi erano Lodigiani Vincenzo, la cui importanza non penso di dover sottolineare, Claudio De Eccher con tutto lo staff dirigenziale di quell’impresa, Salomone Filippo, imprenditore cerniera tra l’imprenditoria del Nord e del Sud.
Se le risulta che tra i politici arrestati vi era l’onorevole Salvatore Lombardo, che poi fu arrestato sempre nel 1993, l’onorevole Sciangula Salvatore. Che furono richieste, sempre nel 1993, autorizzazioni a procedere nei confronti dell’ex Ministro Mannino, del Ministro Nicola Caprio, di Severino Citaristi, di Rosario Nicolosi, di Michelangelo Russo.
Se le risulta che sempre nel 1993 fu incriminato l’ex Ministro Calogero Mannino per una tangente di 900 milioni e sempre nel 1993 fu iniziato un processo per concorso esterno nei confronti di Mannino.
Se le risulta che gli anni seguenti fu sequestrato tutto il patrimonio della Ferruzzi.
Lei ha detto che il 13 luglio 1992 fu archiviato il processo «mafia-appalti».
Le chiedo se le risulta se fu archiviato il processo «mafia-appalti» o se invece quel processo non fu mai archiviato ma furono archiviate soltanto alcune posizioni processuali, che il processo non fu mai archiviato tant’è che si era in attesa di informative dei ROS che furono depositate il 5 settembre nel processo aperto. Quindi il processo non poteva essere chiuso il 13 luglio se vengono depositate il 5 settembre del 1992 delle nuove informative.
Se le risulta che l’archiviazione del 13 giugno del 1992 fu determinata anche dal fatto che non solo non c’erano a quella data le collaborazioni di Baldassare Di Maggio e di altri, ma dal fatto che la procura di Catania non aveva comunicato alla procura di Palermo che Lipera, personaggio centrale, aveva iniziato a collaborare, e quindi le dichiarazioni di Lipera non fu possibile prenderle in considerazione nel provvedimento di archiviazione che altrimenti non ci sarebbe stato.
L’altra domanda è questa. Lei ha descritto l’informativa «mafia-appalti» del 20 febbraio 1991 come un’informativa che sostanzialmente consentiva di ricostruire tutta la gestione illecita degli appalti e ha attribuito una grande rilevanza giustamente alla componente politica di quel «tavolino» che aggiustava gli appalti.
Le chiedo se le risulta che quell’informativa constava di circa 900 pagine, di 484 allegati, si concludeva con delle schede riassuntive finali nelle quali venivano segnalati personaggi di maggiore interesse investigativo, 43 persone, di cui 23 come personaggi di interesse per il 410-bis e 22 come personaggi di interesse per il reato di associazione a delinquere semplice.
Se le risulta che in tutte le 900 pagine, in tutti i 484 allegati non vi era un rigo che facesse riferimento ai personaggi più importanti del potere politico siciliano, che gestivano gli appalti in quel periodo, cioè l’onorevole Salvo Lima, l’onorevole Rosario Nicolosi, l’onorevole Calogero Mannino e poi anche in campo nazionale l’onorevole De Michelis.
Se le risulta che fu appurato che tali nominativi non erano menzionati in quella informativa perché a quella data non erano state ancora acquisite delle notizie, ma che al contrario non erano menzionati per una scelta del ROS. Fu accertato in realtà che esistevano delle conversazioni intercettate estremamente importanti che riguardavano questi politici. Una di queste era un’intercettazione del 6 aprile 1990, quindi quasi un anno prima dell’informativa, che riguardava l’onorevole Lima, referente della mafia in Sicilia, il quale telefonava a un dirigente della Sirap, che gestiva mille miliardi di appalti in Sicilia, e gli diceva di essere amico di Cataldo Farinella, un mafioso importante che venne arrestato nel 1991. Nell’informativa del ROS c’erano pagine e pagine che riguardavano Cataldo Farinella, conversazioni, tant’è che fu arrestato, non si menzionava affatto che c’era una telefonata in cui Lima raccomandava Farinella alla Sirap. Questa telefonata non fu tirata fuori neanche dopo l’omicidio di Lima.
Se le risulta che venne accertato che non furono omesse soltanto le conversazioni che riguardavano Lima, ma anche le conversazioni tra Ciaravino e La Cavera del 19 marzo 1990, in cui si parlava di Mannino, si parlava di Nicolosi, si parlava di Lombardo nell’affare Sirap, la telefonata del 22 aprile del 1990 in cui si parlava di Nicolosi, dell’assessore Gorgone.
Se le risulta che queste intercettazioni vengano a conoscenza della procura di Palermo soltanto il 5 settembre del 1992, quando il ROS si decise a depositarle con l’informativa Sirap, e il primo ottobre del 1992 quando la procura di Catania trasmise l’informativa Caronte, nonostante l’informativa del febbraio 1991 doveva essere un’informativa riassuntiva di tutto il quadro e dare un chiaro quadro ai magistrati di tutte le componenti implicate negli appalti. 
Le chiedo se le risulta che il maresciallo capo Iannetta Carmine, colui che effettuava gli ascolti in diretta, sentito dalla procura il 9 ottobre del 1998, e richiesto di spiegare perché non fossero state inserite le intercettazioni dei politici nell’informativa del febbraio del 1991 alla procura di Palermo, rispose: «Aggiungo che in effetti tali circostanze non furono evidenziate nel rapporto per valutazioni operate dai miei superiori che le ritennero irrilevanti».
Le chiedo se lei può dare una spiegazione del motivo per cui il ROS nel febbraio del 1991, facendo un’informativa riepilogativa di tutto, ritenne irrilevanti le intercettazioni che riguardavano i politici.
La terza domanda è questa. In base alla sua prospettazione degli avvenimenti, i mandanti dell’accelerazione della strage di via D’Amelio andrebbero ricercati e individuati all’interno di coloro che temevano che Paolo Borsellino, rimanendo in vita, potesse svolgere indagini che avrebbero portato alla luce gli affari sporchi che si celavano dietro l’affaire «mafia-appalti», compromettendo lucrosi interessi economici e personaggi importanti appartenenti al mondo politico, economico e alla magistratura.
Da questa prospettazione si desume che il depistaggio Scarantino, visto che Scarantino non voleva certamente proteggere i mafiosi, fu finalizzato a impedire che le indagini potessero orientarsi sul filone «mafia-appalti» e potessero fare emergere le responsabilità di personaggi eccellenti e potenti coinvolti nella vicenda «mafia-appalti». Più in particolare, lei ha prospettato che responsabili dell’accelerazione possono essere stati Giammanco, Buscemi Antonino, socio occulto di Raul Gardini, il quale era amico di Martelli.
Le faccio questa domanda. La falsa collaborazione di Scarantino non inizia nel 1992 – nel 1992 Scarantino viene arrestato – inizia il 24 giugno del 1994, due anni dopo, quella è la data del primo verbale dichiarativo.
Tenuto conto che il 24 giugno del 1994 Giammanco non era più il procuratore di Palermo da due anni e il nuovo procuratore della Repubblica era Giancarlo Caselli.
Tenuto conto che Buscemi Antonino, il «Buscemone», era stato già arrestato il maggio 1993 e le sue quote azionarie erano sequestrate dalla procura di Palermo.
Tenuto conto che Raul Gardini si era suicidato nel luglio del 1993 e che Martelli non era più Ministro da anni.
Le chiedo chi erano secondo la sua prospettazione i soggetti potenti coinvolti «in mafia-appalti» che potevano orchestrare un depistaggio che coinvolgeva i vertici della polizia da La Barbera in su.
Le chiedo inoltre se lei ritiene importante il fatto che il collaboratore Francesco Di Carlo abbia indicato Arnaldo La Barbera, colui che fu l’artefice del depistaggio Scarantino, come la stessa persona che si recò in un carcere inglese per chiedere l’aiuto di cosa nostra per neutralizzare Giovanni Falcone.
L’altra domanda riguarda Subranni. Lei ha parlato di Subranni ma io le voglio leggere pagina 715 della sentenza della Borsellino quater, della motivazione, dove citando Agnese Borsellino si riporta alla sua frase che dice: «Confermo che mi disse (Paolo, il marito) che il generale Subranni era “punciutu”. Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito. Ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto, mi disse comunque che quando gliel’avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui infatti l’Arma dei carabinieri era intoccabile». 

  La dottoressa Lucia Borsellino sentita al processo Borsellino quater…

  PRESIDENTE. Senatore, chiedo scusa, io non sono intervenuta fino ad ora perché devo rispetto e tempo a tutti, però sono venti minuti che lei interviene…

  ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Su cinque ore di esposizione.

  PRESIDENTE. Non è un dibattito tra me e lei, le dico quali sono…

  ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Se mi vuole togliere la parola…

  PRESIDENTE. Non le tolgo la parola, le spiego qual è la questione e lei poi finisce la sua ampia possibilità di fare domande. Qui non siamo in un’aula di tribunale, questo non è un controesame di un teste, lo dico a me stessa perché lo capiscano tutti, anche chi ci ascolta fuori. Quelle che vanno fatte qui sono domande che servono per ricostruire la storia, non per legittimare o meno alcune posizioni. Siccome lei è giustamente partito con eleganza, le chiedo gentilmente intanto di stare nei tempi e dopodiché di ricordarsi che questo non è un esame di un teste.

  ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Lei non mi deve ricordare niente, perché io sto facendo domande precise all’avvocato Trizzino, non sto facendo…

  PRESIDENTE. Senatore, lei parla da venti minuti facendo premesse di due e domande di mezzo secondo, questo io lo permetto a tutti fino a un tempo congruo che permetta a tutti i commissari di parlare, altrimenti si tratta di un’audizione, senatore. Finisca.

  ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Rinuncio alle mie domande.

  PRESIDENTE. No, guardi, può finire nel tempo congruo.

  ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO. Rinuncio.

  PRESIDENTE. Avvocato Trizzino.

