L’ho sciolto nell’acido

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AVEVA 13 ANNI, DOPO 775 GIORNI DI PRIGIONIA L’HO STRANGOLATO E SCIOLTO NELL’ACIDO
 

Rapimento e omicidio del piccolo  Giuseppe Di Matteo 

Il 23 novembre 1993 venne rapito Giuseppe di Matteo, figlio del collaborante Santino. Il 28 Luglio 1998 Vincenzo Chiodo raccontò in aula, durante il processo Bagarella, l’esecuzione dell’omicidio. Un racconto dell’orrore. Il 15 luglio 2002 la Corte di Cassazione confermò la sentenza di primo grado che condannò esecutori e mandanti.


“Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ (…) il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. ‘Sto morendo’, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi. (…) io ho spogliato il bambino (…) abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. (…) io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire”.

(confessione di Vincenzo Chiodo, uomo di fiducia di Brusca e Bagarella, tratta da Atti del processo del libro “Al posto sbagliato, Storie di bambini vittime di mafia“).

VINCENZO CHIODO Ufficialmente meccanico di professione, nel 1987 riceve il «battesimo del fuoco» e diventa uomo d’onore della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato. Appartenente all’ala militare di Cosa nostra, è uomo di fiducia di Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. Chiodo è noto per essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, unico delitto mafioso commesso. Viene arrestato nel febbraio 1996 e inizia a collaborare con la giustizia; le sue dichiarazioni portano all’arresto di numerosi mafiosi. Condannato in via definitiva a 17 anni di carcere per l’omicidio del bambino, nel 2007 gli sono stati concessi gli arresti domiciliari; attualmente vive in una località segreta.



Dal VERBALE di Vincenzo Chiodo all’udienza del 28 luglio 1998 ha raccontato le fasi della uccisione del bambino, soppresso la sera dell’11 gennaio 1996.

Già nelle sere precedenti era stata avvertito da Francesco La Rosa di recarsi in campagna, perchè doveva arrivare Enzo Salvatore Brusca. Aveva a lungo atteso in una diversa strada, giacchè – come aveva fatto sapere al Brusca tramite il La Rosa medesimo – la via maestra non era transitabile a causa delle piogge e doveva seguirsi altro percorso. La prima sera lo stesso La Rosa lo aveva informato che Brusca non sarebbe venuto e che l’appuntamento era rinviato all’indomani. Lo stesso era avvenuto il giorno seguente, allorchè aveva atteso invano dalle ore 19 sino alle ore 22 o 23. La Rosa non gli aveva spiegato le ragione della venuta del Brusca. La terza sera, infine, il medesimo La Rosa lo aveva ancora una volta avvertito che l’incontro ci sarebbe stato; gli aveva anzi detto di preparare della carne per la cena. Aveva invitato il suo interlocutore a rimanere in loro compagnia, ma questi, all’apparenza terrorizzato, aveva declinato l’invito, dicendogli: “No no, me ne vado, sono fatti vostri, fatti vostri e fatti vostri”.

Tale comportamento gli era sembrato alquanto strano, anche perchè il La Rosa di solito aveva sempre accettato di buon grado l’invito.

In controesame all’udienza del 29.7.98 Chiodo ha ribadito che aveva atteso la venuta di Enzo Brusca in quel di Giambascio almeno un paio di giorni prima. Erano stati Monticciolo Giuseppe e La Rosa Francesco ad avvertirlo che doveva sopraggiungere il Brusca; era impossibile che avessero potuto prenderlo in giro, perchè su queste cose non si era mai scherzato.

Dopo che il piccolo Di Matteo era rimasto definitivamente a Giambascio, il Brusca Enzo Salvatore non aveva piu` frequentato quella casa; era venuto soltanto il giorno in cui era stato strangolato l’ostaggio. Doveva arrivare due giorni prima, ma Chiodo sconosceva se doveva rimanere lì o se per il bambino; nessuno gli aveva detto alcunchè, in quanto gli era stato ordinato soltanto di comprare della carne e quel che potesse servire per la cena e di attendere nella casa.

Enzo Salvatore Brusca era arrivato verso le ore 21 a bordo di una Fiat Uno pilotata da altra persona che Chiodo, nascosto tra i cespugli a fumare una sigaretta, non aveva riconosciuto. Era sceso dalla macchina, aveva saluto il suo accompagnatore, che era andato subito via, ed era andato incontro al collaborante che frattanto era uscito allo scoperto.

