Salvatore Frazzetto, 46 anni, e il figlio Giacomo, 21, sono stati uccisi con colpi di arma da fuoco durante una rapina nel loro negozio di Niscemi (CL) il 16 Ottobre 1996. Due malviventi, poco prima della chiusura, sono entrati nel negozio, la pellicceria gioielleria “Papillon” in via Terracini, con il volto scoperto e armi alla mano, tentando una rapina. I due banditi avrebbero cominciato a picchiare la moglie della vittima, Agata Azzolina, di 42 anni, che si trovava alla cassa. A questo punto sarebbe intervenuto il marito, accorso dal retrobottega. L’ uomo avrebbe inveito contro i due e sarebbe tornato nel retrobottega a prendere una pistola. Al suo ritorno i due lo hanno disarmato e con la sua stessa pistola hanno sparato contro di lui e contro il figlio, a sua volta accorso in aiuto dei genitori. Erano mesi che la famiglia Azzolina era vittima di estorsioni da parte dei due malviventi, estorsioni e minacce che sono seguitate anche successivamente agli omicidi, nei confronti della signora Agata e della figlia ventenne Chiara. La signora Agata, distrutta dal dolore, si ucciderà nella propria casa, meno di cinque mesi dopo, il 23 marzo.
Articolo del Corriere della Sera del 17 Ottobre 1996
Rapina in pellicceria: uccisi padre e figlio
NISCEMI (Caltanissetta) . Il titolare di un negozio di pellicce, Salvatore Frazzetto, 46 anni, e il figlio Giacomo, 21, sono stati uccisi con colpi di arma da fuoco durante una rapina nel loro negozio di Niscemi. E’ accaduto verso le 19 di ieri. Secondo la ricostruzione della polizia ad uccidere padre e figlio sarebbero stati due malviventi che, poco prima della chiusura, sarebbero entrati nel negozio, la pellicceria gioielleria “Papillon” in via Terracini, con il volto scoperto e armi alla mano, tentando una rapina. I due banditi avrebbero cominciato a picchiare la moglie della vittima, Agata Azzolina, di 42 anni, che si trovava alla cassa. A questo punto sarebbe intervenuto il marito, accorso dal retrobottega. L’ uomo avrebbe inveito contro i due e sarebbe tornato nel retrobottega a prendere una pistola. Al suo ritorno i due lo hanno disarmato e con la sua stessa pistola hanno sparato contro di lui e contro il figlio, a sua volta accorso in auto dei genitori. Dopo il duplice omicidio i banditi sono fuggiti a piedi. Oltre alla rapina gli investigatori non trascurano altre ipotesi, tra cui quella che si sia trattato di emissari di una banda di taglieggiatori andati nel negozio per intimidire il commerciante, o che si sia trattato di due tossicodipendenti.
La testimonianza di Agata Azzolina, del 21 marzo 1997, due giorni prima del suo suicidio, raccontata dal giornalista Sebastiano Gulisano
Tratto da
La morte e la speranza
Niscemi, una storia siciliana
di Sebastiano Gulisano
«Entrano. Mio marito, appena li vede, diventa cadavere in viso. Io lo guardo e penso che sia a causa del fatto che due ore prima s’era sentito male, molto male e aveva preso due pastiglie; aveva lasciato la pistola sul tavolo ed era andato in bagno, ché stava malissimo, proprio male. Perciò, anche se lo vedo sbiancarsi, non collego il pallore alla presenza di ’sti due criminali. Penso: È pallido perché il “male” (il tumore) lo fa soffrire. “Mi danno la mano. Si rivolgono personalmente a me: “Signora, abbiamo fatto il giro di tutte le gioiellerie e l’ultima è questa”, dice Salvatore Infuso. Perché? domando. “Sa, ora il lavoro di Peppe Meli lo facciamo noi”. “Quando hai imparato ora ad aggiustare ’ste cose?” chiede mio marito. “Mi sono specializzato da poco”. “E dove stai lavorando?” lo incalza, “A casa tua o nel locale che ha lasciato Meli?”