Il depistaggio 28 anni dopo: tutto quello che ancora non è chiaro. Due giorni fa la richiesta dell’ergastolo per Messina Denaro, accusato di essere tra i mandanti. Ma sulle responsabilità di chi ha allontanato la verità e dato credito a Scarantino ancora troppi buchi
L’ultima traccia è datata 3 luglio 2020. Mette in risalto un’altra anomalia. L’ennesima, perché di anomalie il percorso che ha portato a capire chi avesse organizzato la strage di via D’Amelio è costellato. Caltanissetta, processo a Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i tre poliziotti imputati per calunnia aggravata per aver depistato le indagini sull’attentato nel quale il 19 luglio 1992 morirono il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Prende la parola in aula Francesco Papa, colonnello della Direzione investigativa antimafia. È stato chiamato ad analizzare delle stranezze nelle registrazioni delle conversazioni di Vincenzo Scarantino, il falso pentito che si autoaccusò di aver commissionato il furto dell’auto che servì per realizzare l’attentato e, con una ricostruzione non veritiera, portò all’arresto di varie persone estranee ai fatti. I magistrati, ai tempi, avevano deciso di controllare il suo telefono. Ma il registratore non sempre ha funzionato. Ci sono state delle interruzioni, nel 1995, mai spiegate bene. Tra le varie versioni, nelle migliaia di pagine di atti, compare la possibilità che fosse stata data disposizione di spegnere quel registratore quando il collaboratore parlasse con i pm. Circostanza, questa, smentita dai diretti interessati. Anche nel corso delle indagini della procura di Messina che ha di recente chiesto l’archiviazione dell’inchiesta nei confronti di pm Anna Palma e Carmelo Petralia, ai tempi incaricati di svolgere le indagini su via D’Amelio a Caltanissetta. Per quanto una risposta univoca su queste interruzioni non sia stata data, restano dei punti interrogativi che lasciano pensare che gli stop non fossero dettati da un guasto tecnico.
In questo senso vanno le parole di Papa: “Venticinque anni dopo – ha risposto al pm Gabriele Paci – abbiamo riprodotto quello che rilevavano a quell’epoca gli operatori di polizia giudiziaria”. Dall’analisi è emerso uno scontrino strappato (come a voler far sparire una traccia) e intercettazioni che non sono state registrate. “Il 6 marzo del 1995 – ha raccontato – l’operatore scrive causa mancanza energia elettrica apparato spento fino alle ore 15.11. all’ascolto dei nastri però non c’è nulla che ci possa far pensare che ci sia stato un guasto tecnico. Il brogliaccio è vuoto per 4 giorni. La cosa che ci colpisce è che entrambe le macchine non abbiano registrato nulla”. Nel dettaglio: “L′1 giugno Scarantino cerca di mettersi più volte in contatto con uno dei numeri della procura di Caltanissetta: sei eventi telefonici in tutto tra le 17.03 e le 18.23, tutti da un minuto, tranne uno che dura 2 minuti. Abbiamo traccia di queste telefonate ma non ci sono registrazioni. L’audio non esiste. L’ ultimo evento il 5 giugno. Anche in questo caso abbiamo una serie di chiamate nei confronti del numero della Procura di Caltanissetta e un altro numero sempre in uso alla Procura dove anche per questi abbiamo una serie di tentativi di chiamate tutti da un minuto, uno di questi ha una durata di 9 minuti. Anche di questa telefonata non abbiamo traccia sulle due bobine ma abbiamo traccia sullo scontrino e anche sul display. In questo caso – ha concluso – l’operatore aveva scritto che per guasto tecnico l’Rt veniva riprogrammato”. Cosa sia successo, e perché, non è dato saperlo. Resta un buco di una decina di minuti, in cui Scarantino parlava con i magistrati di Caltanissetta.
Un episodio emblematico di una storia piena di interrogativi, ma solo la punta dell’iceberg. Guardando a ritroso – carte alla mano – questi 28 anni emergono, una dopo l’altra, imprecisioni, omissioni, versioni discordanti di passaggi delle indagini.
Una parte della verità alla fine è stata scritta e suggellata nel 2017, quando la sentenza del processo Borsellino quater ha accertato i – veri – responsabili della strage e condannato all’ergastolo Salvatore Madonia e Vittorio Tutino. Sui mandanti restano ancora dei nervi scoperti e proprio due giorni fa, il 17 luglio, il pm Gabriele Paci ha chiesto l’ergastolo per Matteo Messina Denaro. Nella requisitoria ha detto che il latitante “non può aver prestato consenso con riserva (alle stragi del 92, ndr). Fu lui più di tutti l’uomo che aiutò Riina a stroncare sul nascere le voci del dissenso interno”. In sostanza creò nell’ambiente di Cosa Nostra quel consenso di cui il Capo dei Capi aveva bisogno per uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Ma più di ciò che è stato accertato, pesa ciò che resta ancora avvolto dal mistero. Non è un caso se la già citata sentenza del Borsellino quater definisce quello che è successo dopo la strage di via D’Amelio come “il più grande depistaggio della storia d’Italia”. Il riferimento è ai lunghi anni in cui ha retto, in procura prima e in giudizio poi, una falsa verità. Quella raccontata da Vincenzo Scarantino, ritenuto attendibile nonostante la sua ricostruzione facesse acqua da tutte le parti. Nonostante, si leggerà poi nella sentenza di revisione della condanna dei soggetti ingiustamente accusati, stesse “sceneggiando un film”. Ma alla falsità delle sue ricostruzioni si intrecciano le anomalie del procedimento che ha portato alla condanna di sette innocenti.