Enzo Brusca lo aveva messo sottobraccio e gli aveva detto “figliolo, andiamo !”, ritenendo che fossero a piedi. Chiodo aveva prelevato la macchina che aveva in precedenza nascosto ed insieme avevano raggiunto la casa di Giambascio. Appena davanti al cancello, Brusca gli aveva chiesto del bambino, che non aveva più rivisto sin da quando era stato portato a Giambascio. Il collaborante lo aveva rassicurato che stava bene e che quel giorno aveva mangiato delle uova che il ragazzo stesso aveva cucinato, avendo a disposizione un fornellino. Aveva manifestato contemporaneamente il desiderio di vederlo ed, avendogli egli fatto presente che aveva lasciato nella sua abitazione in paese il telecomando per azionare il saliscendi e le chiavi per aprire la porta di ferro, aveva detto di soprassedere sino all’arrivo di Giuseppe Monticciolo. Chiodo aveva così appreso che doveva sopraggiungere pure quest’ultimo.

Costui era arrivato poco dopo ed aveva esplicitamente comunicato che si doveva uccidere il bambino, senza specificare chi ne avesse impartito l’ordine; aveva contemporaneamente chiesto a Vincenzo Chiodo – il quale aveva già intuito la terribile sorte che stava per toccare all’ostaggio attraverso l’eccessivo interessamento dimostrato dal Brusca verso il ragazzo – se se la sentisse di farlo.

Enzo Brusca aveva mostrato una certa riluttanza e, nel vano tentativo di soprassedere, aveva fatto presente che Chiodo non aveva con sè il telecomando e che oltre tutto occorreva prelevare l’acido presso tal “Funcidda” per dissolvere il corpo, la nafta per attivare il generatore di corrente elettrico ed altro.

Quando Monticciolo aveva, dunque, comunicato quella sera la suprema decisione, dopo che Enzo Brusca, avanzando difficoltà organizzative, aveva proposto che la macabra operazione fosse rinviata all’indomani e dopo che era prevalsa la linea oltranzista del Monticciolo medesimo, si erano un po’ consultati per distribuire a ciascuno il proprio compito, essendovi parecchia indecisione su chi dovesse materialmente uccidere il bambino. Monticciolo proponeva, infatti, che fosse il Chiodo o il Brusca ad agire, dicendo: “lo fai tu, lo faccio io”; Enzo Brusca in apparenza manifestava la volontà che il Chiodo ne fosse tenuto fuori, ma in concreto voleva verificare se il collaborante si facesse avanti.

Ad ogni buon conto, avevano organizzato le operazioni preliminari: Monticciolo si era allontanato adducendo che si recava a prendere l’acido presso tale “Funcidda”, che il collaborante sconosceva; Chiodo si era recato in paese per prendere nella sua officina un fusto in lamiera, uno scalpello e un mazzuolo per scoperchiare il fusto. Si era poi ricordato che un recipiente siffatto era custodito a Giambascio, sicchè si era limitato a prelevare un bruciatore a gas, lo scalpello, il mazzuolo, il telecomando, le chiavi e ad acquistare presso il distributore di carburante la nafta.

Munito dell’occorrente necessario, il collaborante era ritornato in campagna e poco dopo era tornato pure Giuseppe Monticciolo, portando due fustini di plastica di circa venti litri pieni di acido; aveva, quindi, prelevato da un capanno uno dei fusti utilizzati per conservare la nafta, lo aveva portato dentro casa e con scalpello e martello aveva provveduto a scoperchiare il fusto, cercando di fare il minor rumore possibile.

Compiuta tale operazione, tutti e tre insieme avevano portato giù nel bunker il fusto appena tagliato e i due fustini di acido, depositandoli davanti la porta della cella dell’ostaggio. Monticciolo aveva contemporaneamente riferito al Chiodo che doveva far scrivere al bambino una lettera, nella quale egli comunicava al nonno che era stato abbandonato da tutti, che aveva tentato il suicidio impiccandosi con le lenzuola, ma che era stata salvato. Insieme – Monticciolo e Chiodo – ne avevano poi indicato il testo al bambino, invitandolo a preparare la missiva che avrebbero ritirato dopo.