. Ché Meli se n’era andato subito dopo lo scasso (Due mesi prima, il 19 agosto 1996, i Frazzetto avevano subito un furto notturno nel negozio, opera di ignoti), scomparso. “Ho deciso di prendermi quella casa e di mettermi a lavorare. Meli ha preso un lavoro molto importante, a Milano. Ora si deve sposare mio fratello: ci servono delle fedi”. «Mio marito chiama mio figlio: “Mimmo, prendi la chiave della cassaforte e vai a prendere delle fedi”. Loro si mostrano tesi, perché l’oro non è qua di fronte, ma nella cassaforte… Mio figlio torna col pannetto con le fedi: non è che ci sia una grande scelta, sono tutte uguali. “Queste però mi sembrano leggere”, obietta Salvatore, quello che non si deve sposare. “Per le fedi il peso è limitato, cinque grammi o sette grammi”, gli fa notare mio marito. “Io le vorrei da nove grammi”. “Da nove grammi non se ne fanno più. Tu, visto che sai lavorare l’oro, te le puoi fare da te”. Lui non replica e chiede se ce ne sono col brillante. Col brillante? Le fedi nuziali? Allora Maurizio dice: “Che fa, la vado a prendere?” (Io penso che vada a prendere la convivente) E lui, il fratello, assente con gli occhi. “La vado a prendere” è invece riferito a me. (Secondo Agata Azzolina, è anche possibile che quel “la vado a prendere” fosse riferito alla pistola che suo marito aveva poggiato sul tavolo dell’ufficio e che lei, mentre spolverava, aveva spostato su un altro tavolo. Quando gli Infuso entrarono e l’andarono a salutare lei era seduta proprio dietro il tavolo sul quale prima aveva messo l’arma, che sarebbe stata vista dai due fratelli.)
«Salvatore scatta come una molla e tira il tavolinetto addosso a mio marito, mentre Maurizio si butta su di me; mio marito si abbassa per venire qui dentro, nello stanzino (Io avevo spolverato quel tavolo e avevo spostato la pistola su un altro, ma mio marito non se n’era accorto, non lo sapeva). Mio marito s’abbassa e lui gli salta addosso. Se lo porta sulle spalle fin qua (da una stanza all’altra) … «L’altro mi prende per il collo e ci manca poco che mi soffochi: mi mette due dita nella gola e l’altra mano nella bocca e mi intima: “Non gridare!”, col “tu”. Io penso: ’Stu “tu” … Cioè: mi ha dato un fastidio, un fastidio tale che non ho saputo nemmeno respirare. Bastardo, dico nel mio io, se non sto parlando, non sto dicendo nemmeno una parola, come fai a dirmi “non gridare, non gridare”; però io mi muovevo, cercavo di liberarmi e lui mi prese per i capelli e mi trascinò verso il divano, là in fondo, e me ne ha dati di tutti i colori, mi ha pistato, proprio mi ha pistato. Di più si è innervosito quando io gli ho addentato i pantaloni… cioè, gli ho preso i pantaloni, ma volevo mordere la gamba…
È allora che sento lo sparo, il primo, quello che uccide mio marito. Maurizio Infuso, temendo per la vita del fratello, mi lascia andare e si precipita nello stanzino. Io gli corro dietro e vedo mio figlio che tiene per le spalle Salvatore; poi fuggo fuori, in strada». A questo punto, Agata Azzolina interrompe per un attimo la narrazione e, dopo avere abbassato gli occhi come se volesse riordinare le idee, riprende: «Io ho sbagliato e mi sento in colpa, la mia colpa mi sta mangiando viva, perché io dovevo entrare qui dentro invece di andare fuori a chiedere aiuto. E che cosa ho concluso?». Un rimorso insensato: di fronte a due persone, una delle quali armata, preferisce correre a chiedere aiuto: a cinquanta metri di distanza, appena fuori dal cortile condominiale, c’è il commissariato di polizia, ma lei non ci arriva… «Fuori c’è un giovane che aspetta la sua ragazza, che abita qui sopra, e gli chiedo aiuto; lui è in macchina e ha lo stereo acceso. Grido: Massimo! Aiutami, aiutami! Ma ’sto ragazzo non mi sente. Poi, quando faccio il gesto di tirarmi i capelli, se ne accorge e scende dall’automobile: “Signora, che succede, che c’è…?”. E sento altri due spari: sono quelli di mio figlio. Un colpo va a vuoto, l’altro lo centra in testa. Grido ancora: Massimo aiutami, ti prego! Ci sono due in casa mia, vai subito alla polizia!
