TUTTI GLI UOMINI DELLA STRAGE
Il quadro probatorio fin qui delineato consente di ritenere pienamente provato il coinvolgimento ed il ruolo penalmente rilevante di alcuni componenti della “famiglia” della Noce nella fase esecutiva della strage, come risulta dalle chiamate in correità, innanzitutto di un componente, Ganci Calogero, legato da vincoli di sangue agli stretti congiunti Raffaele e Stefano Ganci, nonché dell’Anzelmo e di Brusca Giovanni, i quali hanno concordemente indicato Ganci Raffele come colui che diede le prime disposizioni ed indicazioni sulla necessità di reperire un’autovettura di piccole dimensioni e di tenere costantemente occupato uno spazio lungo il marciapiede antistante il portone dello stabile di via Pipitone Federico.
Altrettanto concorde è la chiamata in correità nei confronti del Madonia Antonino che anche in occasione di questo efferato crimine non fece mancare il proprio apporto, conformemente alle sue spiccate attitudini operative.
La distribuzione dei ruoli rispecchia rigorosamente le gerarchie e le cariche rivestite nel sodalizio al tempo dei fatti oggetto del presente processo.
Nel rinviare a quanto sarà esposto più avanti in ordine alla fase deliberativa ed al ruolo assunto dal Ganci Raffaele anche in relazione al momento ideativo, conformemente alla carica di capomandamento rivestita, è qui sufficiente richiamare brevemente il significativo protagonismo del predetto imputato in alcuni rilevanti momenti che hanno scandito l’articolato sviluppo dalla fase esecutiva, dall’affidamento ai figli dell’incarico di rubare una piccola utilitaria, al trasferimento della stessa al fondo Pipitone, provvedendovi personalmente, all’occupazione per la prima volta del posto antistante il portone del palazzo della vittima, fino alla fase terminale dell’esplosione con una sintomatica presenza sul luogo teatro della strage, quasi a rappresentare la volontà dei vertici dell’organizzazione e al contempo rafforzare la determinazione operativa dei gregari.
Quanto al Ganci Stefano, sono state già ampiamente esposte le dichiarazioni rese dall’Anzelmo e dal Ganci Calogero, i quali hanno attribuito anche a quest’ultimo un ruolo esecutivo, estrinsecatosi nell’individuazione e nel successivo furto della FIAT 126 destinata a trasportare ed occultare la carica esplosiva, nonchè nell’attività espletata sotto l’abitazione della vittima di tenere occupato, giornalmente con autovetture “pulite” e sempre diverse, lo spazio destinato alla collocazione della Fiat 126.
Su tali attività le dichiarazioni dell’Anzelmo concordano sostanzialmente con quelle del Ganci.
Nel rinviare alle argomentazioni sopra svolte in ordine alle divergenze rilevate sull’autore della materiale sottrazione della Fiat 126 ed alle ragioni per le quali la Corte ha ritenuto di privilegiare la versione dell’Anzelmo, in considerazione della plausibili difficoltà mnemoniche del Ganci Calogero di enucleare da una attività criminosa molto frequente proprio l’episodio relativo al furto della Fiat 126 lasciata incustodita davanti l’autoscuola, va osservato che la responsabilità di Ganci Stefano non discende esclusivamente dal provato concorso nel furto dell’autovettura dell’autoscuola Ribaudo, ma anche dal contributo penalmente rilevante dallo stesso fornito in quella attività preparatoria della fase esecutiva che è stata puntualmente decritta dal fratello e dall’Anzelmo.
Ma ancor prima del suo concreto attivarsi attraverso la personale partecipazione a segmenti operativi di quella fase, si è registrata la sua sintomatica presenza nel luogo e nel momento dell’incarico che il di lui padre Raffaele conferì agli uomini d’onore presenti all’interno della macelleria di via Lancia di Brolo, gestita proprio dai fratelli Stefano e Calogero, circostanza, questa, che se valutata in relazione al profondo radicamento del Ganci Stefano nella realtà criminale mafiosa in cui tutto il suo nucleo familiare era inserito – peraltro con la recente assunzione di un ruolo di vertice da parte del capofamiglia, destinato di lì a poco a diventare uno degli esponenti di maggior spicco dell’organizzazione e dei più fedeli alleati di Riina – non può non assumere i caratteri tipici di quella forma, anche tacita, di accettazione di un mandato criminoso e di disponibilità operativa in relazione allo specifico incarico conferito, con conseguente piena consapevolezza non solo della finalità di quel furto e del disegno strategico complessivo nel quale si inseriva, in uno al reperimento dello spazio da occupare in via Pipitone Federico, ma anche della non marginalità del proprio ruolo e della necessità per il sodalizio di avvalersi della sua collaborazione.