 FABIO TRIZZINO. Intanto io non ho indicato Giammanco come mandante. Io non ho fatto il nome del dottor Giammanco come mandante, questo deve essere chiaro e preciso. Il problema è che in questa sede viene riproposta la famosa teoria della doppia informativa, che vorrei spiegare bene perché il problema è affrontato nel provvedimento della dottoressa Gilda Loforti. Secondo le dichiarazioni rese recentemente dal dottor Lo Forte e dal dottor Scarpinato, ai primi di giugno del 1992 loro cominciano a redigere in minuta l’archiviazione di cui vi ha parlato il senatore Scarpinato.
  Il 15 giugno del 1992 (e ho qui il documento che lascerò in Commissione) i dottori Scarpinato e Lo Forte fanno il cosiddetto stralcio Sirap, con cui dicono: «siccome stiamo aspettando l’informativa Sirap dal ROS, siccome dobbiamo definire le posizioni residuali aspettiamo che il ROS ci depositi l’informativa».
  Primo punto, il 28 maggio del 1992 il capitano De Donno chiede, e Lo Forte autorizza, il riascolto, non dell’intercettazione, il riascolto di alcune di quelle intercettazioni in cui si parlava di Lima, di Cataldo Farinella, che erano state illo tempore depositate, tant’è che Gilda Loforti tra virgolette bacchetta i sostituti procuratori dicendo: «se avevate interesse erano lì, le trascrizioni e le bobine, potevate farle sviluppare dai vostri consulenti».

Succede che il 28 Lo Forte autorizza De Donno a riascoltare, De Donno il 30 giugno del 1992 quando l’archiviazione era già finita in minuta, gli dice: «Io ho fatto tutto quello che voi mi avete autorizzato, cioè ho riascoltato, e ditemi voi sostituti procuratori Lo Forte e Scarpinato se vi devo depositare adesso le relative risultanze o successivamente». Quindi prima cosa da dire: non è vero che la predisposizione della cosiddetta informativa Sirap non è stata concertata. Il capitano De Donno è riuscito a dimostrare nel procedimento disciplinare, procedimento che si è chiuso con l’archiviazione, portando i documenti che io lascerò in Commissione, che ci fu un’interlocuzione, una concertazione tra il dottor Scarpinato e il dottor Lo Forte circa il deposito dell’informativa Sirap. Fanno lo stralcio 3541 del 1992, l’informativa Sirap viene depositata il 5 settembre. Io chiedo alla Commissione di acquisire presso le competenti autorità quali atti di indagine sono stati compiuti tra il 5 settembre e il 28 ottobre del 1992 in relazione al procedimento 3541/92, cosiddetto Sirap, da parte dei sostituti procuratori titolari di quell’indagine.
  Andiamo a tutto il resto delle domande. Mi verrebbe da dire, proprio perché allontanato il dottor Giammanco, forse quell’inchiesta si poté fare. Ma il senatore omette di ricordare l’altro punto fondamentale. La distruzione dei brogliacci, la smagnetizzazione del procedimento che arriva da Massa Carrara che ha il numero 35… del 91 con lettera di trasmissione, in cui la posizione del Buscemi, in un’implicazione tra le risultanze del rapporto in cui dicono che Vito Buscemi è soltanto il prestanome delle imprese di Nino e di Salvatore Buscemi. Tant’è che nel corso dell’esame testimoniale al processo Depistaggio, siccome si parlava di circolarità delle informazioni tra di loro, quando abbiamo chiesto al dottor Scarpinato e al dottor Lo Forte se sapessero della richiesta dell’1, archiviazione del 19 e

conseguente distruzione dei brogliacci, vi ho letto il contenuto secondo il dottor Lama di quelle intercettazioni, in cui in poche parole si ha l’ennesima fuga di notizie.
  Il punto è, senatore Scarpinato, se vi erano elementi per contestare l’associazione a delinquere agli imprenditori.
  Si insiste sull’aspetto politico della vicenda, io ho spiegato bene che il grimaldello per arrivare ai politici erano gli imprenditori.
  Paolo Catti De Gasperi aveva il Nos, era una delle poche ditte accreditate presso il servizio di informazione democratica per lo svolgimento dei lavori dei servizi segreti italiani. Paolo Catti De Gasperi, oggettivamente, esce fuori da questa inchiesta quando… ecco la discovery che fanno gli arresti del 25 giugno.
  Vi spiego l’antefatto, perché le domande sono durate venti minuti e io devo avere la possibilità di poter rispondere adeguatamente.
  Teoria della doppia informativa. Non è vero, i sostituti sapevano che i ROS stavano facendo atterrare l’informativa Sirap, vengono informati e dicono «portatela a settembre» fondamentalmente. Questo si evince dalla comunicazione che fa il De Donno, che interloquisce «non è vero che non sapevano che c’era la delega Sirap, tant’è vero che il 15 giugno 1992 fanno lo stralcio 3541/92. La Sirap è un atto concertato e comunicato dal ROS ai sostituti procuratori. Ripeto, nell’ambito di quel procedimento vorrei sapere dalla Commissione se ci sono atti di indagini dal 5 settembre al 28 ottobre, quando scoppia il caso Felice Lima di cui dobbiamo parlare».
  Catti De Gasperi, nella famosa intercettazione secondo cui Siino e Li Pera si pongono come partecipi dell’associazione e lo costringono a ritirare la busta dall’appalto relativo all’insediamento commerciale di Petralia bivio Madonnuzza, nella richiesta di arresto del 25… ecco perché c’è una discovery, secondo la mia plausibile ricostruzione, perché a un certo punto bisognava riportare quella parte di intercettazione in cui si dice «bene, ho risolto tutto, ho parlato con chi dovevo parlare e ho ritirato la busta», questa era la prova che Li Pera sostanzialmente era riuscito, tramite la mediazione di Giorgio Zito, altro soggetto tutelato nel senso di non valutato, nel senso che Giorgio Zito viene considerato anche lui una vittima ma quello che c’è nel rapporto (come vi dicevo prima) non riguarda solo la Sirap, c’è anche il Consorzio Cempes, e nel Consorzio Cempes quello che combina Giorgio Zito lo dovrete vedere voi da soli. Parla con Defortis, con Orcel dell’Agenzia del Mezzogiorno, «dovete darci i soldi, dobbiamo finanziarci, io ho già pronto il progettista, devo fare questi lavori», tutto senza che si guardi minimamente all’interesse pubblico. E quand’anche l’interesse pubblico c’era con le perizie di variante si ottenevano le provviste per pagare tangenti a destra, a manca e a sinistra.
  Nella richiesta di arresto del 1991 pubblicano quella parte di intercettazione in cui Paolo Catti De Gasperi, uomo di Andreotti che aveva il Nos, amico intimo anche dell’ex presidente Scalfaro, riportano l’intercettazione completa in cui continuando il discorso dice: «Io prima di ritirare la busta voglio rassicurazioni da uno che sta più in alto di S», che sarebbe il Siino Angelo. E Giorgio Zito gli dice: «Guarda che mi hanno promesso che potremo partecipare con successo alla gara del Duomo di Monreale». Gli risponde Catti De Gasperi: «Ma lì vedo una griglia difficile». Tenete a mente queste parole che ora devo spiegarvi.
  Quindi dall’intercettazione pubblicata nella richiesta di arresto del 25 giugno del 1991 abbiamo un Catti De Gasperi considerato vittima del sistema che però dice a Giorgio Zito che deve parlare con uno che è più in alto di Siino e che deve avere rassicurazioni dall’altro. Quando gli prospetta Giorgio Zito la possibilità di avere, secondo il sistema dei favori dell’associazione a delinquere di tutti questi imprenditori volta all’illecita gestione degli appalti, si facevano i favori tra di loro attraverso il pass, corrompendo pubblici funzionari e politici, dice «io lì vedo una griglia difficile».
  Questo è importante perché il meccanismo si fondava sul fatto che la gara di appalto, di cui poi la successiva pubblicazione, veniva decisa dagli imprenditori con i politici con trattative private e una volta raggiunto l’accordo si formalizzava il tutto con il bando.
  Quindi se Catti De Gasperi dice «io li vedo una griglia» vuol dire che lui è ben inserito nel sistema innanzitutto, non è vittima, chiede di avere rassicurazioni da uno che sta più in alto di Siino, che poi verrà individuato in Salamone che era il vero garante del patto, è colui che Riina nel suo disegno egemonico voleva scalzare dal ruolo di capo del tavolino nella mediazione tra imprenditori e politici.
  La posizione di Paolo Catti De Gasperi infatti… Nell’archiviazione del 13 questa parte di intercettazione non c’è più. Non c’è più. Potrete verificare che nella richiesta d’arresto c’è questa parte di intercettazione, nella richiesta di archiviazione la parte di intercettazione che comprometteva obiettivamente la posizione di Catti De Gasperi, perché dice: «Voglio rassicurazione da uno che sta più in alto …io ho visto la griglia, è difficile», non c’è nella richiesta di archiviazione del 13. Non c’è. Quindi doppia informativa inesistente.
  Andiamo a Catania, perché questo è un punto fondamentale. Ne abbiamo parlato del famoso anonimo del 30 aprile e 3 maggio del 1992 quello che, secondo le dichiarazioni di Canale spinge Borsellino a fare l’incontro segreto; ma la cosa che viene accertata documentalmente, poi sempre per rispetto di quel criterio di confronto Canale successivamente riconnetterà al corvo bis. Ma in nessuna sentenza è dato leggere che il corvo bis, che conoscevano tutti a differenza del corvo del 3 maggio (perché c’è stata pure la pubblicazione sui giornali del corvo bis) l’unico anonimo che viene riferito nella campagna di delegittimazione ROS è quello del 3 maggio. Bene anche di questo anonimo la Procura viene informata il 12 maggio, la Procura di Palermo sa che Lipera è sotto indagine a Catania. Tant’è vero che la dottoressa Gilda Loforti lì sottolinea :«Ancora una volta loro lo sapevano e non potevano certo aspettarsi che Catania se ne stesse con le mani in mano» fondamentalmente. Ma perché Felice Lima non comunica nulla a Palermo? Primo non era un obbligo giuridico, ex articolo 371 è una facoltà non è un obbligo, poi c’erano esigenze di sicurezza. Lipera si trovava ristretto nel carcere di Teramo insieme a dei mafiosi che lo minacciavano tramite il buon ufficio dell’avvocato Memi Salvo. Poi vi era in atto una terribile attività di inquinamento probatorio da parte di Claudio De Eccher, il quale verrà trovato nel settembre/ottobre del 1992 con i verbali di Leonardo Messina usciti dalla Procura di Palermo. Usciti da un amico a Palermo, aveva i verbali di Leonardo Messina. E come lo scopre Felice Lima, anche lui crocifisso come Augusto Lama? Lo scopre perché la segretaria di Lipera, interrogata nel settembre e nell’ottobre del ’92 racconta agli investigatori che De Eccher, con il verbale in mano, va a dire: «Vedi, Messina ha detto questo, lei deve confermare questo perché così noi della Rizzani De Eccher ne usciamo fuori».
  Lima cosa fa, fa l’accertamento relativo al giorno in cui… lo stesso giorno in cui succede questa cosa la segretaria parla con l’ufficio di Catania. Cosa succede? Il dottor Lima delega a Roma un’attività di indagine, per vedere i nomi dei passeggeri che sull’aereo stavano arrivando da Catania o da Palermo. Trovano Claudio De Eccher, lo accompagnano in una sala riservata, gli fanno aprire la valigia e trovano un verbale uscito dalla procura di Palermo con le dichiarazioni, che dovevano essere, segretissime di Leonardo Messina. Perché Lima non parla con Palermo? Semplice, perché si consiglia con Paolo Borsellino e lo dichiara davanti alla commissione del CSM nel 1996. Quindi Borsellino sa che Lipera sta parlando e il primo consiglio che da a Lima è di non parlare con Palermo. Anche perché a Palermo, ripeto, c’erano queste manovre di inquinamento. Lo so che De Eccher venne arrestato nel maggio del ’93, ma De Eccher è arrestato da Palermo quando già era stato arrestato da Pordenone, nel marzo del ’93, perché totalmente inserito nel meccanismo di Tangentopoli.
  Il problema è, poteva o non poteva prima che Paolo Borsellino morisse, quell’indagine avere un certo sviluppo? Questo è il punto dal momento che, ripeto, Paolo Borsellino con un appalto del porto turistico fece diciassette arresti nel maggio del ’91. Io non voglio condizionarvi ma il rapporto è imperfetto ovviamente dà una visione pan-mafiosa, ma il rapporto va letto attraverso le dichiarazioni riportate nel rapporto di Giaccone e di Aurelio Pino che sono due imprenditori che spiegano come funziona il sistema. Il sistema ve l’ho spiegato tra le righe qual è, e loro stessi nella richiesta di arresto del 25 giugno ’91 parlano di racket dei progettisti, di sistema delle combine, che necessità c’era del politico? Cominciamo ad arrestare quelli che fanno parte del racket dei progettisti e del sistema delle combine e poi si arriva al politico che è quello che di cui parlano Di Pietro e Paolo Borsellino «dobbiamo trovare il sistema per far parlare gli imprenditori» ma chi punta al politico dritto? E poi ripeto, quelle intercettazioni erano state depositate perché il dettaglio anche qui è fondamentale. Il capitano De Donno chiede l’autorizzazione al riascolto per potere reinserire il materiale che man mano avevano accumulato. Quindi io voglio riascoltare perché a questo punto certe espressioni che magari possono essere non comprensibili ora, con tutto il materiale che ho progressivamente accumulato, diventa più chiaro.
  Quindi la teoria della doppia informativa non esiste, il problema è l’informativa Caronte, quella contiene le dichiarazioni di Lipera. Ma l’informativa Caronte non poteva essere mandata a Palermo per un motivo molto semplice, è quella la vera informativa diversa, non quella Sirap. Perché l’informativa Caronte contiene sì le dichiarazioni collaborative di Lipera, ma se c’era un’attività inquinatoria in atto da parte di chi doveva essere arrestato per associazione a delinquere (cioè Catti De Gasperi, De Eccher, Giorgio Zito, tutti i progettisti della SASI progetti, Barbaro, Giuseppe Zito) è ovvio che Lima non può mandare gli atti a Palermo perché c’è un’attività di inquinamento. Vogliamo parlare di quello che viene riportato nella ordinanza di Gilda Loforti su quello che fanno gli avvocati Fabbri, l’avvocato Vizzini, l’avvocato Memi Salvo, che poi verrà condannato, per spingere sulla moglie di Lipera a non collaborare?
  La doppia informativa, rispetto alla Sirap, non esiste fu un atto concertato e vi prego se potete accertare quali atti di indagini sono state fatte tra il 5 settembre e il 28 ottobre del 1992 nell’ambito del procedimento 3541/92 che sarebbe il procedimento Sirap.