«Mentre sto per rientrare i due fratelli escono in cortile, Salvatore impugna ancora la pistola; io non mi rendo conto nemmeno di sapermi difendere, cioè magari di scansarmi. Lui, Salvatore, mi viene vicino e sento il clic qua (al cuore). Indossavo un vestitino giallo e mi sono guardata, mentre tornavo indietro: M’ha sparato? Non m’ha sparato? Io il clic l’ho sentito, ma sangue non ne ho, nel mio io dicevo. Mi giro e lo vedo vicino alle mie spalle, che sta tornando per ammazzarmi: non vuole lasciare una testimone scomoda. Corro in negozio, chiudo la porta e mi butto per terra: parlo a mio marito, secondo me, parlo con mio marito e mio figlio: Mimmo, Tuccio, com’è andata a finire? ’Stu bastardu pure me stava ammazzando, mi voleva ammazzare!». Era talmente sotto shock, Agata Azzolina, da non rendersi conto che i suoi cari non potevano più sentirla.
Per leggere:
La morte e la speranza Niscemi, una storia siciliana
di Sebastiano Gulisano
Dal Giornale di Sicilia
Niscemi, la ragazza coraggio in aula “Quei tre taglieggiavano mio padre”
Si allarga lo scenario del duplice omicidio di Salvatore e Giacomo Frazzetto, il gioielliere di Niscemi assassinato insieme con il figlio nel corso di una drammatica rapina il 16 ottobre del 1996. Sul banco dei testimoni al processo in corso nell’aula bunker di Bicocca è salita Chiara, figlia del gioielliere, l’unica rimasta in vita della famiglia Frazzetto dopo il suicidio della madre Agata Azzolina, avvenuto la notte tra il 22 e 23 marzo del 1997. La ragazza ha puntato l’indice contro gli estorsori di Niscemi, coloro che avrebbero soffocato la famiglia, gli stessi che avrebbero continuato la loro azione intimidatoria nei suoi confronti e della madre anche dopo l’omicidio del padre e del fratello. Sollecitata dal Pm Cinzia Perroni, sostituto presso la procura di Caltagirone, che le ha chiesto se la famiglia Frazzetto fosse sotto il mirino degli estorsori, Chiara più volte ha fatto il nome dell’orafo Beppe Meli e di Salvatore Infuso così come del fratello Maurizio. In particolare la ragazza ha detto: “Le estorsioni iniziarono nel momento in cui il fratello Giacomo, troncò, per volere di mio papà, un’amicizia con Meli”. Scendendo nei particolari la Frazzetto ha spiegato che i “soprusi erano di diverso genere: dal cambio di un assegno, all’acquisto di un’auto, al continuo “acquisto” senza denaro di oggetti d’oro”.
Ha anche riferito di avere trovato, dopo l’omicidio del padre, un registratore – con la voce del genitore – in cui Salvatore Frazzetto aveva inciso una conversazione con un estortore. Chiara ha spiegato nei dettagli che le pressioni nei confronti della famiglia Frazzetto continuarono anche dopo il delitto. “Mia madre più volte fu seguita al cimitero dove diverse persone tentarono di dissuaderla dall’accusare i fratelli Infuso e Beppe Meli. In casa giunsero pure telefonate anonime da parte di persone che ci minacciavano. Mia madre però che ormai era straziata dal dolore rispose che non si sarenne più tirata indietro dal fare nomi e cognomi di coloro che le avevano rovinata la vita…”. L’udienza di ieri si è rivelata subito di particolare interesse. In aula erano assenti i due imputati, i fratelli Salvatore e Maurizio Infuso. E’ stato il Pm Cinzia Perroni a depositare atti secretati per ragioni di sicurezza raccolti in parte dopo il delitto e subito dopo il suicidio della signora Azzolina. A nulla è valsa l’eccezione di nullità,secondo una sentenza della Corte costituzionale, sollevata dall’avvocato Francesco Strano Tagliareni. Eccezione non recepita dal presidente della prima Corte d’assise Armando Licciardello. Nel corso dell’udienza molti nomi non sono stati pronunciati: non si esclude che vi sia un’inchiesta per verificare l’attendibilità della ragazza, ma soprattutto le responsabilità delle persone che lei accusa. Drammatico è stato il racconto di Chiara Frazzetto. E di come lei è venuta a conoscenza della morte del padre e del Fratello. Era a Catania, città dove studiava, quando apprese la notizia. Quando arrivò a Niscemi, la madre, straziata dal dolore, si trovava al commissariato. Per un mese vi fu un lunghissimo silenzio poi interrotto con un terribile racconto di una donna che aveva visto morire il marito e il figlio. Uno strazio che la condusse dritto al suicidio.