Erano risaliti nel piano superiore, uscendo fuori, e avevano cenato nella cucina sottostante, mangiando carne arrostita in padella, preparata dal Chiodo. Dopo cena, che si era svolta in un clima del tutto tranquillo, il collaborante aveva tagliato un pezzo di corda da una fune che si trovava all’esterno ed Enzo Brusca l’aveva annodata per formare il cappio.

Erano ridiscesi nel bunker; Chiodo si era fatto consegnare la lettera, ritirandola dalla mani del ragazzo senza fare uso di guanti (tanto da essere stato rimproverato dal Monticciolo per il fatto che avrebbe potuto lasciare pericolose impronte digitali); si erano infine apprestati a compiere la macabra operazione dello strangolamento.

Chiodo, nonostante che Enzo Brusca avesse prima manifestato il suo dissenso a che egli intervenisse, si era fatto avanti in omaggio alla regola che più volte gli aveva ripetuto lo stesso Brusca: “Mai tirarsi indietro su qualsiasi eventuale occasione”. Era del tutto tranquillo, non lo impensieriva minimamente il fatto che dovesse uccidere un bambino: “… il dovere era piu` forte di questo, cioe` perche’ li` non e` che uno poteva rifiutare al momento questo, perche’ poteva succedere diciamo il peggio”. In quel momento non aveva neppure pensato ai suoi figli; se ne era vergognato di fronte a loro quando aveva fatto la sua scelta di collaborare.

Era la prima volta che uccideva una persona; in precedenza aveva collaborato con i medesimi soggetti e con l’aggiunta di Romualdo Agrigento all’occultamento di cadaveri.

Sempre in controesame, Chiodo ha aggiunto che, quando si doveva strangolare il bambino, sia il Monticciolo che Enzo Brusca gli avevano detto: “Va beh, lo fai appoggiare li` al muro, gli metti la corda al collo, la tiri che poi noi ti aiutiamo”. In effetti Chiodo – così come gli era stato ordinato – aveva fatto appoggiare il bambino al muro con le braccia alzate, gli aveva messo la corda al collo, l’aveva tirata ed erano intervenuti gli altri. In pochi attimi il piccolo era rimasto soffocato.

Il collaborante, quasi con aria di compiacimento, ha spiegato in dettaglio tutte le operazioni compiute; aveva aperto la porta; il ragazzo stava in piedi vicino al letto ed ha così proseguito il suo racconto:

“Si, allora gia` eravamo nella stanza, io ho aperto la porta…, ho fatto pure fatica ad aprire la porta perche’ era quasi arrugginita, perche’ giu` c’era molta umidita`…, c’era sempre la condensa del corpo che stava chiuso senza avere un’aria … come in altre case. Allora io ho detto al bambino – io ero ancora incappucciato – ho detto al bambino di mettersi in un angolo cioe` vicino al letto, quasi ai piedi del letto, in un angolo con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io gli ho detto, si e` messo di fronte il muro, diciamo, a faccia al muro. Io ci sono andato da dietro, ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si e` messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si e` messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino giu` e Monticciolo si stava avviando per tenere le gambe, gli dice “mi dispiace”, rivolto al bambino, “tuo papa` ha fatto il cornuto”. Nello stesso momento o subito dopo Enzo Brusca dice “ti dovevo guardare meglio degli occhi miei”, dice, “eppure chi lo doveva dire?”, queste sono state le parole diciamo al bambino.

