di Lucio Musolino
“Un vasto e articolato disegno di destabilizzazione del Paese da attuarsi (anche) con modalità di tipo terroristico”. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza “’Ndrangheta stragista”, con la quale la Corte d’Assise il 24 luglio scorso ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il calabrese Rocco Santo Filippone, c’è una sola certezza per la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria: le indagini continuano e presto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo porrebbe arrivare a quella che, nella sua requisitoria, ha definito “la completa identificazione di tutti i soggetti che concepirono l’attacco terroristico allo Stato”. Identificazione che “dovrà e potrà essere svolta in successivi approfondimenti investigativi”.
Parole che pesano come un macigno sulla testa di chi potrebbe a breve avere un volto nonostante siano trascorsi quasi trent’anni da quelle “stragi continentali” che hanno insanguinato il Paese. L’elenco delle bombe lo ha fatto il collaboratore Gaspare Spatuzza nel corso dell’udienza del 16 marzo 2018 quando, rispondendo alle domande del pm, ha ricordato che nel 1993 aveva preso “l’impegno di recuperare l’esplosivo”: “Sono stato coinvolto purtroppo in tutte le stragi, da Capaci… via D’Amelio, la strage di via Fauro, Firenze, le stragi di Roma, San Giovanni Laterano e San Giorgio a Velabro… e il fallito attentato all’Olimpico, e l’attentato quello di Milano”.
La sensazione è che sulla scrivania del magistrato reggino ci siano diversi fascicoli che riguardano non solo alcuni boss della ‘Ndrangheta e quella componente mafiosa che, pur essendo stata più volte richiamata durante il processo a carico di Graviano e Filippone, non sono finiti alla sbarra. Per ora. Sempre nella requisitoria, il procuratore Lombardo parla di “altri soggetti ancora” che “diedero un contributo al concepimento ed alla pratica attuazione del disegno di destabilizzazione del Paese”.
Leggendo gli atti di “Ndrangheta stragista” è facile capire di chi si tratta. Se sul fronte mafioso, all’appello mancano i nomi De Stefano e Mancuso (espliciti nella ricostruzione fatta dalla Dda), chi siano gli “altri soggetti ancora” è facile intuirlo rileggendo i verbali e le dichiarazioni in aula dei numerosi collaboratori di giustizia e testimoni che hanno sfilato davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria: politici, pezzi deviati delle istituzioni, soggetti legati agli apparati di sicurezza e massoni riconducibili agli ambienti della P2 di Licio Gelli.
Tutte categorie che potrebbero essere sostituite da nomi e cognomi importanti quando si concluderanno le indagini della Procura di Reggio Calabria coordinate da Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo.
Ma andiamo con ordine. Siamo all’inizio degli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, con il Pds di Achille Occhetto che aveva vinto le amministrative dell’ottobre 1993 e il rischio comunista alle porte. Come se non bastasse la Democrazia cristiana si stava sgretolando e, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, non era più in grado di dare garanzie ai boss di Cosa nostra. È questo il periodo, a cavallo tra il 1993 e il 1994, in cui si incastra il racconto di Gaspare Spatuzza che ai pm di Reggio Calabria ricorda l’incontro avuto con Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto a Roma.
I carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofolalo sono stati già uccisi in Calabria, ma nel disegno criminale di Graviano manca il famoso “colpo di grazia”. “Siamo entrati in questo bar, all’interno ci siamo seduti nei tavolini. – dice Spatuzza – Abbiamo fatto il punto della situazione, gli ho illustrato tutta quella che era stata già programmata la fase esecutiva”.
Spatuzza si riferisce al fallito attentato all’Olimpico dove in via dei Gladiatori, se fosse esplosa la Lancia Thema carica di esplosivo, sarebbero morti una cinquantina di carabinieri. Pochi giorni prima il futuro collaboratore di giustizia rassicura il boss di Brancaccio: “Eravamo già operativi. E lui, in quella circostanza, mi aveva detto che era felice effettivamente, che avevamo chiuso tutto, e avevamo portato a buon fine tutto quello che noi speravamo. Quindi, a quel punto, che suscitava questa emozione indescrivibile, mi disse che, grazie a questo che… quello che noi avevamo ottenuto, grazie alle persone serie che avevano gestito questa cosa, e mi cita Berlusconi, che a tal punto io venni a dire: ‘Ma se era quello del Canale 5?’. E mi ha detto che era lui. E che era nel mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri. Cioè, il discorso era che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che noi cercavamo”.
Sul piatto c’erano le richieste di Cosa nostra alla politica di cui i boss avevano già discusso in Sicilia. I discorsi fatti al bar Doney, infatti, sono “un seguito di quello che avvenne lì a Campo Felice… c’era in piedi una cosa, e se andava a buon fine, ne avremo tutti dei benefici, a partire dai carcerati”. Ed è a questo punto che Spatuzza, stando al suo racconto, sente il boss di Brancaccio pronunciare la frase “Abbiamo il Paese nelle mani”: “Avevamo chiuso tutto. Graviano insisteva per consumare l’attentato dell’Olimpico… perché con quello gli dovevamo dare il colpo di grazia”.
Dopo l’incontro al Bar Doney, distante un centinaio di metri dall’hotel Majestic dove era solito alloggiare Marcello Dell’Utri e dove proprio in quei giorni, il 26 gennaio, sarebbe nato il partito di Forza Italia, Spatuzza e “Madre Natura” salgono in auto per andare a Torvaianica: “Lui insiste nel portare avanti quell’attentato contro i carabinieri, perché i calabresi si erano mossi, che erano… si erano mossi con i carabinieri. Infatti, non so se il giorno prima o i giorni successivi, io ho saputo che effettivamente erano stati uccisi due carabinieri in Calabria… La sostanza di quelle poche parole, è questa: cioè, la finalità dell’attentato (quello fallito all’Olimpico, ndr) era di spingere a qualcuno, che si doveva muovere”.