Articolo da L’Unità del 21 Settembre 1997
Si è sposata Chiara, il racket sterminò la sua famiglia. Matrimonio con l’agente che indagò sul suo caso
«Non lasceremo Niscemi, noi da qui non ci muoviamo» – La ragazza aveva lanciato forti accuse dopo il suicidio della madre: «Lo stato ci ha lasciato sole»
NISCEMI (Caltanissetta). La chiesa è la stessa di sei mesi fa, quando ai funerali della madre accusò lo Stato di essere «assente». Ma questa volta Chiara Frazzetto festeggia il suo «giorno più bello», sposando davanti all‘altare l‘ispettore di polizia Paolo Presti.
Un sogno d‘amore nato in commissariato tra interrogatori e inchieste, dopo l‘uccisione in un tenativo di rapina del padre e del fratello e il suicidio della madre, disperata per le continue richieste del racket. Sei mesi fa i funerali della madre di Chiara, Agata Azzolina, furono celebrati dallo stesso sacerdote, il padre cappuccino Angelo Catalano. Ma della tragedia familiare ieri non c‘era alcuna traccia. Nessun ricordo del suo dramma neanche durante l‘omelia e le preghiere. «Oggi è il giorno del mio matrimonio – afferma la ragazza respingendo l’assalto dei giornalisti – non parlo né dei ricordi né di altro». Poi chiede ad alcuni agenti, colleghi del marito, di allontare i cronisti. Più commossa era apparsa poco prima, quando il nonno paterno, Giacomo Frazzetto l’aveva accompagnata all‘altare. Poi con voce roca e rotta da singhiozzi, ha ribadito il proprio amore per Paolo, tra gli applausi dei circa 200 invitati. Lei, studentessa universitaria, ha 22 anni; lui, originario di Gela, unaltro paese a rischio, ha 33 anni, e già da tempo è in polizia. È Paolo a confermare che Chiara non andrà via da Niscemi.
I due giovani si erano conosciuti in occasione dell‘ omicidio del padre e del fratello di lei, ma la loro relazione era iniziata dopo il suicidio di Agata Azzolina. Poi, un mese fa, la decisione di sposarsi.
«Resteremo a Niscemi – ribadisce Paolo – andremo a vivere nella casa dei genitori di Chiara. Noi di qui non ci muoviamo. Non è una risposta per nessuno, ma una nostra libera scelta. Chiara accetterà il posto di lavoro alla Regione siciliana restando nell‘ufficio di collocamento di Niscemi».
Il sindaco di Niscemi, Salvatore Liardo, porge agli sposi gli «auguri di felicità e serenita» a nome di tutto il paese. «È bello – dice il sindaco – vedere come da una storia triste sia nata una bella favola d‘ amore.
Ma non parlate per favore di riscatto di Niscemi, il nostro paese ha gli stessi problemi del resto della Sicilia».