Io mi ricordo il bambino, cioe` me lo ricordo quasi giornalmente la faccia, diciamo, mi ricordo sempre, ce l’ho sempre davanti agli occhi. …Il bambino non ha capito niente, perche’ non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era.. come voglio dire, non aveva la reazione piu` di un bambino, sembrava molle, … anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente.. non lo so, mancanza di liberta`, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro…, cioe` questo, il bambino penso che non ha capito niente, neanche lui ha capito, dice: sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo quello e poi non si e` mosso piu`, solo gli occhi, cioe` girava gli occhi … A me poi mi sono cominciate tremare le gambe ed io ho lasciato il posto a Monticciolo, che lui mi ha detto di andare anche sopra, dopo che pero` il bambino penso che gia` era morto perche’ si vedeva che gia` gli occhi proprio al di fuori… vedevo la bava che gli usciva tutta dalla bocca. Ed io sono uscito, nell’attimo che stavo andando sopra a vedere se c’era movimento strano … e ho visto il Monticciolo che tirava forte la corda e con il piede batteva forte nella corda per potere stringere ancora il cappio, nella corda… Ho preso un pochettino d’aria, sono risceso e ho detto a Monticciolo “dammi di nuovo a me la corda” e il Monticciolo dice “va beh, lascia stare”, finche` poi il bambino gia` era morto. Enzo Brusca ogni tanto si appoggiava al petto del bambino per sentire i battiti del cuore, quando ha visto che il bambino gia` era morto mi ha ordinato Enzo Brusca a me “spoglialo”. Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire, diciamo, o e` un fatto naturale perche’ e` gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio al polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio, l’uno, cosi`, e l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. Andando sopra abbiamo lasciato il tappo del tunnel socchiuso per fare uscire il vapore dell’acido che usciva… Quando siamo saliti sopra Enzo Brusca e Monticciolo mi hanno baciato, dicendo che mi ero comportato.. come se mi avessero fatto gli auguri di Natale o chissa`…., complimentandosi per come mi ero comportato… Siamo entrati dentro la casa dove avevamo cenato prima, cosi`, eravamo li`, abbiamo fumato una sigaretta, si parlava cosi`. Poi dopo un po’ Enzo Brusca mi dice “vai sopra, vai a guardare che cosa c’e`, se funziona l’acido, se va bene o meno”.

In quel momento non aveva avvertito emozioni di sorta: “Io ero un soldato, io eseguivo.. io ho condiviso sempre le scelte di Brusca e le scelte degli altri, io mi sento responsabile, io non voglio.. cioe` non voglio incolpare altri e discolpare la mia persona, io mi sento responsabile come e` responsabile Brusca e tutti, io mi sento responsabile diciamo, anche se io posso dire che era meglio se non succedeva il discorso del bambino e non succedeva che io ero presente in quella situazione, cioe` questo, e non lo auguro a nessuno, diciamo, ne’ primo, ne’ chi ne ha fatto uno, ne’ chi ne ha fatto due, ne’ chi ne ha fatto tre, perche’ io non lo so se i miei figli mi possono a me perdonare. Prima il Presidente me lo diceva, io a volte non ho il coraggio di guardare i miei figli”. Ed ha proseguito: “Io ci sono andato giu`, sono andato a vedere li` e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perche’ io ho cercato di mescolare con un bastone e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba … e una parte.. pero` era un attimo perche’ sono andato.. uscito perche’ li` dentro la puzza dell’acido … era.. cioe` si soffocava li` dentro. Poi siamo andati tutti a letto a dormire, abbiamo dormito li`. Monticciolo mi ha detto che alle 5 lo dovevo chiamare perche’ lui se ne doveva andare; abbiamo dormito tutti e tre assieme nello stesso letto matrimoniale che avevamo nella stanza lì”.

Chiodo si era svegliato di buon mattino; aveva svegliato il Monticciolo che era andato via e si era recato a svuotare il fusto, rifiutando l’intervento dell’Enzo Brusca che aveva offerto la sua collaborazione. Il corpo del povero ragazzo si era interamente liquefatto senza che nulla di solido fosse rimasto, salvo la corda che gli era rimasta messa al collo. Con una latta aveva prelevato quel liquido di colore scuro versandolo nei due bidoncini di plastica che prima contenevano l’acido, svuotandoli in aperta campagna.

Aveva riportato in superficie il fusto e il Brusca vedendo la corda che era rimasta aveva detto scherzando al Chiodo di tenerla per trofeo. Aveva bruciato il materasso dove dormiva l’ostaggio, i suoi indumenti e tutto quanto si apparteneva al bambino. Con un’ascia aveva fatto in mille pezzettini la rete, sulla quale era stata adagiato il materasso e che era stata ancorato al pavimento con i piedi annegati nel cemento (operazione che aveva in precedenza fatto il La Rosa, per evitare che il ragazzo l’alzasse e facesse rumore); aveva raccolto i pezzi, le coperte, la macchina fotografica in diversi sacchi della spazzatura che aveva distribuito in vari cassonetti. Avevano, quindi, ripulito tutto, mettendo una pietra sopra nella vicenda.

