Riflessioni ed interventi di Paolo Borsellino

 

 

“Se la gioventù le negherà il consenso anche l’onnipotente e miste- riosa mafia svanirà come un incubo”.

 

“Davanti alle difficoltà non bisogna arrendersi. Al contrario devono stimolarci a fare sempre di più e meglio, a superare gli ostacoli per raggiungere i risultati che ci siamo prefissati”.

 

“Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”.

 

“La lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale che coinvolga tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adat- te a sentire subito la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità, quindi complicità”.

 

“La paura è normale che ci sia, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò di- venta un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”.

 

“Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

 

“È bello morire per ciò in cui si crede. Chi ha paura muore ogni giorno, chi ha coraggio muore una volta sola”.

 

“Ti dico solo che loro possono uccidere il mio corpo fisico e di questo sono ben cosciente. Ma sono ancora più cosciente che non potranno mai uccidere le mie idee e tutto ciò in cui credo! Si erano illusi che uccidendo il mio amico Giovanni, avrebbero anche ucciso le sue idee e quel gran patrimonio di valori che stava dietro a lui. Ma si sono sbagliati, perché il mio amico Giovanni tutto ciò che amava e onorava, lo amava così profondamente da legarselo nel suo animo, rendendolo dunque immortale”.

 

“Devo fare in fretta perché adesso tocca a me”.

 

“I giovani e la mafia? È un problema di cultura, non in senso restrit- tivo e puramente nozionistico, ma come insieme di conoscenze che contribuiscono alla crescita della persona. Fra queste conoscenze vi sono quei sentimenti, quelle sensazioni che la cultura crea e che ci fanno diventare cittadini, apprendendo quelle nozioni che ci aiutano a identificarci nelle Istituzioni fondamentali della vita associativa e a riconoscerci in essa”.

 

“Purtroppo i giudici possono agire solo in parte nella lotta alla mafia. Se la mafia è un Istituzione antistato che attira consensi perché ritenuta più efficace dello Stato, è compito della scuola rovesciare questo processo perverso formando giovani alla cultura dello Stato e delle Istituzioni”.

 

“Sono ottimista perché vedo che verso di essa (la mafia, ndr) i gio- vani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quan- do questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta”.

 

“La maggior parte della gente rispetta le leggi dello Stato non per- ché le tema, non perché tema la sanzione penale o civile che sia, lo fa perché ritiene che sia giusto non uccidere o non sorpassare in curva. E se così non fosse, cioè se la gente rispettasse le leggi solo perché le teme, non basterebbero tanti Carabinieri per il numero di persone che ci sono nel nostro paese; la maggior parte di noi rispetta le leggi perché SENTE il dovere di osservarle”.

“Questo così è ciò che accaduto storicamente nel Meridione d’Italia, dove il cittadino si è sentito estraneo allo Stato; non ha sentito l’impulso istintivo a rispettare le leggi. Ciò è accaduto principal- mente nelle tre grandi regioni del sud: Campania, Calabria e Sicilia, dove si è venuta a creare una vera e propria disaffezione verso lo Stato e le sue leggi”. Tanto più il cittadino si sente parte integrante dello Stato, con tutte le sue ramificazioni di Regione, Comune e Provincia, tanto più sente il dovere di rispettare le leggi”.

“Questo è il motivo della nascita delle grandi organizzazioni criminali che conosciamo come Camorra e Mafia. Perché? Perché ci sono i bisogni che il cittadino chiede, quelli economici, quelli sociali, i bisogni di sicurezza, che il cittadino chiede gli siano assicurati dallo Stato in tutte le sue articolazioni regionali, comunali e provinciali; quando il cittadino non si identifica più nello Stato, quando non ha più fiducia in quest’ultimo, cerca di trovare dei surrogati. L’errore è pensare che la mafia abbia colmato il mancato sviluppo economico di queste parti disagiate del paese, quindi sbagliamo se crediamo di risolvere il problema inviando più risorse economiche in quelle zo- ne. Lo Stato ha si il dovere di sostenere le zone con ampie sacche di disoccupazione, di emarginazione e di miseria, ma se non capterà la fiducia dei cittadini sull’imparziale ed equa distribuzione delle ri- sorse, le organizzazioni sfrutteranno questo profluvio di risorse per meglio lucrare. L’esempio è che quando in Sicilia arrivano delle risorse dallo Stato centrale, la prima cosa che si pensa è che queste verranno spartite dalla mafia.