Alla vicenda legale riporta il legale di Chiara, l‘avvocato Massimo Sapienza, che svela un particolare inedito del duplice omicidio: prima di essere assassinati con colpi di pistola il padre e il fratello della sposa furono feriti con armi da taglio. Ma Chiara, ormai, vuole «dimenticare» il passato e pensare al viaggio di nozze: mercoledì in crociera sul Mediterraneo. Della vicenda della sua famiglia si era riparlato quando la madre della ragazza, Agata Azzolina, di 43 anni, si uccise con un cappio fissato al tetto della cucina, la notte del 23 marzo scorso. Chiara Frazzetto, 22 anni, iscritta a Scienze dell‘educazione, apparve come un grumo nero di disperato dolore, immagine di tutte le donne colpite dalla violenza del racket mafioso. E nell‘arco delle 24 ore successive alla perdita della madre, Chiara immaginò per il suo futuro due scenari antiteci: «Hanno distrutto la mia famiglia – disse prima – hanno ammazzato mio padre e mio fratello, adesso è come se avessero ucciso anche mia madre. Nel biglietto che mi ha scritto prima di suicidarsi, chiedendomi perdono per quel gesto, mi invita ad andare via da Niscemi. Ma io non mollerò». Ma il giorno dopo, ai funerali della madre, osservando sgomenta l‘indifferenza del paese, Chiara aveva cambiato idea: «Basta, ho deciso, me ne vado – accusò – seguirò il consiglio di mia madre venderò tutto e lascerò Niscemi». In chiesa, salutando per l‘ultimavolta la madre, Chiara aveva osservato: «Mamma amore mio. Tu non ce l‘hai fatta. Hai preferito andartene. E io sono rimasta sola, ci hanno lasciato soli. Con la nostra disperazione e la nostra rabbia». Commentando la tragedia di Niscemi, dopo i funerali, Ottaviano Del Turco aveva commentato : «Credo che lo Stato abbia subito una sconfitta a Niscemi, ma questa e‘ la storia della lotta contro la mafia in Sicilia».
Pubblicato il 18 gen 2014
Salvatore era in negozio, con il figlio Giacomo. Sono stati uccisi a Niscemi il 16 ottobre 1996, per non aver voluto pagare il pizzo. Cinque mesi dopo la mamma, non reggendo al dolore, si è uccisa. Le loro idee camminano anche sulle tue gambe.
Fonte: vivi.libera.it
Articolo del 15 ottobre 2017
Io sono viva per voi. Il ricordo di Salvatore e Giacomo Frazzetto
di Chiara Frazzetto
Ciao Mimmo, ciao papà e mamma. Sono 20 anni che non sento la vostra voce, solo perché qualcuno ha deciso di mettere fine alla vostra vita per una manciata di soldi.
Non sento la vostra voce, ma la vostra immagine è scolpita nei miei occhi e nel mio cuore. È difficile la mattina alzarsi e darvi il buongiorno e non udire la vostra risposta, ma penso che voi siete solo nella stanza accanto e non potete sentire. La morte non è nulla: è questo che mi ripeto ogni giorno per andare avanti, voi vivete in me e io sono viva per voi.
Mimmo, ricordo ancora i nostri abbracci e le nostre uscite insieme: facevamo invidia al mondo, un fratello e una sorella che non litigavano mai. “Ma solo perché tu amore mio, portavi tanta pazienza”.
Mamma, mi mancano i tuoi abbracci e i tuoi baci e anche le nostre litigate. Papà, che dire di te… tu eri l’aria che respiravo, il mio grande amore.
Voi siete distanti, ma sempre presenti nella mia vita. Sento il vostro odore e il vostro abbraccio, dove trova rifugio la mia martoriata anima.
Ma la forza la prendo da voi, siete voi che asciugate le mie lacrime e il vostro ricordo mi dà pace.
A presto amori miei!
Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 1 aprile 2020
La mattina che cambiò la nostra vita
di Chiara Frazzetto
a cura di Alessia Pacini
È un lunedì mattina, il 16 ottobre del 1996. Chiara è tornata a Catania, dove frequenta l’università, mentre sua mamma Agata, suo padre Salvatore e suo fratello Giacomo sono a lavoro nell’attività di famiglia. Due uomini entrano in negozio, chiedono il pizzo a Salvatore. Quello sarà il momento in cui la vita della famiglia Frazzetto cambierà per sempre.