Gli esempi sono tanti. Alcuni più eclatanti di altri. Scarantino – rivelatosi non un mafioso di prim’ordine come sosteneva, ma un piccolo delinquente, con un cognato affiliato a Cosa Nostra – parlò di una riunione in cui la mafia aveva deciso di uccidere Borsellino. Rivelò una località e fece dei nomi. Tre di questi erano di collaboratori di giustizia: Santino Di Matteo, Gioacchino La Barbera e Salvatore Cancemi. Questi lo smentirono in toto, e dissero che il ‘picciotto della Guadagna’ non era affiliato a Cosa nostra. “Ripete una lezione che ha imparato”, è il commento di uno di loro. Ma i verbali del confronto non furono presentati in dibattimento. I pm Palma e Petralia furono sentiti come teste nel processo Borsellino quater anche su questo. La prima disse che quei confronti non cambiavano nulla per loro. Il secondo che non andavano depositati perché c’era anche un altro giudizio in corso. Ma non basta. Scarantino questi personaggi probabilmente neanche li conosceva. Quando gli fu chiesto di identificarli attraverso le foto, non ci riuscì. E questo elemento non fu tenuto in considerazione da chi avrebbe dovuto, ma lasciò perplessa Ilde Boccassini, all’epoca nel pool di Caltanissetta. Prima di andarsene scrisse con il collega Roberto Sajeva una lettera in cui palesava le sue riserve nei confronti di quello che si è poi rivelato un falso pentito. Che fine fece questo documento? Leggendo le carte dei pm di Messina che hanno chiesto l’archiviazione per i pm Palma e Petralia emergono versioni non univoche e tanti vuoti di memoria. Di chi, tra i magistrati, avrebbe dovuto riceverla.
Ma non è tutto. Dai vari atti risulta che a Scarantino in carcere arrivassero dei verbali con delle note a margine. Glieli aveva consegnati Fabrizio Mattei, uno dei poliziotti imputati per il depistaggio. Quegli appunti non erano scritti dal falso pentito. Il sospetto è che fossero dei suggerimenti scritti dalla polizia, in modo che l’imputato-testimone chiave imparasse a memoria una storia che non conosceva. Se i poliziotti – viene riportato nella relazione della commissione antimafia dell’Ars – dicono che quelli erano appunti scritti da loro sotto dettatura del pentito, Scarantino durante il giudizio quater a Caltanissetta arriva a dire che a mandargli quei fogli fosse stata la pm Palma. Ma questa versione viene cambiata da lui stesso davanti ai magistrati di Messina. Anche su questo punto restano opacità. Le stesse che rimangono sull’inesistenza (almeno all’interno degli atti processuali) del verbale del sopralluogo che Scarantino fece – solo con la polizia – all’officina dove sosteneva fosse stata preparata l’autobomba per via D’Amelio. Nel dibattimento del processo quater fu chiesto ad Anna Palma il perché. Risposta: “Non li avevo nei fascicoli e quindi non avevo modo di approfondire… Non mi sono posta assolutamente il problema, devo dire forse sarò stata ignorante”.
Resta poi inspiegata un’altra circostanza: dopo il pentimento di Scarantino, nel luglio 1995 nel giro di pochissimi giorni la procura di Caltanissetta autorizzò dieci colloqui tra lui e la polizia. All’epoca non era vietato, ma a chi ha indagato dopo sembrò strano. Anche in questo caso i magistrati che firmarono l’autorizzazione all’incontro non hanno dato risposte precise.
Scarantino ritrattò due volte, ma per due volte la cosa non fu tenuta in considerazione. La svolta arrivò solo nel 2008 con il pentimento di Gaspare Spatuzza che si autoaccusò del furto della Fiat 126, scagionando gli altri. Ma se un capitolo si è chiuso, altri ne restano aperti. Chi furono i responsabili del depistaggio? Lo chiede da tempo anche la figlia minore del magistrato, Fiammetta. E con lei la famiglia. Da Caltanissetta, prima o poi, arriverà il giudizio sui tre poliziotti. Il loro capo, Arnaldo La Barbera, ebbe un ruolo cruciale in quella che è stata definita la “gestione” del (falso) collaboratore di giustizia, ma è morto e non potrà più spiegare nulla. Così come è morto il procuratore capo del tempo, Giovanni Tinebra. Da Messina, invece, dove si indagava sui magistrati, c’è il rischio che non arrivi nulla. La procura ha chiesto l’archiviazione e il gip a ottobre dovrà decidere il da farsi, anche alla luce dell’opposizione, proposta dalle vittime del depistaggio.
Restano intanto, le parole dell’avvocato Fabio Trizzino, marito dell’altra figlia del giudice, Lucia, e legale di parte civile nel processo contro Messina Denaro. Fanno riferimento a quei 57 giorni che separano la morte di Falcone a quella di Borsellino. In quei quasi due mesi, dice Trizzino, il magistrato “implorava di essere ascoltato e non si trovò il tempo”. Anche su questo punto dalla procura di Caltanissetta – che avrebbe dovuto ascoltarlo sulla strage di Capaci – sono sempre arrivate risposte non particolarmente precise né convincenti.
Federica Olivo HUFFPOST 19.7.2020