LUCIA BORSELLINO. Il senatore mi chiedeva se fossi a conoscenza del documento sottoscritto da otto sostituti della procura di Palermo. Do atto al dottor Scarpinato, conosco questo documento, do atto del fatto – ma l’avvocato Trizzino durante la sua esposizione ne ha dato conto alla Commissione

– che è stato lei tra l’altro a sollecitare questa sottoscrizione che coinvolgeva appunto otto dei suoi colleghi, compreso lei. Non li ricordo tutti, ma sicuramente c’erano il dottor Ingroia, il dottor Teresi, il dottor Gozzo, la dottoressa Consiglio, il dottor Napoli. Forse Nino Napoli, poi se dimentico qualche nome mi scuserete perché non ho il documento qui con me, però ne sono a conoscenza e gliene do atto di questo.
  Noi infatti abbiamo sottolineato più volte che il problema era legato al fatto (e questo lo diciamo tra l’altro dopo tanti anni) che non fosse stata mai richiesta una deposizione del dottor Giammanco nelle udienze che hanno riguardato i processi per la strage di via D’Amelio, il che lo ritenevamo una cosa assolutamente necessaria. Non nego sicuramente che è stato anche questo documento a sollecitarne il trasferimento.

  FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Io ho trovato, tra gli atti dell’inchiesta, una lettera scritta da Alessandro Rovera che venne acquisita dal ROS nel corso di una perquisizione delegata al momento dell’indagine dalla procura di Palermo, una lettera scritta da Alessandro Rovera che era un funzionario della Rizzani-De Eccher datata Caltanissetta 6 marzo 1990.
  Questi sono atti che, si deposita l’annotazione, i pubblici ministeri quindi delegano la polizia giudiziaria ad alcuni atti di indagine, i famosi allegati. Il rapporto l’ho letto dieci volte, sono in grado se voi mi dite di una telefonata di dirvi che tra chi e che tra chi non è. La lettera è scritta da Alessandro Rovera, era funzionario della Rizzani – De Eccher, è datata Caltanissetta 6 marzo 1990 ed è indirizzata a Claudio De Eccher, a Marco De Eccher, a Giorgio Zito, all’ingegner Cipriani e a Giuseppe Lipera. Questo è un atto che la procura, nel momento in cui si determinò ad archiviare, aveva.
  Riunione commerciale Sicilia del 3 marzo 1990 presso l’ufficio di Caltanissetta, presente il dottor Cani (che era un alto funzionario della Rizzani – De Eccher) che viene indicato come relatore, geometra Lipera, signorina Giulia Lunetta, è divisa in punti contrassegnati da lettere dell’alfabeto. C’è: a) organizzazione dell’attività, poi c’è b) nuovi futuri lavori, poi c) varie e sotto varie. Si dice fra l’altro testualmente «il progetto di Naro ha ricevuto parere favorevole dal Comitato Tecnico amministrativo regionale ora» sentite qua «ora occorre decidere a quale sportello (virgolette) presentarlo per ottenere il finanziamento». Questa è una ditta quindi che è fuori dal sistema, e a questa riunione partecipano Rizzani De Eccher, Claudio De Eccher eccetera.
  Attenzione, si sosterrà in sede di archiviazione che al limite si poteva contestare non il reato associativo o il concorso ma il semplice 353. No, perché tutto questo nel rapporto si innesta in accordi tra imprenditori e tra soggetti e questo emerge dal rapporto, che esiste un’associazione a delinquere. Tant’è vero che la famosa ordinanza di custodia cautelare del maggio ’93 La Commare, a cui fa riferimento il dottor Scarpinato, contesterà l’associazione a delinquere. È una fotocopia di quanto avrebbe fatto Felice Lima se non fosse stato bloccato dal dottor Alicata. Chi è il dottor Alicata, ce lo dice Teresa Principato nei verbali della Commissione e ce lo dice anche Vittorio Teresi. Ci dicono «il dottor Alicata era amico di Mario D’Acquisto e già con riferimento all’indagine Lima sull’imputato Susinni si chiese l’intervento di D’Acquisto su Alicata». Quindi si ha lo stesso modo di fare a Palermo, e Alicata lascerà solo Felice Lima nella gestione di questo. Questa lettera è importante perché dimostra come Claudio De Eccher, Marco De Eccher, Cani, Giorgio Zito, erano tutti dentro al sistema fino al collo e che non c’era motivo per archiviare – siamo in fase di ricostruzione storica lo posso dire – storicamente posso io valutare, una melius re perpensa, a noi questa archiviazione è sembrata veloce, è sembrata un’accelerazione.
  Non so perché, questo lo dovete vedere voi. È troppo breve l’analisi delle posizioni, a parte De Eccher (che credo l’abbia scritta proprio il senatore Scarpinato dove si attarda), ma tutto il resto è una totale divaricazione tra le premesse della richiesta di arresto il 25 in cui si parla di sistema di combine, racket dei progettisti. Per questo ho detto senatore che è stata la montagna che ha partorito il topolino. Il topolino perché già voi il 25 giugno del 1991, nella premessa della richiesta di arresto, avevate compreso esattamente i termini del problema. Allora perché io parlo di gestione anomala, perché quegli arresti del ’91, come lei sa, poi furono seguiti da quell’iniziativa di cui vi ho detto che Giammanco manda il rapporto a livello politico, lo manda a Falcone, lo manda alla Presidenza della Repubblica, lo manda alla Presidenza del Consiglio.
  Quindi c’è un tentativo di decentrare in altra sede la risoluzione del problema, ecco la rilevanza. Quello che è successo dopo la morte di Borsellino ci sta, perché Giammanco se ne è andato, Riina è stato catturato, lo Stato sta reagendo e soprattutto non c’è più Giammanco, forse, a mettere come dire un tappo su tutta questa pentola. Questa potrebbe essere un’ipotesi secondo me, questo è il quadro. Io conosco troppo bene le vicende procedurali di questa inchiesta, atto per atto.