Quella mattina perderanno la vita Giacomo, 22 anni, e Salvatore, 46 anni, per mano di due criminali che verranno poi arrestati sette ore dopo gli omicidi grazie al riconoscimento della madre di Chiara. Ma per Agata il dolore sarà insopportabile e cinque mesi dopo deciderà di togliersi la vita. Aveva 43 anni.
Nel 2003 i due assassini vengono condannati: Salvatore Infuso a 28 anni per duplice omicidio, il fratello Maurizio a 17 per concorso. Le cose, però, andranno diversamente. È il 2018, Chiara incontra per strada l’uomo che ha ucciso la sua famiglia.
Fuori dal carcere, per buona condotta.
L’ultimo ricordo che ho con la mia famiglia risale al giorno prima della tragedia. Era una sera autunnale, una domenica. Io sarei ripartita la mattina seguente per andare a Catania, dove studiavo. Mio padre mi coccolava tantissimo e io ogni fine settimana cercavo di tornare a casa per trascorrere del tempo con la mia famiglia. Ricordo che eravamo io, Giacomo, mamma e papà sul divano, una qualsiasi domenica sera spensierata in famiglia. Ricordo che mio fratello aveva un vizio, lui adorava attorcigliare i miei capelli e quelli di mia madre e quella sera mi baciava, non voleva che io ripartissi per andare all’università.
Questo è l’ultimo flash della mia vita spensierata.
La mia famiglia aveva un’attività commerciale, vendevamo abiti da sposa, fedi e altri oggetti per i matrimoni. Il calendario segnava il 16 ottobre del 1996, quando un uomo e suo fratello entrarono nel nostro negozio. Volevano comprare degli anelli, dissero, ma fu chiaro poco dopo che le cose stavano diversamente. Erano due habitués, mio padre ormai li conosceva bene: erano esattori ed erano lì per chiedere il pizzo. Mio padre, senza nemmeno pensarci, si rifiutò.
Fu in quel momento che la vita della mia famiglia cambiò per sempre. Uno dei due fratelli iniziò a picchiare mia madre, mentre l’altro si lanciò su papà. Mamma fino a quel momento non si accorse di niente, era seduta sulla poltrona del negozio e stava sfogliando una rivista di abiti da sposa. Dopo una breve colluttazione, mio padre cercò di far suonare l’allarme del negozio che era collegato con le forze dell’ordine. Un gesto di responsabilità civile e coraggio che gli costò la vita: sul tavolo, infatti, poco lontano dall’assalitore, si trovava la pistola di mio padre. Papà l’aveva tolta poco prima per andare in bagno e lì era rimasta. Uno dei due malviventi riuscì a prenderla in mano, sparò e uccise mio padre.
Nel negozio era presente anche mio fratello. Non si era accorto di niente, si trovava nella stanza accanto per cercare le fedi che i due avevano richiesto. Mentre lui stava tornando nell’altra stanza, mia madre riuscì a svincolarsi e uscire fuori dal negozio per chiedere aiuto. È in quel momento che sentì un secondo colpo, andato a vuoto. Uno dei due fratelli, uno dei due criminali, bloccò Giacomo, iniziando a fargli dei tagli con un coltello, mentre l’altro gli sparò alla tempia, uccidendolo.
Mia madre intanto era fuori, vide un ragazzo che era appena arrivato vicino al nostro negozio per prendere la fidanzata e gli chiese aiuto. Provò a tornare indietro da papà e Giacomo, ma si ritrovò davanti a lei i due malviventi. Provarono a spararle. Il colpo non partì, la pistola si era inceppata. Mia madre era viva.
Ma lo sarà ancora solo per pochi mesi. Il 22 marzo del 1997, nel più grande sconforto, mia madre decise di mettere fine alla sua vita.
I due angeli della morte furono arrestati dopo solo sette ore dalla tragedia e questo fu possibile solo grazie al riconoscimento di mia madre. Ma da quel 16 ottobre io e mamma siamo rimaste sole per mesi: non ci rimaneva altro che una famiglia distrutta, la solitudine, un grande silenzio intorno a noi. Solo questo. Quando il dolore ebbe la meglio su mia madre, lei mi scrisse una lunga lettera. Mi diceva di allontanarmi dalla Sicilia, di andare via, ma io non ho mai voluto farlo: amo la mia terra, la amo moltissimo, sarebbe stato come fuggire.