Ancora in controesame, Chiodo ha precisato che dopo che era stato sciolto il corpo del bambino, era rimasto integro il pezzo di corda adoperato per strangolarlo e se ne era meravigliato, facendolo notare al Brusca, il quale gli aveva detto: “L’acido niente ci fa alla corda, tienetila per trofeo!”, in quanto era il suo primo delitto. In effetti, aveva bruciato la corda assieme a tutti gli altri oggetti, compreso il materasso e il fusto metallico che era stato messo sul fuoco per togliere qualsiasi traccia dell’acido.

Enzo Brusca gli aveva detto che la scoperta della vicenda del sequestro avrebbe fatto più danno della strage di Capaci in due occasioni. Glielo aveva ripetuto dopo che Foma aveva lasciato l’incarico, incontrandolo nella contrada Parrini, dicendogli: “Apriti gli occhi, stai attento, tu lo sai a cosa si va incontro, la responsabilita` che ti ritrovi…La responsabilita` che ti ritrovi sai qual e`? Adesso basta solo pensare che prima erano tante persone che badavano a questo bambino, adesso ti ritrovi tu solo a gestire, con diverse complicazioni che si sono aggravate. Stai attento, perche’ lo sai che se succede che scoprono il bambino e cose.. fara` piu` scalpore della strage di Capaci”. Sostanzialmente Enzo Brusca, essendo un violento, alludeva anche alle sofferenze che erano stato inferte al piccolo Di Matteo che era stato tenuto in luoghi malsani, legato mani e piedi e sballottolato di qua e di là.

Nella casa di Giambascio era rimasto soltanto Enzo Brusca, che aveva poi diretto gli ulteriori lavori di muratura che erano stati subito dopo effettuati. Erano state infine ricoperte con l’intonaco le pareti lasciate grezze e si era proceduto alla piastrellatura del pavimento che era ancora mancante. 


Rapito e sciolto nell’acido dai bossUn bambino innocente che amava i cavalli. Torturato, strangolato ed infine sciolto nell’acido. Ecco il tragico destino che toccò al piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio dodicenne del pentito Santino Di Matteo, rapito il pomeriggio del 23 novembre 1993, quando aveva quasi 13 anni, in un maneggio di Piana degli albanesi e poi ucciso nel gennaio del ’96.A ordinare la sua uccisione fu Giovanni Brusca. Gli esecutori materiali del delitto furono Vincenzo Chiodo, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo. Per il sequestro e l’omicidio di Giuseppe, oltre che Giovanni Brusca, sono stati condannati all’ergastolo circa 100 mafiosi tra cui Leoluca Bagarella, Salvatore Benigno, Salvatore Bommarito, Luigi Giacalone, Francesco Giuliano, Giuseppe Graviano, Salvatore Grigoli, Matteo Messina Denaro, Michele Mercadante, Biagio Montalbano, Giuseppe Agrigento, Domenico Raccuglia e Gaspare Spatuzza.Il piccolo Giuseppe, nato a Palermo il 19 gennaio 1981, fu rapito da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato. Secondo le deposizioni di Gaspare Spatuzza, che prese parte al rapimento, i sequestratori si travestirono da poliziotti della Dia ingannando facilmente il ragazzo, che credeva di poter rivedere il padre in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. La famiglia cercò notizie del figlio in tutti gli ospedali palermitani ma quando, il 1º dicembre 1993, un messaggio su un biglietto giunse alla famiglia con scritto “Tappaci la bocca” e due foto del ragazzo che teneva in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, fu chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo.Santino Di Matteo non si piegò al ricatto e decise di proseguire la collaborazione con la giustizia. Giuseppe fu trasportato da un posto all’altro per mezza Sicilia, fu spostato in varie prigioni del trapanese e dell’agrigentino, e nell’ultimo nascondiglio rimase per 180 interminabili giorni, prima di essere ucciso. Fu solo quando Brusca venne condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo, che decise di vendicarsi sul ragazzo. Brusca ordinò così l’uccisione del ragazzo, ormai fortemente dimagrito e indebolito per la prolungata e dura prigionia, nel covo lager di San Giuseppe Jato. 