  PRESIDENTE. Grazie avvocato. Prego senatore Verini.

  WALTER VERINI. Molto velocemente, però con una piccola premessa sull’ordine dei lavori. Presidente, io intanto non ringrazio formalmente sia la dottoressa Borsellino, sia l’avvocato, di più.

  Le ore nelle quali hanno esposto, quanto ci hanno esposto, rappresentano davvero un contributo di straordinario valore non solo civile, ma umano di cui davvero li ringrazio.
  Personalmente starei altre sette ore perché si sente, oltre che la conoscenza profonda, anche la ferita che voi provate che è principalmente vostra ma è anche di tutto il Paese e di tutti noi. Grazie davvero.
Detto questo presidente, però l’avvocato Trizzino e in misura minore la dottoressa Borsellino hanno parlato già per sette-otto ore sollevando una miniera di questioni e interrogativi.
Peraltro per chi non è quotidianamente avvezzo, anche professionalmente – mettiamola così – alle cose, sono faticosissimi non la comprensione, ma il dettaglio e la minuziosità, quindi è del tutto evidente che, anche se capisco il tema, io non ho fatto un’esperienza in Commissione antimafia chissà quanto lunga, ma non era mai capitato che ci fossero audizioni così corpose e così lunghe, delle quali vi ringrazio e secondo me dovrebbero continuare.
Questo però pone un problema (nostro, non vostro), cioè la sede plenaria deve avviare un lavoro che poi va evidentemente articolato altrimenti non riusciamo ad approfondire.
Abbiamo la fortuna di avere in questa Commissione personalità che hanno anche la sensibilità e l’eleganza (abbiamo visto il senatore Scarpinato) di non entrare nelle questioni in cui poteva essere citato. Da commissario e perché lui è qui come parlamentare, avrei interesse che Scarpinato abbia non dieci minuti, venti minuti, ma che possa avere tutto il tempo.
  Non dipende da voi, parlo per noi. Quindi presidente le pongo un problema, come andare avanti. Detto questo, non so se vuole rispondere subito.

  PRESIDENTE. Lei mi insegna che la sede per la programmazione dei lavori non è la plenaria ma è l’ufficio di presidenza. Noi abbiamo stabilito un orario nel quale ci fermeremo o convocheremo un ufficio di presidenza per stabilire come procedere. Io non posso sapere a prescindere quanto durano le domande né posso sapere quanto durano le risposte, come è noto, perché la questione è molto complessa. Io stessa ho formulato delle domande che, seppur come immaginerete abbia lungamente studiato questo dossier, ho ristretto al minimo anche per rispetto verso chi sta qui.

  WALTER VERINI. La ringrazio presidente, ma non posso…

  PRESIDENTE. Scusi, lei non mi interrompe, mi ha fatto una domanda e mi fa rispondere, poi conclude, grazie. Io non posso né stabilire a prescindere quanto durerà l’audizione, né quanto dureranno le domande dei commissari. Posso però ricordare a tutti qual è il nostro ruolo e ho fatto semplicemente questo, e continuo a fare questo per rispetto di chi ho qui e per rispetto dei commissari. Alle 12.30, come stabilito, noi interromperemo l’audizione e, ovviamente, laddove ci siano moltissimi interventi che non si sono potuti svolgere daremo modo di farli. Prego senatore.

  WALTER VERINI. La ringrazio. Preciso solo che non ho intenzione di insegnare, né posso, niente a nessuno. Dico solo che però bisogna stabilire delle regole, non solo degli orari di inizio e di interruzione, delle regole nella durata delle audizioni, della durata delle domande e anche nell’articolazione dei nostri lavori. Detto questo procedo…

  PRESIDENTE. Scusi senatore sennò sembra …

  WALTER VERINI. Mi ha interrotto, presidente, non mi può interrompere

  PRESIDENTE. Io la posso interrompere perché lei sta dicendo una cosa che non è vera. Noi abbiamo stabilito le regole in una riunione dell’ufficio di presidenza nella quale lei era presente e durante la quale abbiamo stabilito che avremmo accettato soltanto domande e non audizioni, perché le audizioni dei commissari non sono consentite. Ora lei mi obbliga a renderlo pubblico, io lo rendo pubblico, però qui chiudiamo e ne parliamo in ufficio di presidenza per rispetto. Le rilascio la parola.

  WALTER VERINI. Non obietto anche se avrei molto da obiettare, presidente. Per rispetto degli auditi dicevo che è un problema nostro, interno alla Commissione.
  Sullo sfondo, ma non troppo, c’è il tema agenda rossa e le parole che voi avete detto confermano tutte le inquietudini che il Paese nutre rispetto a questo vero e proprio trafugamento.
  È evidente che non sono stati degli operatori delle cosche a prendere l’agenda, ma che possono essere stati uomini dello Stato che avevano agibilità in quel momento, in quel luogo dell’attentato. Quindi quella sottrazione dell’agenda rossa e quel depistaggio (perché di questo si tratta) dal punto di vista di merito posso immaginarlo, ma dal punto di vista un po’ più generale… Voi avete fatto un quadro che pone grandi domande, che sono domande di merito ma anche domande appunto di quadro. Avete un’idea di chi, non giudiziaria ma più tra virgolette politico istituzionale, di chi può aver avuto interesse a sottrarre l’agenda?
  Seconda domanda, mafia e appalti, la dico velocissimamente così. Chi può aver avuto il potere, la possibilità nelle due edizioni (lo dico tra virgolette) del dossier «mafia appalti» che il ROS trasmise, chi può aver avuto il potere di espungere dalla prima delle edizioni consegnate le intercettazioni che riguardavano i politici nazionali?
  Terza domanda veniamo al ROS. Mi pare che lei non abbia nella risposta alla domanda del senatore Scarpinato approfondito, anche se lei stesso ha ricordato la testimonianza della signora Agnese circa il generale Subranni, i giudizi drastici che il giudice Borsellino aveva dato sul generale Subranni.
Ora la mia domanda è un po’ questa: potevano i colleghi del generale Subranni che avevano lavorato tutti i giorni con lui e visti anche i rapporti, stando a quanto avete detto, del giudice Borsellino con De Donno, con lo stesso Mori la fiducia che lui nutriva nei Carabinieri e quindi anche nel ROS non essersi accorti di questa sua caratteristica che il giudice Borsellino aveva confidato anche ad Agnese?
L’ultima domanda. È stata a lungo tratteggiata la guerra per l’egemonia mafiosa in Sicilia, il ruolo di Totò Riina. Voi che idea vi siete fatti, è possibile ritenere che ci fosse questa guerra per l’egemonia da parte della mafia «contadina» di Totò Riina oppure davvero in quegli anni ci fu un intreccio tra quelle che vennero definite «menti raffinatissime»? Ricordo che stavano cambiando scenari politici nel Paese, scomparivano partiti, ne nascevano altri, si cercavano referenti politici, le mafie cercavano referenti politici e certa politica cercava referenti mafiosi. Da questo punto di vista voi, la famiglia, vi siete fatti un’idea delle connessioni tra quell’azione, lo stragismo, le iniziative delle mafie, gli obiettivi, i beni culturali e le «menti raffinatissime»?
Ho finito con le domande, un ultimo inciso. Questo lo dico non come mio fatto personale. Secondo me lei avvocato nel tratteggiare il quadro ha però commesso un errore, perché in qualche modo, involontariamente credo, ha sporcato una storia che non può e non deve essere sporcata.
Involontariamente può averlo fatto, vogliamo parlare del consociativismo in Sicilia e non solo in Sicilia. Giustamente è un tema, però quando si parla di personalità come Emanuele Macaluso e penso a Villalba, penso a Portella della Ginestra, penso alle sue lotte da ragazzo, penso a Girolamo Li Causi, alla sua amicizia stretta con Pio La Torre, ecco errori ne facciamo tutti, però è una storia che sta dalla parte giusta la sua. Lei ha fatto riferimento a una telefonata. Quella è una storia che fa onore al Paese e non merita quindi riferimenti sbagliati e impropri.

PRESIDENTE. Senatore, io do la parola all’avvocato Trizzino, ricordando a tutti che siamo in sede di domande.

FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Partiamo dall’ultimo. In quella telefonata si parlava di reati e si va a denunciare, tanto più che il Partito Comunista ha dato vite magnifiche – come quella di Pio la Torre – alla lotta alla mafia, questo per chiarire. Tanto è vero che nell’interrogatorio successivo, quando gli si chiede conto e ragione di quelle telefonate sono più i non ricordo che le spiegazioni. Questo per chiarire perché proprio in Sicilia il Partito Comunista ha avuto le sue magnifiche vite che si sono sacrificate, Pio la Torre per primo. Io non sporco niente, io porto atti e descrivo situazioni. Ho dato un giudizio, è vero, ma quello fin quando è possibile credo si possa dare.
Per quanto riguarda tutte le altre domande, l’agenda rossa. Abbiamo già accennato al fatto che di fronte a un contributo della famiglia Arnaldo La Barbera, nome e cognome, dà la risposta che ha dato. Abbiamo l’intercettazione di Di Matteo: «Ci sono infiltrati della polizia nella strage di via D’Amelio». Il depistaggio lo fa la polizia, con il ruolo fondamentale degli alti gradi del Ministero dell’interno. Ho detto anche che Augusto Lama, su una telefonata di Raul Gardini viene allontanato dal Ministero, viene messo sotto procedimento disciplinare.
Vogliamo parlare di quello che era il sistema? Parliamone.
La parte pubblica, l’Eni, nell’ambito della joint venture Enimont controllata dal sistema penta partitico va a corrompere il presidente del tribunale vicario di Milano. Questo era il livello della degenerazione, ma nello stesso tempo quel sistema aveva il controllo dei gangli vitali del Paese. Tor di Valle, Catti De Gasperi è un uomo che fa i lavori per il SISDE, ha il Nos.
Ho spiegato, nella mia ampia introduzione, che il sistema dei partiti doveva vendere la pelle a caro prezzo e ha tentato di salvarsi. Ho inquadrato anche in un’ottica soprattutto preventiva, doveva morire anche Di Pietro non dovevano morire soltanto Falcone e Borsellino. E questo lo trovate nel verbale di Di Pietro. Di Pietro doveva morire come Falcone e Borsellino.
La tangente Enimont ancora non è stata scoperta quando muoiono Falcone e Borsellino, questo è un punto chiave. Il colpo mortale glielo daranno poi la tangente Enimont. Il corpo elettorale il 5 aprile dà un avviso, la Lega arriva al 9 per cento su base nazionale, il 25 per cento in Lombardia che era il polmone vitale della Repubblica sotto il profilo economico. C’è un malessere di cui parla Scotti nell’ambito del processo Borsellino quater, in una riunione fatta con Vincenzo Parisi e con il generale Pisani. Nel marzo del ’92 il dottor Grassi di Bologna trasferisce un’informativa al Ministro Scotti dicendo «sta per iniziare una strategia». L’indomani sul giornale spunta che questa informazione al dottor Grassi l’aveva data Ciolini, noto mitomane o giù di lì, per cui Scotti si lamenta del fatto che un’informazione così importante viene subito bruciata, per cui non può fare l’intervento in Parlamento. Gli omicidi, le stragi, hanno anche una funzione preventiva, è l’ultimo tentativo che si fa per impedire il crollo del sistema. E chi è che organizza il depistaggio? Il depistaggio viene da Roma, immediatamente. Questo emerge dalla storia, specialmente recente, degli atti processuali e delle sentenze definitive, dove si attribuisce grande importanza al movente di «mafia appalti», proprio perché era, come vi dicevo prima, il punto di una rappresentazione alquanto degenerata di un sistema che stava cadendo. Io ho ricordato la notte del 10 luglio, lo 0,006 per cento. Il popolo italiano era inviperito, scoprire che c’era un sistema che si reggeva sull’erosione costante della spesa pubblica con alleanze anche mafiose, e dovremmo anche andare sul tema delle privatizzazioni. Perché io vorrei ricordare che c’è un atto della Commissione, c’è una relazione del 26 gennaio del 1999 dell’attuale Sottosegretario della Presidenza del Consiglio Mantovano, in cui un sindacalista della Fincantieri viene ad accusare la Fincantieri di avere svenduto ad una società dei Galatolo tutto il patrimonio, le giacenze, ed è quello che aveva accertato Lama, con riferimento all’Imeg e alla Smeg e la valutazione delle giacenze della privatizzazione, perché l’Italia aveva bisogno di liquidità, il sistema dei conti pubblici aveva bisogno di liquidità, pecunia non olet, svendevano le giacenze, questo è.
  L’enorme corruzione, l’enorme sistema degenerato che c’era, c’era un clima da Norimberga.
  Forse questo non sono riuscito a spiegarlo, quando crolla un sistema è così e il sistema reagisce specie con chi, Falcone, Borsellino e Di Pietro voleva fare le inchieste. E Di Pietro poverino si spaventa, si spaventa quando gli arriva la nota del 16 luglio, gliela comunicano il 22 luglio, con cui dice «guarda il prossimo sei tu», lo prendono e lo portano non so dove, in Costa Rica. Cosa che non fecero con Paolo Borsellino.
  Per quanto riguarda Subranni voglio ritornarci, a questo punto sviluppiamo bene questo tema. Borsellino va in ufficio, Borsellino è stato con Subranni. «L’amico mi ha tradito» viene pronunciato il 29 giugno, quindi si tratta di qualcuno che lo ha tradito prima di quella data o un minuto prima di quella data e di quell’ora. Ma se Borsellino avesse saputo che Subranni era un «punciutu» avrebbe fatto tutto quello che ha fatto con lui fino a quasi l’ultimo giorno della sua vita? E poi, io sto difendendo Borsellino non sto difendendo Subranni, sia chiaro. E poi la frase è precisa. Era andato in ufficio, ha parlato con Ingroia, non sappiamo con chi altri ha parlato, perché dice «ho visto la mafia in diretta». Perché mi hanno detto che Subranni è «punciutu»? Cioè ci si muove lungo una linea di delegittimazione del ROS. Tanto più che nella riunione del 14, cosa che ci mancava, Borsellino si fa ambasciatore delle doglianze del ROS rispetto al poco largo respiro del dossier, specie con riferimento all’associazione a delinquere che era costituita dagli imprenditori del dossier. «Ho visto la mafia in diretta perché mi hanno detto» come se io uscendo di qua dico «ho visto perché quello ha detto», quindi è qualcosa che è accaduto nell’ufficio di Borsellino e non si tratta di Schembri, come diceva Agnese, o Messina, perché quelli mafiosi sono e potevano parlare…
  No, la mafia in diretta è riferita a qualcuno che gli sta dicendo, di inaspettato… Perché se lo può aspettare da tre collaboratori che gli possano dire che qualcuno è mafioso. No, esce dall’ufficio quel giorno e dice «ho visto la mafia in diretta perché mi hanno detto». Bisogna capire chi ha incontrato e chi gliel’ha detto. Questo è il vero punto.

  SALVATORE SALLEMI. Grazie presidente, grazie dottoressa Borsellino, grazie avvocato Trizzino per aver deciso, dopo anni di martirio mediatico, di voler accendere e consentire a questa Commissione di poter accendere un riflettore su quella che è una delle pagine più oscure, più grigie e più tragiche della storia di questa Nazione.
  Credo che il compito di questa Commissione sia quello di rigettare il pensiero che ci sia già una realtà costituita, definita, stabilita, a prescindere. Credo che tutti noi commissari abbiamo il compito di capire cos’è accaduto, come si è sviluppato e dobbiamo aprire un cono di luce su quella che è la verità. Capire chi era dalla parte giusta e capire chi era dalla parte sbagliata. Abbiamo trent’anni di storia giudiziaria che ci consentono (come lei ha fatto, avvocato Trizzino) di poter aprire nuove parentesi.
  Detto ciò mi accingo a fare domande che ho chiaramente predisposto. Tornando su «mafia-appalti», su Catania, credo che lei abbia toccato l’argomento rispondendo alla domanda del senatore Scarpinato, ma gliela ripropongo per una mia chiarezza maggiore. Cosa le risulta sapesse Borsellino esattamente dell’indagine catanese nello specifico, e le risulta che avesse stabilito dei contatti diretti col PM Felice Lima?
  Un’altra domanda che le faccio è cosa può dire sul fatto che Lipera collaborò a Catania e non a Palermo.
  Un’altra domanda che mi porto dietro da quando avevo 17 anni, è questa. Non fu intensificata la scorta a Paolo Borsellino, non venne bonificata via D’Amelio il giorno dell’attentato, questo è stato oggetto di mia domanda fatta dal Presidente della Commissione regionale antimafia a un poliziotto audito in commissione. E, soprattutto, la casa di via D’Amelio, 46 non è stata mai perquisita e non sono state svolte indagini su quell’abitazione che era, ci risulta essere, di proprietà o vicina, o riconducibile, alla famiglia mafiosa Buscemi.
  È evidente che queste tre cose, sostanzialmente aumentare la scorta, bonificare l’area e controllare quell’immobile, questa vacanza investigativa secondo lei appare importante e fondamentale per risalire alla verità e da che cosa deriva?

 FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Innanzitutto voglio essere veloce ma ringraziarla per la premessa. Noi qui stiamo proponendo una ricostruzione e abbiamo aspettato trentuno anni per farla, trentuno anni, non tre giorni, quindi se abbiamo preso un po’ di tempo è perché abbiamo dovuto aspettare questi trent’anni.
  Non abbiamo una tesi precostituita, stiamo offrendo la nostra ricostruzione poi sarà compito dell’autorità giudiziaria e vostro fare quello che c’è da fare.
  Per l’indagine catanese, intanto è lo stesso Felice Lima che dice di parlare con Paolo Borsellino. Lo riferisce Canale, salvo poi Canale ritornare indietro, tant’è che Felice Lima se ne addolora in seno di audizione del CSM nel 1996. Ma soprattutto, posso dedurre da fatti che trovano una spiegazione non altrimenti, il fatto che il giudice Borsellino, per esempio, incontra il 29 giugno del 1992 a casa sua il dottor Fabio Salamone. Devo dire che di questo incontro, così come dell’incontro alla caserma Carini, non esiste un’annotazione nell’agenda grigia. Quindi è plausibile, non ho la certezza, può essere che l’annotazione relativa all’incontro segreto con i ROS e l’incontro con Fabio Salamone del 29 sia nell’agenda rossa, in ragione del fatto che un incontro precedente con il dottor Fabio Salamone del 29 aprile del 1992 (che si deduce dall’agenda grigia) e afferente alle indagini sull’omicidio del povero giudice Livatino, era stato segnato nell’agenda grigia. Quello del 29 non c’è. L’incontro ce lo testimoniano sia Antonio Ingroia, sia la signora Agnese.
  In poche parole quell’incontro perché è rilevante? Perché sul ciglio della porta di casa (anche se Salamone nega) il dottor Borsellino dice: «È meglio che te ne vai dalla Sicilia». Questo è importante perché di Salamone, il primo a parlare, gli stessi ROS non erano riusciti a capire chi era quell’essere più in alto a cui, Catti De Gasperi vittima del sistema, si sarebbe rivolto per avere le rassicurazioni sui passi successivi.