Se queste sono le ragioni di fondo della nascita e dello sviluppo del- la mafia, non illudiamoci che le azioni giudiziarie da sole, possano fare piazza pulita dell’intero fenomeno. Potremo prendere questo o quel capo-mafia, potremo accertarne la colpevolezza, ma se non andremo a fondo nel problema, alla radice, la mafia si ripresenterà sempre più forte di prima: abbiamo tutti assistito al grande clamore intorno al maxiprocesso di Palermo, ma finito quello, eravamo punto e a capo”.

 

“Quando un’azione è soltanto giudiziaria e repressiva, ma non incide sulle cause del fenomeno è chiaro che non è efficace”.

 

“Vi è stata una delega totale ed inammissibile nei confronti della magistratura e della forze dell’ordine ad occuparsi essi solo del problema della mafia. Lo Stato non ha fatto nulla per creare le condi- zioni per una migliore amministrazione, per esempio, della giustizia civile, alla quale il cittadino si rivolge per piccoli fatti o piccole cau- se civili; un processo civile dura non meno di dieci anni”.

“Infine c’è l’equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone ac- certare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto … e no!” “Quanti di voi conoscono qualcuno che seppure mai condannato sanno che non è uomo onesto?”

“Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale, può dire, beh, ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso”. “Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarne le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella ge- stione della cosa pubblica”. “Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è stato condannato quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!” “Questo dovrebbe spingere i partiti a fare pulizia al proprio interno”.

 

Il 25 giugno 1992 Paolo Borsellino interviene ad un dibattito organizzato dalla rivista MicroMega presso l’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo; sarà il suo ultimo intervento pubblico:

“Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ra- gioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricor- di a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di uti- lizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscen- ze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo rac- colto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbar- carmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ri- stabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opi- nioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, che è l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.

Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente − e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi − dal riferire circostanze che probabil- mente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguarda- no i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi − se è il caso − ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul “Sole 24 Ore” dalla giornalista − in questo momento non mi ri- cordo come si chiama… − Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi. Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione − in questo momento i miei ricordi non sono precisi – un’affermazione di Antonino Ca- ponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gen- naio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell’evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemen- to che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all’autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Anto- nino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest’uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, comin- ciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul “Corriere della Sera” che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo la- voro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risi- bili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C’eravamo tutti resi conto che c’era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest’uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicura- mente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fi- sico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stes- si, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riotto- so, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

Giovanni Falcone, dimostrando l’altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il la- voro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, co- minciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nono- stante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall’esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato di- strutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falco- ne sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d’Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quel- la sera l’aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gra- vissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediata- mente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l’opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.

L’opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldis- sima estate dell’agosto 1988, l’opinione pubblica si mobilitò e co- strinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in par- te la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant’è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l’intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nono- stante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione conti- nua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continua- rono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondis- simo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemen- te a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella par- te di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire si prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po’ più raramente perché io ero mol- to impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Pa- lermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leo- nardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l’ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorren- do i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.

Certo anch’io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell’attività di un ma- gistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diver- sa da quelle che sono le strutture, anch’esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall’ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bi- lancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Sta- to quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianal- mente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superpro- cura, sulla quale anch’io ho espresso nell’immediatezza delle per- plessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superpro- cura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Gio- vanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue ide- e, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l’organizzazione mafiosa − non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque − e l’organizzazione mafiosa, quando ha pre- parato ed attuato l’attentato del 23 maggio, l’ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tut- te le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratu- ra, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero cono- sciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia. Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con rife- rimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l’indipendenza del- la magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura”. 19luglio1992.it