COMO, Di Matteo assale Brusca: “Animale ti stacco la testa. Drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta.

Di Matteo assale  Brusca: ‘Animale, ti stacco la testa’

 

“Stu figghiu e’ buttana”, grida Santino Di Matteo contro Giovanni Brusca. Poi afferra il microfono che gli è davanti, lo strappa dal supporto e glielo lancia violentemente addosso. L’ira sale, Di Matteo si alza e gli si scaglia contro. Tenta di afferrarlo, ma è bloccato dagli agenti di polizia. 

I due sono l’uno di fronte all’altro. A sinistra della corte Santino Di Matteo, pentito di vecchia data, uno dei primi ad abbandonare i corleonesi di Totò Riina. A destra Giovanni Brusca da San Giuseppe Jato, cresciuto anche lui sotto l’ala protettiva di Totò u’ curtu, anche lui controverso collaboratore di giustizia. Giovanni Brusca, che si è macchiato di uno dei crimini più terribili della storia di Cosa nostra: lo scioglimento nell’acido di un bambino di dodici anni, con la sola colpa di essere figlio di “uno che aveva cantato”. Quel bambino, morto per strangolamento e poi gettato nel liquido corrosivo nel gennaio 1996 si chiamava Giuseppe Di Matteo, e suo padre è proprio Santino.

Drammatico il faccia a faccia fra i due nel palazzo di giustizia di Como, dove la corte d’assise di Caltanissetta sta tenendo le udienze del processo bis per la strage di via D’Amelio, quella del 19 luglio 1992, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini delle scorta.

“Giocava con mio figlio”, urla Di Matteo. E ricorda i giorni della loro carriera nelle fila Cosa Nostra. Quando Brusca andava a casa sua e portava il figlio nel giardino di casa, per divertirlo. Le invettive diventano sempre più pesanti, la rabbia cresce. “Animale, non sei degno di stare in questa aula. Parliamo di fronte ad un animale”, fa Di Matteo. E poi: “Ci dovrei staccare la testa, uno che ha ucciso una donna incinta e un bambino”. Il tono diventa di sfida. “Perché non lo mettiamo a un’incrocio. All’ultimo magari, presidente, ci mette tutti e due in quella cella là…”.

Brusca è impassibile, dice che Di Matteo è accecato dalla vendetta e che dice falsità. Santino non regge più, scoppia. Il presidente Pietro Falcone, dopo l’aggressione, sospende l’udienza. Che riprende dopo pochi minuti. 

“Faccia uno sforzo e si calmi”, dice il presidente rivolto a Santino Di Matteo. Ma non c’è verso. Gli insulti continuano. “Lei è padre di figli”, dice Di Matteo rivolto al giudice. E aggiunge, di nuovo: “Ci dovrei staccare la testa a quello là”. Falcone cerca di mettere ordine: “Lei ha avviato una collaborazione con la giustizia”.

“Garantisco che continuerò – risponde subito Di Matteo – ma almeno fatemelo guardare”. Brusca è ormai circondato da un cordone di poliziotti. Le parole per lui sono ferocissime: “Solo questo ha fatto nella vita. La sua carriera l’ha fatta con Salvatore Riina attraverso le tragedie, la sua carriera è stata solo di uccidere le persone buone. Lui è più animale di Salvatore Riina. Me lo deve far vedere. Mi ha cercato per cinque anni, invece ha trovato un bambino. Me lo mangio vivo. Ha ucciso solo una donna incinta, solo perchè poteva sapere qualche cosa”. 

Odio, solo odio, fra i due. Appena placato il 20 maggio 1996 dalla notizia dell’arresto di Brusca. “Finalmente lu pigliaru a stu curnutu, e adesso mettetegli la testa nella merda”, disse in lacrime Santino Di Matteo. Più volte i due si sono incontrati nelle aule di tribunale. E sempre lo scontro ha avuto toni drammatici. 