Quindi Salamone viene definito negli interrogatori del 13, 14 e 15 giugno del 1992 da Lipera, ed è questo il momento in cui c’è la deviazione dei progetti omicidiari di Riina con riferimento all’omicidio Mannino, ma si passa ad uccidere Borsellino. Ce lo dice Brusca che c’è una deviazione che inizia a metà giugno.
  Quindi Salamone viene ricevuto perché Borsellino sa che suo fratello, di lì a poco, sarà coinvolto nelle indagini. Tanto ciò è vero, e lo racconta la dottoressa Camassa il 4 maggio del 2012 nel processo Mauro Obinu – Mori, ma nella stessa Commissione antimafia della XVII legislatura del luglio del 2017, Bindi, dice che Sinesio, mai sentito credo, Giuseppe Sinesio amico di Paolo Borsellino, uomo che gestiva i collaboratori all’Alto commissariato – io continuo a fare nomi e cognomi come vedete – chiede, subito dopo la morte di Borsellino proprio alla Camassa, se Borsellino gli avesse riferito qualcosa su Salamone. E la Camassa gli dice anche delle confidenze di Mutolo sul dottor Contrada. E poi la Camassa dice:«Io non sapevo che questo era del SISDE, mi sembrava un poliziotto». Quindi Sinesio SISDE, Tor di Valle SISDE, potere di un imprenditore di alzare la cornetta e fare punire un magistrato. D’Acquisto, Lima su Giammanco.
  Quindi perché parla a Catania? Per un motivo molto semplice, perché, e i fatti gli daranno ragione, la stessa procura della Repubblica di Palermo gli darà ragione. Lui si sentiva… Ha sempre negato tutto, ma vorrei vedere, nemo tenetur se detegere, dicevano i latini e io sono un avvocato. Lui negava l’evidenza. Per carità è un diritto dell’inquisito di negare l’evidenza, ma il vero motivo è che lui non accettava di pagare per tutti. Perché quella lettera di Rovera, che vi ho fatto vedere, in cui si stabiliscono le strategie commerciali, lo sportello per il finanziamento, poi il progettista, il racket, le combine, quello dice «ma possibile che prendete me che sono l’ultimo, sì importante, agisco in Sicilia, ma io non faccio nulla, sono un nudus minister. Io agisco per nome e per conto, ma come è possibile pensare che in un sistema così imbrigliato di relazioni» tant’è che nel rapporto si parla della visita che Claudio De Eccher fa all’onorevole Fiorino per ottenere il finanziamento del Consorzio di Bonifica di Gela. Non ci va Lipera con Fiorino per ottenere i finanziamenti e fare acquisire il progetto che fa la stessa Rizzani de Eccher dal Consorzio di Bonifica, perché l’ente appaltante doveva presentare il progetto. Ma glielo faceva l’azienda e questo risulta tutto dal rapporto.
  Allora lui dice «io vado a parlare con chi è disposto ad ascoltarmi circa il fatto che io faccio parte di un ingranaggio ben complesso» e comincia a parlare, e racconta il famoso triangolo: imprenditori, politici, pubblici amministratori. Che cos’è questa? Una Tangentopoli gigantesca, in salsa mafiosa però.

 LUCIA BORSELLINO. Intervengo per rispondere alla domanda che aveva rivolto sulle misure di protezione. Posso confermare che le misure di protezione per mio padre sono state potenziate soltanto nel periodo successivo alla morte di Giovanni Falcone. Le macchine di scorta, oltre alla blindata che guidava da sé, molto spesso, erano due. Una che faceva da guida, poi la macchina blindata e poi un’altra macchina che lo seguiva. Ragione per cui purtroppo, durante la strage, morirono cinque agenti di scorta; perché ricordiamo che il sesto, Antonio Vullo, è un sopravvissuto. Posso anche confermare che nessuna misura di protezione aggiuntiva è stata presa per il luogo dove mio padre si recava notoriamente ogni domenica. Tra l’altro mio padre era una persona molto abitudinaria, quindi tutti conoscevano i suoi principali spostamenti. Soprattutto, mio padre aveva lamentato il fatto che non era possibile controllare la parte retrostante la nostra abitazione in quanto credo che il terreno (che è immediatamente alle spalle dei garage dove veniva conservata la macchina blindata) era un terreno probabilmente di proprietà di mafiosi e quindi il timore era che appunto potessero addirittura posizionare un esplosivo lì.
  Per quanto riguarda la mancata perquisizione dell’immobile di via D’Amelio, 46 da quello che so, dalle notizie che ho appreso solo successivamente perché naturalmente non eravamo così addentro alle questioni, le confermo che non c’è stata una perquisizione di quell’immobile, per quanto fosse stato individuato come la postazione dalla quale poteva osservarsi, tra virgolette, il buon andamento della strage.

  PIETRO PITTALIS(intervento da remoto). Grazie presidente. Intanto io voglio ringraziare l’avvocato Trizzino e la signora Lucia Borsellino per il grande, straordinario contributo che danno alla Commissione e mi permetto di osservare che davvero trovo grave l’affermazione che ho sentito, cioè che questo straordinario contributo sporchi una storia. No, questo straordinario contributo fa emergere semmai una verità, quella che bisogna dire è stata (dopo anni spesi anche nella Commissione antimafia) vanificata perché si sono inseguiti probabilmente fantasmi. Allora ecco perché l’audizione sulla informativa «mafia-appalti», su quell’interessante dossier che forse avrebbe dato anche spazi di prosecuzione di indagine, su quelle intercettazioni, che probabilmente avrebbero costituito spunti interessanti anche per aprire nuovi fascicoli.
  Però qui io debbo, presidente, aprire una parentesi, perché le domande da parte di qualche componente pongono alla Commissione, che deve unitariamente essere investita del compito di ricerca della verità e dell’accertamento dei fatti, il problema se non vi sia qualche posizione in evidente conflitto di interessi e di opportunità di permanenza nella Commissione antimafia. Questo lo dico per un dovere che ritengo debba essere in cima alla funzione delicata che esercitiamo in una Commissione dove penso che si debbano unire le forze non per offendere gli auditi né per cercare di raccontare un’altra storia.
  Vengo subito alla domanda. Io ho ascoltato nella scorsa audizione un riferimento, ma anche in questa, al dottor Pignatone padre. È una circostanza peraltro che si evince dagli atti giudiziari che il padre del dottor Pignatone, all’epoca tra i sostituti procuratori di Palermo, ricoprisse l’incarico di presidente dell’ESPI, una società pubblica della Regione Siciliana che controllava la Sirap, ovvero la grande impresa che allora ha gestito appalti del valore di mille miliardi delle vecchie lire e che aveva a che fare con vicende che potevano essere oggetto di indagine. Il dottor Pignatone secondo lei, avvocato Trizzino, si astenne? C’erano degli aspetti che meriterebbero un approfondimento, anche se a distanza di alcuni decenni, anche per capire l’ambiente palermitano dell’epoca, i contatti, le vicinanze, le parentele che hanno caratterizzato quella stagione? La ringrazio.
  Io penso che dovremmo, presidente, ma questo sarà oggetto di dibattito interno, approfondire se del caso ancora, avere il supporto collaborativo dell’avvocato Trizzino, su aspetti che meritano ancora un’approfondita verifica. Grazie.

 FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Io mi limito a rispondere all’onorevole Pittalis rimandando a due atti che ho prodotto come fonti. In uno che è provento di archiviazione della dottoressa Gilda Loforti del marzo del 2000, il problema viene sollevato e la dottoressa Gilda Loforti sostiene che non sussistessero ragioni tecnico-giuridiche ma sicuramente di opportunità. Cioè, anche lì la dottoressa Gilda Loforti solleva un problema di conflitto di interessi, perché la Sirap, che era la stazione appaltante dei famosi mille miliardi di cui parlava Siino, effettivamente era una controllata di due altre società pubbliche, la Fi – Me Finanziaria Meridionale e l’Espi appunto, presidente dell’Espi era il presidente Francesco Pignatone, padre del dottor Pignatone. Il quale, dopo la prima tranche degli arresti del luglio 1991, nel novembre del 1991 abbandona l’inchiesta, l’inchiesta non è più gestita da lui.
  Un altro riferimento è sempre contenuto… io riporto quanto contenuto in provvedimenti giudiziari, i mandanti bis occulti, un provvedimento del 2003, quando Giovanni Brusca parla dell’infiltrazione della mafia nel tavolino lui parla di una minaccia che dovette fare al presidente Nicolosi, il presidente della Regione Sicilia, il quale a detta di Brusca impediva, attraverso la consulenza di un avvocato fratello del dottor Pignatone, alle società di Brusca di entrare nel tavolino. Ma lì faceva bene, perché sostanzialmente impediva l’infiltrazione mafiosa. Questi sono i riferimenti che vengono contenuti e riferiti al dottor Pignatone.
  Ripeto, si parla di conflitto di interesse, ma non sotto un profilo strettamente giuridico ma di opportunità.

  GIUSEPPE PROVENZANO. Grazie presidente. Anch’io mi unisco ai ringraziamenti. Io credo che lo Stato e le istituzioni abbiano un debito nei vostri confronti e nei confronti di tutta l’opinione pubblica e che questa Commissione possa provare, anche alla luce di questa audizione, a colmare parte almeno di questi debiti. Proprio il rispetto per il lavoro approfondito che avete fatto e che ci avete restituito con questa ricostruzione mi impone di porre alcune domande, anche qualora queste domande possano apparire non elegantissime.
  La prima ha a che fare proprio con il tema del generale Subranni, perché dalla sua ricostruzione, avvocato, mi pare di poter dire (ma mi corregga se sbaglio, e questa è la domanda) se lei sta offrendo un’interpretazione diversa rispetto a quella che ha fornito Agnese Borsellino nel processo Borsellino quater nel quale, da quello che abbiamo sentito anche qui, mi pare che con grande chiarezza Agnese Borsellino dica che la notizia dell’affiliazione mafiosa di Subranni era stata recepita da Borsellino come un fatto certo e non come un tentativo di delegittimazione mafiosa, come mi pare lei, nell’interpretazione che qui ha fornito, tende ad accreditare.
  La seconda questione invece riguarda un punto che a mio avviso è importante, anche perché legato al tema dell’agenda rossa. Lei ha ricostruito un particolare su cui almeno io credo, pur avendo letto tanta letteratura sulle vicende mafiose, su cui si è riflettuto abbastanza poco, cioè sul fatto che Rocco Chinnici teneva un diario, così come lo teneva Giovanni Falcone, le famose annotazioni, e che riconduce anche all’agenda rossa di Paolo Borsellino, all’importanza di tenere quell’agenda anche alla luce di esempi che poteva aver avuto in magistrati verso i quali nutriva stima e affetto.
  Le annotazioni di Falcone, che hanno un’importanza cruciale a mio avviso nella sua ricostruzione, che immagino riportino accenni al sistema partitocratico su cui lei qui sta affondando molta della sua interpretazione della vicenda, cioè la crucialità del dossier «mafia-appalti», la Tangentopoli in salsa mafiosa, come l’ha definita, che è cruciale. Eppure quelle annotazioni danno un’importanza altrettanto rilevante a un tema che poi invece è scomparso completamente nella sua ricostruzione, che è Gladio. La domanda è se dal suo punto di vista Borsellino non riservasse la stessa importanza a quell’elemento, perché nella sua ricostruzione poi improvvisamente Gladio viene in ombra.
  A un certo punto, credo nella prima delle sue interpretazioni, e questa è la terza domanda, avvocato, ha accennato all’informativa Cavallo.

  FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Caronte.

  GIUSEPPE PROVENZANO. Allora gliela ricordo io. Un’informativa Cavallo su cui la procura di Caltanissetta, proprio nei mesi scorsi, ha incentrato una richiesta di arresto su una possibile pista legata alla presenza di Delle Chiaie in Sicilia nei mesi precedenti la strage. In quella richiesta si accenna anche a un riferito incontro tra il pentito Lo Cicero e Borsellino, poco prima della morte di Borsellino. Ecco, su questa pista io volevo capire se nella sua lunga ricostruzione, nel suo lungo studio ha trovato delle lacune investigative nel corso della sua analisi.
  Quarta domanda, sempre un po’ riferita a questa. Si è molto concentrato sulla vicenda della procura di Palermo, poi c’è tutto un filone che ha sviluppato oggetto anche di studio e di analisi in questa Commissione sulle indagini politiche fatte da quella procura su politici dopo il 1993. Mi pare che invece manchi nella ricostruzione, se non sbaglio, un approfondimento sulla procura di Caltanissetta. Cosa avviene alla procura di Caltanissetta? Questo io credo sia utile a questa Commissione. Perché, vede (e chiudo su questo), lei intreccia nella sua ricostruzione elementi di ricostruzione storico-politica molto importanti, che meritano una riflessione a parte, con elementi di ricostruzione giudiziaria procedurale, che meriterebbero un altrettanto significativo approfondimento. L’intreccio tra queste due questioni, pur necessario al raggiungimento di una verità possibile su quella vicenda, comunque impone uno sforzo e anche una precisione. A proposito di questo io credo che l’onorevole Pittalis non abbia minimamente inteso quello a cui si riferiva l’onorevole Verini a proposito di sporcare la memoria di alcuni personaggi citati nella sua ricostruzione, credo che Pittalis non abbia capito a cosa si riferisse l’onorevole Verini, ma io le faccio una domanda su questo. Lei è a conoscenza del fatto che Emanuele Macaluso, che lei ha citato a proposito di intercettazioni che riguardavano l’ufficio di Ciancimino nella sua ricostruzione, è stato il primo accusatore politico di Ciancimino come mandante politico dell’omicidio di Pio La Torre, che abbia fatto queste accuse nei confronti di Ciancimino molto prima che indagini giudiziarie sfiorassero la figura di Vito Ciancimino all’apice della sua potenza politica e della sua capacità di organizzazione di gestione di quel sistema politico-mafioso che in Sicilia ha portato poi all’affermazione dei Corleonesi e della loro strategia mafiosa?

  PRESIDENTE. Grazie onorevole Provenzano. Prego, avvocato Trizzino.

  FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Temo di non essermi spiegato. Visto che si ritorna sulla figura di Emanuele Macaluso, il problema non è Macaluso, il problema è l’interlocutore di Macaluso: Mimì la Cavera.
  Allora andiamo per ordine. Per quanto riguarda la Gladio…

  GIUSEPPE PROVENZANO. Su Subranni.

  FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Su Subranni vuole rispondere Lucia. Io debbo dilungarmi un pochino perché le cose che lei ha sollevato sono importanti.
  Per quanto riguarda Gladio, gli appunti sostanzialmente dimostrano che Falcone voleva indagare e Giammanco prende tempo. Lui vuole il contatto con il giudice Andrea, vuole il contatto con Priore. E chi è che mette sempre il solito tappo? Giammanco. Ma la cosa interessante è che poi nell’ambito… Io rinvio alla lettura dalla pagina 1547 dell’ordinanza sentenza delitti politici, in cui Falcone affronta l’indagine su Gladio e risolve il problema dicendo che con riferimento… Allora, pagina 1550 dell’ordinanza sentenza a firma del dottor Falcone sui delitti politici. Con riguardo alla Gladio è opportuno ricordare, poi, che ulteriori accertamenti documentali sono stati compiuti dall’ufficio del PM di Palermo nell’ambito di un diverso procedimento riguardante l’omicidio di Giuseppe Insalaco. Se lei ricorda, nelle annotazioni c’era il problema se inserire l’indagine su Gladio nel momento in cui, finita l’istruzione formale, i pubblici ministeri stanno redigendo la requisitoria finale, si pone un problema che viene risolto nel senso che i magistrati che stavano stipulando la requisitoria finale dicono: «Noi abbiamo già un’impostazione, se mettiamo pure Gladio qui non ne usciamo più, quindi mandiamo il discorso del rinvio al giudice istruttore di ulteriori indagini con riferimento all’omicidio di Insalaco che è ancora contro ignoti». Ce lo spiega benissimo il dottor Guarnotta il 2 dicembre del 1998 al processo Borsellino ter. A che conclusione arriva Falcone? Falcone dice: «In tale sede» – cioè nell’ambito del procedimento per Giuseppe Insalaco – «l’esame della documentazione completa concernente tutte le persone inserite nella struttura, o anche semplicemente valutate per un eventuale inserimento, ha consentito di escludere l’esistenza di alcuna relazione con i temi e le persone costituenti oggetto del presente procedimento. In tal modo, come si è già detto nella parte relativa all’omicidio dell’onorevole La Torre, si è pure venuto incontro a una specifica richiesta del Partito Comunista PDS». Quindi Falcone fa le sue indagini su Gladio, ma nel fare le sue indagini, ne dà contezza nell’ambito della stessa ordinanza sentenza, accede al Sisde e Falcone dice: «Ho avuto la massima collaborazione dal Sisde anche in relazione a questa indagine su Gladio». E arriva alla conclusione che poi trasfonde in un’audizione alla Commissione parlamentare antimafia del 1990, desecretata da poco, in cui dice: «Nell’88 ancora dovevo indagare e pensavo che effettivamente, con riferimento ai delitti politici, ci potesse essere una sorta di incontro tra la mafia e l’eversione. Ora indagando, facendo tutte le indagini sulla Gladio, sul Sisde eccetera, io escludo…» – E lo dice Giovanni Falcone, non lo dico io, e parla con riferimento agli omicidi politici di delitto politico-mafioso. – E dice: «L’omicidio del compiantissimo presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella avviene in un momento in cui ci sono tutti i prodromi e si sta preparando la guerra di mafia». Qui noi abbiamo una commissione spaccata, abbiamo da una parte gli Inzerillo e i Bontate, dall’altra un Riina che sta facendo proseliti all’interno della commissione, perché nell’aprile del 1981 partirà la seconda guerra di mafia. Siccome l’omicidio di Piersanti Mattarella interessava a una parte di cosa nostra, precisamente all’ala corleonese referente a Ciancimino, cosa ipotizza Falcone? Ipotizza che, siccome l’ala che sarà poi perdente non era interessata all’omicidio di Piersanti Mattarella, è stato possibile che Salvatore Riina potesse appaltare l’esecuzione del reato a dei terroristi del NAR, ed esce fuori la cosa di Fioravanti. Sul punto dobbiamo dare atto che le inchieste sui NAR in relazione all’omicidio Piersanti Mattarella credo si siano risolte con una assoluzione dei terroristi dei NAR. In più voglio dire che Buscetta e lo stesso Marino Mannoia dissero che mai e poi mai Salvatore Riina avrebbe affidato l’esecuzione di un delitto così importante a un terrorista sia di destra che di sinistra. Perché? Perché con Riina si rompono i parametri con cui noi dobbiamo interpretare cosa nostra. L’anno zero per cosa nostra è l’arrivo di Salvatore Riina. L’anno zero nel senso che poi la distruggerà fondamentalmente col suo modo di fare. Salvatore Riina in quel torno di tempo, sono quasi dodici anni, in cui compie l’impossibile a Palermo (la guerra di mafia, l’omicidio dalla Chiesa, tutto quello che è successo), Salvatore Riina si fida solo della sua Falange Armata, il suo esercito che per lui è fondamentale. Riina non appalta a nessuno. Certo, può essere rinforzato nel proposito, quello sì. Abbiamo un problema, perché io non voglio eludere le domande, abbiamo la testimonianza di Spatuzza che ci dice che c’è un soggetto che non ha mai conosciuto al momento del riempimento dell’esplosivo a via Villasevaglios dell’autovettura. Ma questi sono elementi che ancora sono in corso di accertamento. Quindi su Gladio io credo che Falcone sia tranciante, a un certo punto, dice: «Io ho indagato, ho fatto le indagini ed escludo che Gladio possa essere interessata nell’ambito dei delitti politici svolti a Palermo».
  Sulla procura di Caltanissetta, onorevole Provenzano, non ho aperto questa maglia perché altrimenti avrei dovuto parlare tre giornate di fila. Non ha detto: «La caserma Carini è un “nido di vipere”, ha detto “il mio ufficio”». Io amo i dettagli. Se uno dice: «Un amico mi ha tradito» e dopo un secondo dice: «Qui è un nido di vipere» ma perché andare a cercare Subranni? O meglio, cerchiamolo Subranni, ma cerchiamo anche dentro quell’ufficio se c’è lì il traditore. Io sto difendendo proprio la memoria di Paolo Borsellino. Dico, dobbiamo contestualizzare, è il 29 giugno che dice questo.