Sotto tale ultimo profilo appare opportuno ricordare che in quel periodo la macelleria di via Lancia di Brolo era gestita proprio dai fratelli Calogero e Stefano Ganci, sicchè il furto che il padre ebbe a commissionare e le connesse attività non potevano non coinvolgere anche il figlio Stefano, tenuto conto che l’impegno operativo non era limitato a poche ore ma si sarebbe inevitabilmente protratto per alcuni giorni, come dimostrato dalla ricostruzione di quella fase sopra esposta, sicchè era necessario quantomeno un avvicendamento tra i due fratelli, dovendo uno dei due assicurare la continuità della gestione di quell’esercizio commerciale.
Non può inoltre essere trascurato, sotto il profilo del dolo, che in quel contesto spazio-temporale, Ganci Raffaele, in presenza di Gambino Giuseppe Giacomo, informò del progetto di uccidere il dr. Chinnici i figli Stefano e Calogero e l’Anzelmo.
[…] Né può dubitarsi della consapevolezza del Ganci Stefano di cooperare con altri alla realizzazione di un progetto criminoso di cui gli era ben noto l’obiettivo, essendone stato informato nella macelleria nel momento in cui ricevette le disposizioni operative dal padre ed avendo lo stesso Anzelmo ribadito espressamente la circostanza a specifica domanda (cfr.ud. 9/3/1999):
P.M. : – Sì, sì, questo già l’aveva detto. Ma nel momento in cui Stefano Ganci conserva il posteggio e nel momento in cui ruba la macchina, Stefano Ganci è consapevole che…?
ANZELMO : – Sì, sappiamo a cosa deve servire, certo che sappiamo a
cosa… a cosa deve servire, a voglia.”
Ricollegandoci a quanto già evidenziato in ordine alle incertezza mnemoniche di Ganci Calogero sullo specifico ruolo svolto dal fratello Stefano in tale fase ed alle convincenti argomentazioni dallo stesso addotte per fugare ogni possibile dubbio circa eventuali atteggiamenti compiacentemente riduttivi ravvisabili nel suo racconto per alleggerire la posizione del congiunto, va ancora evidenziato che le difficoltà del collaboratore di fornire concreti elementi su quella attività può ben spiegarsi, ad avviso della Corte, con il ruolo di cogestione della macelleria dagli stessi svolto che ne ha concretamente impedito un contestuale protagonismo nel compimento di singole attività esecutive.
[…]
In ogni caso appare decisivo il rilievo che, secondo quanto riferito dall’Anzelmo, proprio il Ganci Stefano aveva adocchiato la Fiat 126 dell’autoscuola, individuandola perché era sempre con le chiavi inserite nel cruscotto, ed insieme a lui aveva commesso il furto con le modalità già indicate.
Avuto riguardo ai criteri di attribuzione della responsabilità concorsuale, nella condotta del Ganci Stefano si ravvisano certamente gli estremi obiettivi e subiettivi richiesti per la configurabilità a suo carico di un concorso materiale nel reato di strage e negli altri reati connessi, atteso che il predetto ha fornito un contributo penalmente rilevante anche alla realizzazione dei fatti-reato in esame nella fase preparatoria con un apporto che ha, da un lato, indubbiamente rafforzato il proposito criminoso di quelli che hanno curato materialmente l’esecuzione dell’attentato e, dall’altro, agevolato la stessa azione degli esecutori materiali che da quell’apporto hanno tratto un maggior senso di sicurezza.
Nel richiamare le considerazioni sopra svolte in ordine al valore univocamente sintomatico della sua presenza nella macelleria in occasione del conferimento dell’incarico da parte del padre ed alla ravvisabilità dei caratteri tipici di una sostanziale accettazione di un mandato criminoso e di tacita disponibilità operativa, non può essere sottaciuto che, a prescindere dalla condotta esecutiva posta in essere nei giorni successivi, già quella presenza appare sufficiente ad integrare gli estremi di una delle forme in cui può concretamente atteggiarsi il concorso morale, soprattutto quando, come nel caso di specie, il recepimento concerna disposizioni impartite da chi occupi una posizione di supremazia all’interno di una organizzazione rigidamente gerarchizzata come “cosa nostra” e per, di più, sia anche rivestito dell’autorità che deriva dal ruolo di padre all’interno della famiglia di sangue. L’etica dell’ordine e dell’obbedienza all’interno della famiglia mafiosa, come è noto, è caratterizzata dalla sottomissione dei figli maschi al capo famiglia.
Ed invero, nessuno può seriamente mettere in dubbio che all’interno della famiglia di sangue mafiosa i figli vengono educati ad interiorizzare l’obbedienza come valore supremo ed a rinunciare alla propria autonomia di giudizio sul valore o disvalore degli ordini impartiti; ciò che costituisce l’humus su cui innestare una cultura mafiosa, favorendone la trasmissione dei “valori” che ne costituiscono la struttura portante, vale a dire l’obbedienza, l’omertà, la sopportazione, la fedeltà, il familismo amorale, l’autoritarismo, il verticismo.
Tanto premesso, va osservato che in tema di concorso di persone nel reato, ricorre il concorso morale tutte le volte che il ruolo di un soggetto diverso da quello il quale curerà materialmente l’esecuzione del reato, si profili nella fase preparatoria ed ideativa del reato, rafforzando nell’altro il proposito ed il disegno criminoso, indicando i mezzi per portarlo a compimento ovvero assicurando l’assistenza e l’aiuto prima e dopo la sua consumazione.
In tali casi il giudice deve indicare il rapporto di causalità efficiente tra l’attività incentivante del concorrente morale e quella posta in essere dall’autore materiale del reato.(cfr.Cass. Pen, Sez.III, 4/10/1983, n.7845, Ciriello).
La giurisprudenza assolutamente dominante ha altresì evidenziato che il concorso morale nel reato è ravvisabile non soltanto nel caso di preventivo accordo, ma anche in ogni ipotesi in cui la presenza del compartecipe sia diretta ad incoraggiare l’azione delittuosa e a dimostrare una volontà comune a quella dell’autore materiale, sicchè il proposito di quest’ultimo risulti agevolato o rafforzato dalla suddetta presenza. (Cass.Sez.II, 22/5/1982,n.5137).
Alla stregua di tali criteri autorevolmente elaborati dalla S.C., che ormai costituiscono jus receptum in dottrina ed in giurisprudenza, certamente dotato di rilevante causalità efficiente appare incontestabilmente l’apporto del Ganci Stefano nella fase preparatoria
Ma ciò che appare davvero decisivo è il rilievo che la presenza dell’imputato nel contesto spazio-temporale in cui venne definita l’attività assegnata al gruppo di cui lo stesso faceva parte, con la consapevolezza che quell’attività era univocamente funzionale alla consumazione di attentato in danno del dr.Chinnici, già di per sè certamente costituisce una adesione al programma delittuoso deliberato nelle sue linee essenziali ed ormai pervenuto alla fase esecutiva in attesa del solo momento propizio per renderlo concretamente operativo.
L’apporto eziologico, infatti, può atteggiarsi anche in termini di semplice utilità o di maggiore sicurezza rispetto al risultato finale, atteso che è sufficiente un qualsiasi contributo che favorisca o renda più probabile l’evento.
È appena il caso di rilevare, infatti, che anche la partecipazione dell’imputato a quella fase prodromica – peraltro molto importante nel quadro di quella distribuzione di compiti – nei giorni immediatamente precedenti alla strage, a prescindere dallo specifico ruolo concretamente svolto la mattina del 29/7/1983, ha certamente rafforzato la complessiva potenzialità operativa del gruppo di cui faceva parte.
Basti pensare che l’assenza del Ganci avrebbe reso necessaria una diversa composizione dei gruppi deputati allo svolgimento di quel ruolo.
Sotto tale profilo, dunque, al Ganci Stefano non potrebbe essere riconosciuta neppure la configurabilità dell’attenuante della minima partecipazione, la quale può essere concessa solo allorquando l’importanza causale dell’attività di uno dei correi sia stata oggettivamente e soggettivamente minima.
[…] Alla stregua delle considerazioni che precedono risulta evidente che il quadro probatorio emergente dal complesso degli elementi processualmente acquisiti consente di ravvisare anche nella condotta del Ganci Stefano un contributo penalmente rilevante alla verificazione dei fatti-reato materialmente posti in essere da altri affiliati allo stessa organizzazione; condotta certamente sorretta dalla volontà e dalla consapevolezza di contribuire con il proprio operato alla realizzazione comune e dalla conoscenza o rappresentazione dell’azione altrui.
Va infine ricordato che Ganci Stefano era stato ritualmente combinato già alla fine del 1982, come riferito dal fratello Calogero (tra la fine dell’82 e l’inizio dell’83, secondo i ricordi dell’Anzelmo) e quindi prima ancora della strage. Egli aveva già commesso omicidi e nel tempo il suo prestigio era aumentato tanto che dopo l’arresto dei suoi familiari, per volere del padre, resse il mandamento della Noce.