Stragi, quindi, che non dovevano solo intimidire, mettere paura a uno Stato attraverso la sempre utilizzata “strategia della tensione”. Erano bombe e morti che, per dirla con l’avvocato ed ex pm di Palermo Antonio Ingroia, servivano a “convincere un amico, con cui si stava parlando, a fare qualche cosa”. “È esatto?”. “Sì, sollecitare. – risponde Spatuzza – Chi si deve muovere, si dà una smossa. Quindi, ed è un… fare terra bruciata… sì, è un po’ fare terra bruciata al soggetto, o ai soggetti, che avevano preso degli impegni, o che stavano portando avanti delle cose, ma un po’ si erano assonnacchiati”.
Le domande di Ingroia e soprattutto le risposte di Spatuzza non lasciano adito a dubbi su chi sarebbero stati i politici “assonnecchiati” con i quali Graviano aveva “chiuso tutto”: “‘Quello che cercavamo’, questo lo avevate ottenuto tramite quelle due persone, che lei ha già indicato alla scorsa udienza?”. “Si. Si”. “Berlusconi e Dell’Utri. E Graviano si spinse sino a dirle: ‘Abbiamo il paese nelle mani’?”. “‘Il paese nelle mani’, sì, sì”.
“Dell’Utri diciamo che si legge Berlusconi”. Il copyright è del pentito Giuseppe Di Giacomo interrogato anche lui nel processo “’Ndrangheta stragista” il 12 giugno scorso. È lui che, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Lombardo, conferma che “c’è una correlazione tra la cessazione delle stragi e gli impegni che erano stati assunti”.
Di impegni che la politica avrebbe assunto con la mafia, ne parla anche il collaboratore Pasquale Di Filippo la cui deposizione è finita nella memoria del pm consegnata al termine della requisitoria alla presidente della Corte d’Assise Ornella Pastore. “Berlusconi ha fatto un patto con Cosa nostra. È un patto: ‘Noi ti facciamo salire’. Il patto è questo: ‘Noi ti facciamo salire però tu ci devi aiutare’. E non è un patto questo? Cos’è?”. Stando al suo racconto, dopo la vittoria di Berlusconi alle politiche del 1994, il pentito Di Filippo ne aveva discusso con Leoluca Bagarella con il quale si era lamentato di Forza Italia: “Bagarella non mi ha parlato di patto. Io gliel’ho detto a lui, gli ho detto: ‘Scusa, noi lo abbiamo votato, lui doveva mantenere delle cose, e non le ha mantenute. Per quale motivo?’. Bagarella mi dice: ‘Per ora non può fare niente, perché ci sono altri politici che lo stanno osservando, ma comunque, appena ci può aiutare, ci aiuta”.
A proposito di aiuti, i voti della mafia per le politiche del 1994 non sarebbero stati l’unico favore che Cosa nostra avrebbe fatto nell’interesse di Silvio Berlusconi. Lo dice il pentito calabrese Antonino Fiume, un tempo killer degli arcoti ma soprattutto ex genero del boss Giuseppe De Stefano, figlio del mammasantissima don Paolino De Stefano ucciso all’inizio della seconda guerra di mafia che insanguinò Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991.
Era la stagione dei sequestri di persona. Le vittime, rapite dalla ‘Ndrangheta nel nord Italia, venivano portate in Calabria. Solo alcune venivano rilasciate dopo riscatti miliardari mentre altre sparivano nel nulla, inghiottite dall’Aspromonte.
All’epoca i sequestri erano il core business delle cosche della Locride ma sul fenomeno aveva voce in capitolo anche la ‘Ndrangheta reggina, quella dei De Stefano che il giornalista Luigi Malafarina già negli anni ottanta definì “i mafiosi dalle scarpe lucide”. Morto don Paolino, il boss divenne il figlio Giuseppe De Stefano sempre affiancato da Nino Fiume che, nell’udienza del 6 giugno 2019, ricorda quando “Cosa nostra mandò a dire una imbasciata urgente, di non toccare il figlio di Berlusconi”.
“L’ambasciata – dice – arrivò ad Africo, e io ero con Peppe Morabito e Peppe De Stefano e ‘Ntoni Papalia, e questa era una imbasciata che arrivava là, però ero presente e le sapevo queste cose qui. I palermitani erano andati ad Africo, e Peppe Morabito il ‘Tiradritto’ si era assunto la responsabilità, perché i palermitani, questi dicevano che gli fate i regali e di non sequestrarlo, perché era un periodo che i sequestri… Antonio Papalia aveva passato per novità questo discorso, che il figlio di Berlusconi non si doveva toccare”.
In realtà, in quel momento, la ‘Ndrangheta non stava progettando alcun sequestro del figlio di Berlusconi: “Loro temevano – spiega infatti Fiume – I palermitani erano andati da Peppe Morabito. Peppe Morabito si era preso questa responsabilità…lui ci aveva spiegato questa situazione, di questa raccomandazione di non toccarlo. Fatto sta che poi avevano trovato la soluzione, e non l’hanno toccato. Era una cosa che interessava a Palermo, era una cosa proprio che era partita da là, questo è sicuro”. IL FATTO QUOTIDIANO 12.8.2020