E ve l’ho dimostrato che bella giornata ha passato il 29 giugno del 1992 il dottor Borsellino. Non ha detto: «La caserma Carini è un nido di vipere», ha detto: «Il mio ufficio».
  Allora dobbiamo chiederci se in questi anni c’è stato il tentativo di allontanare e di allocare altrove il traditore. Questo è il punto che io offro come oggetto dell’approfondimento.

 LUCIA BORSELLINO. Sulla questione Subranni anche la dichiarazione di mia madre è stata oggetto di sentenza passata in giudicato, si è formato un giudizio sulla persona del generale Subranni che chiaramente non sta a noi ribaltare. Per noi fu un fatto estremamente sconcertante, tra l’altro apprenderlo da mia madre. Perché fin quando mia madre non ha fatto questa dichiarazione a noi non aveva dato alcuna memoria di questo fatto. Lei lo ha anche detto perché lo ha fatto solo nel 2009, intanto per non adombrare sospetti sull’Arma, non avendo chiaramente altre testimonianze se non quella che gli aveva reso mio padre nello sfogo del 15 luglio. Ma ancor più non l’aveva detto a noi per non metterci in difficoltà. A me quella dichiarazione ha reso uno sgomento pari a quello che evidentemente avrà provato mio padre nel momento in cui gli hanno riferito questo fatto. Però, ripeto, questo fatto ha formato un giudizio che non siamo certamente noi a ribaltare, noi siamo qua nel pieno rispetto delle sentenze che si sono formate e per cercare di ricostruire tutti i passaggi che hanno condotto mio padre alla morte dalla data in cui Giovanni Falcone è stato ucciso. Questo era l’oggetto della nostra ricostruzione, al netto di quanto già si è consolidato nelle sentenze, che in questa ricostruzione sono tutte rispettate. Questo ci tengo a dirlo. Soprattutto, anche con riferimento a quello che abbiamo detto, ancorché desumibile dagli atti, lo ribadisco ancora una volta, noi gradiremmo essere smentiti. Perché per noi questa è una storia veramente assurda, non accettabile in uno Stato di diritto. È una storia assurda. Qualora fossimo smentiti, presidente, noi verremmo qua a chiedere scusa.

 FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Un’ultima cosa, onorevole Provenzano, su Macaluso. Perché sono stato così duro l’altra volta? Perché nell’informativa Sirap…

Verbale 2009, il primo verbale di Agnese, contestualizza preciso e dice: «Perché mi hanno detto», quindi il mafioso per Paolo Borsellino è chi glielo ha detto.

  PRESIDENTE. Grazie avvocato Trizzino. Io vado avanti, faccio fare l’ultima domanda, perché l’accordo è che chiudiamo alle 12.30 e poi in ufficio di presidenza valuteremo il prosieguo.
  Prego, senatore Cantalamessa.

  GIANLUCA CANTALAMESSA. Grazie presidente, grazie agli auditi.
  Io ho bisogno di fare una premessa sull’ordine dei lavori. Già in ufficio di presidenza avevo paventato il rischio del conflitto di interesse del senatore Scarpinato in questa audizione, di essere citato più volte dagli auditi ed essere un commissario. Il fatto che questa Commissione, ponendo delle domande, si ponga nei confronti degli auditi come se fossero dei testimoni in un processo penale è semplicemente inaccettabile, a tutela dell’Istituzione che è questa Commissione e della sacralità laica che rappresenta questa Commissione. L’avevo paventato in ufficio di presidenza e purtroppo il rischio si è verificato per il tramite di domande dirette o forse anche indirette poste ad altri colleghi.
  Ciò premesso, volevo dire che ho l’onore di far parte di questa Commissione da qualche anno e sono poche le giornate che hanno riempito di valore e di significato questa Commissione. La vostra audizione è tra queste giornate.
  Altra cosa, e me ne assumo la responsabilità personale, trovo vergognose le dichiarazioni del dottor Petralia in merito alla figlia del dottor Borsellino.
  Ciò premesso, volevo fare due domande all’avvocato Trizzino.
  Lei ha parlato del conto Gabbietta, ma non ho sentito bene a che proposito ne ha fatto riferimento.
  La seconda domanda, si è parlato di appunti Falcone da 15 a 39, lei ne ha letto qualcuno qui. Si sa dove sono gli altri, c’è traccia?
  Poi una domanda alla signora Borsellino. I rapporti tra suo padre e Falcone dopo il trasferimento di suo padre a Marsala e dopo quello del dottor Falcone a Roma si sono modificati? Grazie.

  PRESIDENTE. Grazie, senatore Cantalamessa. Prima di dare la parola all’avvocato Trizzino, per chiarire a tutti coloro i quali non erano in ufficio di presidenza che il tema era stato posto e che io, e mi assumo la responsabilità di questo, ho risposto che non avevo gli strumenti per valutare questa incompatibilità perché mai avvenuto prima e che quindi questa era una riflessione che doveva spettare all’interessato o al gruppo dell’interessato. Fermo restando che, come ho sottolineato e come poi ho fatto, sono intervenuta nel momento in cui ho avuto la sensazione che non si stesse più svolgendo una normale domanda ma un tentativo per l’appunto di interrogare.
  Prego, avvocato Trizzino.

  FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Per quanto riguarda la prima domanda, il riferimento al conto Gabbietta, non è nient’altro che una nota contenuta nel provvedimento – richiesta di archiviazione – Mandanti occulti bis. È una nota 23, a pagina 9, della richiesta Mandanti occulti, in cui il dottor Lama, interrogato nell’ambito di quel procedimento in relazione alla famosa vicenda Imeg Smeg di cui alla distruzione eccetera, il dottor Lama sentito a Caltanissetta dal verbale del 19 aprile del 1994 di Giuseppe Bellini, tesoriere occulto del gruppo Ferruzzi dinanzi al PM dottor Lama, quindi è una nota che riprende… nel discorso i giudici dicono «il dottor Lama ha rievocato» e quindi c’è la nota.
  Dice: «Si apprende che il ricavato della vendita della Imeg (ai Buscemi fondamentalmente) servì per ripianare le perdite della società del gruppo Ferruzzi e parte dell’attivo fu utilizzato a luglio 1991 per pagamenti a un uomo di affari greco e in altre direzioni, fra cui versamenti al noto Primo Greganti attraverso il cosiddetto conto Gabbietta».
  È una nota che trovate in un provvedimento che io vi ho prodotto agli atti.
  Le annotazioni l’ho già spiegato ampiamente, sono 39, riscontrato dalla Sabatino e questo è il punto fondamentale, e devono essere in seno all’autorità giudiziaria che si occupa della strage di Capaci, quindi Caltanissetta.

 LUCIA BORSELLINO. Rispondo alla domanda che mi ha posto. Mio padre adorava Falcone, penso di non potere usare un termine diverso. Ne aveva una stima incondizionata. Fin dal momento in cui si trovarono a lavorare insieme all’interno dell’ufficio istruzione di Palermo, quella collaborazione e intesa perfetta sul piano professionale non si è mai arrestata, anche quando mio padre ebbe quella lunga parentesi alla procura di Marsala e anche quando Falcone ebbe fino alla sua morte la sua permanenza a Roma. Di questo ne siamo testimoni come familiari, nella misura in cui papà si rammaricava, anche molto, di non avere potuto avere sul piano umano quella stessa intensità di rapporti che vi era sul piano professionale, perché erano due persone talmente assorbite dal loro lavoro che il suo rammarico era appunto quello di non avere potuto anche fruire dell’amicizia di Giovanni sotto un aspetto più familiare. Questo è stato un rapporto molto espresso anche dall’amicizia tra mia madre e Francesca Morvillo, che si è intensificato ancor più dopo quella che noi definiamo quasi una deportazione, anche se chiaramente il termine è molto forte, all’Asinara, è stato l’unico aspetto veramente positivo di quella vicenda, che ci ha portato ad avere una sorta di convivenza proprio all’interno della stessa abitazione, quindi quello ci ha consentito anche di intessere dei rapporti umani ancora più forti dal punto di vista familiare.

 FABIO TRIZZINO, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino. Ho bisogno di intervenire di nuovo perché ho eluso una domanda dell’onorevole Provenzano riguardante Alberto Lo Cicero e Maria Romeo. Alberto Lo Cicero ha avuto il coraggio di dire davanti al tribunale di Palermo, e chi fu presente notò la reazione del presidente Ingargiola, che Totò Riina baciava le mani a Mariano Tullio Troia. Maria Romeo è interessata da quella indagine, del provvedimento del GIP con cui vengono arrestati questi soggetti. Maria Romeo viene definita una sorta di soggetto assolutamente non attendibile in quanto da tanti anni cerca di ottenere, proponendo ricostruzioni fantasiose, il programma di protezione. Quindi sono due testi che sono lontani anni luce rispetto ai testi che vi ho portato io in questa sede.

  PRESIDENTE. Grazie. Prima di chiudere i lavori e valutare quando aggiornarli in altra sede, ci tengo a chiudere ringraziando sia la dottoressa Borsellino che l’avvocato Trizzino, perché se quello che abbiamo fatto fino a qui è stato per voi molto doloroso noi vi dobbiamo delle scuse perché in alcuni casi vi è sembrato di dover rivivere tutto.
  Chiedo a me stessa e a voi commissari di non stare in questa sede con i presupposti di difendere quel nostro o vostro riferimento.
  Il giudice Borsellino ci ha lasciato l’insegnamento, da gigante morale quale era, di perseguire fino alla fine la giustizia, qualunque persona coinvolga e qualunque cosa questo comporti. Io, con il rispetto che devo a chi siede a fianco a me, intendo proseguire così.
  La seduta è chiusa.

  La seduta termina alle 12.35.

 

Strage di Via D’Amelio – In COMMISSIONE ANTIMAFIA le audizioni dei famigliari di Paolo Borsellino e testimoni