Andare avanti a 21 anni è stato difficile. Ero sola e affrontare il processo fu un percorso lungo e travagliato. Nel 1997/1998 nessuno si costituiva parte civile durante i processi di mafia e ritrovarsi a 21 anni, da sola, a lottare per la verità fu molto complicato. Quelli erano anni in cui ancora era molto difficile: significava mettersi contro la mafia e non tutti ebbero il coraggio di farlo. Ma io decisi di andare avanti, nella mia terra, per la mia famiglia.
Nel frattempo ho conosciuto quello che poi è diventato mio marito, oggi Commissario di polizia e allora Ispettore di polizia. Ci sposammo dopo sei mesi dalla morte di mia madre. In quel periodo chiesi anche la revoca della scorta che mi era stata data subito dopo quel giorno di marzo del 1997. La mia vita era diventata invivibile: per una ragazza di 21 anni sentirsi controllata, oppressa, era impossibile. E poi, ho sempre pensato che se la mafia vuole ucciderti, ti uccide. Avevo 21 anni e decisi di prendermi le mie responsabilità e di andare avanti con la mia vita, senza scorta.
Non vorrei però solo parlare del fatto di sangue che ha portato via i miei cari. La mia famiglia era molto altro. Vorrei tanto parlare di mio fratello, di mia madre, di mio padre che erano persone meravigliose. Alcune volte ho difficoltà a guardarmi indietro perché avevo una famiglia meravigliosa che mi manca ogni giorno, soprattutto mio fratello. Tra me e Giacomo c’erano solo 19 mesi di differenza, siamo cresciuti come due gemelli: uscivamo insieme e lui mi chiamava la sua pupetta. Era un ragazzo dolce e ingenuo. Mia madre era molto apprensiva, una mamma chioccia. Mio padre era un grande lavoratore, per lui lavoro e famiglia erano le ragioni di vita. Si ammalò di tumore quando aveva 38 anni. Non si fece mai piegare dalle mafia, ma anzi ha sempre lottato contro l’illegalità, dicendo che questo lo avrebbe reso più forte. Per questo motivo decise di non pagare il pizzo.
Il riconoscimento ufficiale di vittima di mafia arrivò dal Ministero dopo un anno dalla morte di mia mamma, al tempo però dopo tre mesi la regione Sicilia fece anche una legge ad hoc chiamata proprio Chiara Frazzetto. Si trattava di una legge di solidarietà, non si era mai visto che una ragazza di 21 anni si ribellasse e alzasse la voce contro la mafia come feci io.
La memoria è fondamentale. Attraverso il nostro ricordo, loro continuano a vivere. So di non essere eterna ed è per questo che accolgo con tanta passione l’opportunità di parlare ai nostri giovani, educarli alla legalità, perché attraverso il nostro dolore e la nostra sofferenza i ragazzi riescono veramente a toccare con mano cos’è la parola mafia. Ma soprattutto significa non lasciare morire per una seconda volta chi è già stato ucciso dalla criminalità organizzata. Attraverso il mio dolore, le mie parole, la mia famiglia continuerà a vivere. Non possono essere dimenticati. Abbiamo una grande missione, anche se non è sempre facile: parlare con 300 o 400 ragazzi nelle scuole oppure nelle carceri minorili diventa difficile, soprattutto quando si parla di educazione alla legalità. Il mio obiettivo è far capire ai ragazzi cosa significhi la parola mafia e cosa si trova dietro a questo concetto.
Leggere anche:
vivi.libera.it
Salvatore Frazzetto – 16 ottobre 1996 – Niscemi (CL)
Salvatore era un uomo in continuo movimento, non riusciva a stare fermo. Aveva mille idee, mille progetti e cercava di realizzare. Era riuscito a creare una grande impresa commerciale nella suo paese, Niscemi. Il suo progetto di vita, il futuro per i suoi figli.