C’è anche Mimmo Li Causi, imprenditore marsalese della Marsalbotti, tra i condannati nel processo sull’operazione antimafia Hesperia, che si è concluso nei giorni scorsi con oltre 200 anni di carcere.
E la vicenda che lo ha portato prima agli arresti domiciliari e poi alla condanna a 4 anni e 4 mesi è esemplare di come finchè ci saranno persone che si rivolgono a mafiosi, anche di basso rango, per ottenere qualcosa di loro diritto, la mafia continuerà ad avere peso in questo territorio.
Una cultura mafiosa difficile da estirpare finchè verrà dato credito alla forza intimidatrice della mafia.
Hesperia è stata l’ultima operazione antimafia in provincia di Trapani prima dell’arresto di Matteo Messina Denaro.
Un’indagine che ha coinvolto le consorterie mafiose di Campobello di Mazara, Marsala e Mazara del Vallo.
Nell’indagine sono rimasti coinvolti 35 presunti mafiosi e fiancheggiatori di Cosa Nostra , riportando in cella fedelissimi del boss Matteo Messina Denaro, come il 67enne capomafia campobellese Francesco Luppino.
E la pena più severa (20 anni di carcere) è stata inflitta proprio per lui. A 20 anni è stato condannato anche il marsalese Francesco Giuseppe Raia.
Tra gli arrestati, e poi condannati, ci sono vecchi boss di una mafia che non spara più un colpo, che non entra più negli affari milionari di un tempo. Quasi dei relitti, che si aggrappano ad antichi “assabbinirica”, mantenendo una sorta di reputazione mafiosa. Relitti ai quali continuano a dare credito alcune persone, alimentando quel poco di potere che potrebbero avere
Perchè la forza della mafia e la forza intimidatrice, ma anche chi gli dà l’occasione di dimostrarla. Come Mimmo Li Causi, della Marsalbotti.
Classe 1967, Girolamo Li Causi, detto Mimmo, venne arrestato ai domiciliari nell’operazione di un anno fa perchè avrebbe chiesto ai mafiosi aiuto per riscuotere un credito.
Insieme ad Antonino Cuttone, Antonino Pace, Vito Gaiazzo, e Vincenzo Pisciotta, “realizzavano atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere Giuseppe, Maria e Antonio Possente a corrispondere loro una somma di denaro, pari a 220.000,00 euro”.
In pratica, l’indagine ha consentito di ricostruire una complessa vicenda estorsiva commessa da alcuni mafiosi e dall’imprenditore marsalese Girolamo Li Causi in danno di Giuseppe Possente, altro imprenditore, originario di Alcamo.
In estrema sintesi, Li Causi aveva chiesto l’intervento dell’ uomo d’onore mazarese Antonino Cuttone, per recuperare una somma di denaro da Possente; Cuttone, a tal fine, aveva incaricato Vincenzo Pisciotta, Antonino Pace e Vito Gaiazzo di occuparsene.
Una parte della somma recuperata sarebbe stata ovviamente percepita da Cosa nostra.
Li Causi nel corso delle settimane in cui andava dietro a Possente, riferisce passo dopo passo ai suoi amici che ipotizzano una “tirata di orecchie”.
Li Causi insiste, Possente non risponde al telefono, aveva anche fatto capire che il maxi debito sarebbe finito in un’aula di tribunale con l’intervento in via stragiudiziale degli avvocati.
Ma i mafiosi riferiscono a Li Causi di pressare: “gli lasci un messaggio e gli dici “allora dato che non mi rispondi domani mattina siamo a casa tua”.
La vicenda genera anche tensioni tra le famiglie mafiose di Marsala e Mazara, perché ai marsalesi dava fastidio che un imprenditore di Marsala si fosse rivolto ad un mafioso di Mazara, Cuttone, per recuperare i soldi. E’ Antonino Raia, allora, che convoca sia Pace sia Gaiazzo, per fare presente che la gestione della vicenda estorsiva è avvenuta in maniera diversa rispetto alle regole di Cosa nostra, e che comunque lui aveva detto a Li Causi che, in ogni caso, una “quota” andava versata anche alla famiglia mafiosa di Marsala, alla quale avrebbe dovuto prima di tutto rivolgersi.