Giovanni Brusca ha sempre ammesso l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Del pentimento, quello morale, per il gesto compiuto, appena l’ombra, nelle sue parole: “Se avessi avuto un momento in più di riflessione, più calma per poter pensare, come ho fatto in altri crimini, forse ci sarebbe stata una speranza su mille, su un milione, che il bambino fosse vivo. Oggi qualsiasi giustificazione sarebbe inutile. In quel momento non ho ragionato”.  (15 settembre 1998) La Repubblica 

 

 

Giovanni Brusca: “liberati dal canuzzu”  Il bambino è prigioniero da settecentosettantanove giorni. E’ una larva, non pesa neanche trenta chili. Un uomo lo mette con la faccia al muro e lo solleva da terra, il bimbo non capisce, non fa resistenza, nemmeno quando sente la corda intorno al collo. Il suo è appena un sussurro: <<Mi portate a casa?>>. Ci sono altri due uomini che lo tengono. Per le braccia e per le gambe. E poi il piccolo Giuseppe se ne va. Un mese e mezzo dopo, un mafioso si presenta davanti a un sostituto procuratore della Repubblica di Palermo, che gli chiede: <<Intende collaborare con la giustizia?>>. Giuseppe Monticciolo risponde: <<Intendo fare dichiarazioni di omicidio>>. Comincia dalla fine Dall’ultimo. Comincia da Giuseppe Di Matteo, undici anni, il figlio di Santino Mezzanasca, uno dei sicari di Capaci. Il bambino lo rapiscono per far ritrattare il padre pentito. Mezzanasca non ritratta e suo figlio sparisce in un bidone di acido muriatico, i suoi resti sotterrati in una fossa dietro le montagne di Palermo. Giuseppe Di Matteo viene rapito il 23 novembre 1993 e ucciso l’11 gennaio 1996. Lo prendono al maneggio di Villabate, i macellai di Brancaccio. Lo legano e lo portano dopo la piana di Buonfornello, a Lascari. Poi lo consegnano a Giovanni Brusca, quello che a San Giuseppe Jato chiamano ù verru, il maiale. Lo nascondono nei bagagliai delle automobili, lo spostano da un covo all’altro per mezza Sicilia. A Misilmeri, vicino Palermo. A Villarosa, alle porte di Enna. In contrada Giambascio, alle spalle di San Giuseppe Jato. sempre legato e bendato, sempre incatenato. Giuseppe non piange mai. Non chiede mai niente ai suoi carcerieri. Per due anni lo tengono prigioniero. E aspettano un segnale da quell’ “infamone” di suo padre. A Giuseppe fanno scrivere lettere al nonno. Vogliono spingere Mezzanasca a rimangiarsi tutto. Passano le settimane, non succede nulla. E’ la sera dell’11 gennaio 1996. Giovanni Brusca guarda la tv, è l’ora del telegiornale. Sente una notizia: <<Grazie alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, sono stati condannati all’ergastolo Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella>>. Giuseppe Monticciolo è lì, accanto a Brusca, che ha uno scatto d’ira. Poi ù verru gli ordina: <<Liberati del canuzzu>>. Uccidi il cagnolino. Vincenzo Chiodo è quello che gli sbatte la faccia al muro e lo solleva. Enzo Brusca e Giuseppe Monticciolo lo tengono per le braccia e per le gambe. E’ Chiodo che stringe la corda. <<Lo ha strozzato lui>> confessa Monticciolo. Gli chiede il magistrato: <<Il bambino non ha reagito?>>. Monticciolo abbassa gli occhi: <<No, niente, non era più un bambino come tutti gli altri, era debole, debole,…>>. I bidoni di acido sono già pronti. Dopo un pò si vedono solo i piedini di Giuseppe. I tre mafiosi si baciano. Racconterà qualche tempo dopo Brusca: <<Noi avevamo l’abitudine di mettere sempre da parte l’acido, anche se non c’era le necessità immediata di utilizzarlo. Ci vogliono 50 litri di acido per disintegrare un corpo in una media di tre ore. Il corpo si scioglie lentamente, rimangono i denti della vittima, lo scheletro del volto si deforma. A quel punto si prendono i resti e si vanno a buttare nel torrente. Ai palermitani che ci sfottevano perché eravamo contadini, rozzi, noi rispondevamo: e voi allora, bella acqua bevete a Palermo…>>. L’acqua del torrente di San Giuseppe Jato finisce in una diga. Quella che disseta tutta Palermo. – Attilio Bolzoni -PAROLE D’ONORE


 

a cura di Claudio Ramaccini, Direttore – Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF