Lo hanno ironicamente definito sceriffo, giudice-poliziotto, ammalato di protagonismo. Ma lui, Giovanni Falcone, non ha mai replicato, ha continuato sempre per la sua strada a lavorare su montagne di atti processuali all’ interno del suo ufficio trasformato in bunker, andando all’ estero per interrogare i pentiti, dando una svolta, con gli accertamenti bancari, alle indagini sulla mafia. La sua strada all’ interno e fuori dai palazzi è sempre stata piena di ostacoli, il suo impegno, il suo sacrificio non sono mai stati premiati. Quando il suo capo, il consigliere istruttore Antonino Caponnetto, lasciò Palermo, Falcone era ritenuto il successore naturale. Ma all’ esperienza, venne preferita l’ anzianità. Il 19 gennaio dello scorso anno il Csm decide nominando capo dell’ ufficio istruzione Antonino Meli. E’ l’ inizio del tracollo del pool antimafia. Un pool nato da fatti contingenti, dai morti che insanguinano le strade di Palermo, da una mafia che mira sempre più in alto trucidando magistrati, politici, giornalisti.
Lo scontro non è fra uomini, ma sui modi di intendere la lotta alla mafia. Per Falcone il fenomeno è da affrontare complessivamente, per altri, con il beneplacito del presidente della prima sezione della corte di Cassazione Corrado Carnevale, Cosa nostra non è una organizzazione unitaria e verticistica. Il pool nasce subito dopo l’ uccisione del consigliere istruttore Rocco Chinnici, assassinato nel luglio del 1983. Il suo successore, Antonino Caponnetto prende le redini di un ufficio istruzione smarrito, mettendo in piedi una squadra di giovani ed abili magistrati che si occupano esclusivamente degli affari di Cosa nostra. Giovanni Falcone diventa il capo di questo pool. Da undici anni lavora a Palermo, e la sua prima esperienza, il processo contro le famiglie Spatola-Gambino-Inzerillo, colpisce al cuore gli affari di Cosa nostra. Falcone anticipa i suggerimenti della legge Rognoni-La Torre e mette il naso nei bilanci della piovra. Il processo si conclude con pesanti condanne. Il pool acquisisce un’ esperienza utilissima, i pentiti danno un grosso contributo, si mette assieme un mosaico di proporzioni mastodontiche dal quale scaturisce il primo maxi-processo. Vengono mandati alla sbarra quasi cinquecento imputati, viene ricostruita la mappa di Cosa nostra, delle famiglie che la compongono. Poi arriva il consigliere Antonino Meli, un magistrato vecchio stampo che gode fama di galantuomo. I suoi metodi non sono però condivisi dai suoi uomini. Il pool si spacca, Giuseppe Di Lello e Giacomo Conte, abbandonano. Falcone minaccia di dimettersi ma poi resta al suo posto. Lo scontro tra le due filosofie ha il suo momento critico nel luglio scorso. In una intervista a La Repubblica e l’ Unità, Paolo Borsellino procuratore della Repubblica di Marsala che per anni era stato compagno di squadra di Falcone, fa una grave denuncia. Le indagini su Cosa nostra dice il magistrato si disperdono in mille rivoli, mentre la mafia si riorganizza. Borsellino denuncia un calo di tensione nella lotta alla piovra. Interviene il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che chiede di fare chiarezza. Il caso viene gestito dal Csm che si spacca. Alla fine, dopo quattro giorni di udienze e venticinque interrogatori il supremo organo della magistratura stila un documento che tenta faticosamente di mediare fra le due posizioni. Dà ragione sia a Meli che a Falcone, ma del pool non rimane che il nome soltanto.
Lo scontro non è fra uomini, ma sui modi di intendere la lotta alla mafia. Per Falcone il fenomeno è da affrontare complessivamente, per altri, con il beneplacito del presidente della prima sezione della corte di Cassazione Corrado Carnevale, Cosa nostra non è una organizzazione unitaria e verticistica. Il pool nasce subito dopo l’ uccisione del consigliere istruttore Rocco Chinnici, assassinato nel luglio del 1983. Il suo successore, Antonino Caponnetto prende le redini di un ufficio istruzione smarrito, mettendo in piedi una squadra di giovani ed abili magistrati che si occupano esclusivamente degli affari di Cosa nostra. Giovanni Falcone diventa il capo di questo pool. Da undici anni lavora a Palermo, e la sua prima esperienza, il processo contro le famiglie Spatola-Gambino-Inzerillo, colpisce al cuore gli affari di Cosa nostra. Falcone anticipa i suggerimenti della legge Rognoni-La Torre e mette il naso nei bilanci della piovra. Il processo si conclude con pesanti condanne. Il pool acquisisce un’ esperienza utilissima, i pentiti danno un grosso contributo, si mette assieme un mosaico di proporzioni mastodontiche dal quale scaturisce il primo maxi-processo. Vengono mandati alla sbarra quasi cinquecento imputati, viene ricostruita la mappa di Cosa nostra, delle famiglie che la compongono. Poi arriva il consigliere Antonino Meli, un magistrato vecchio stampo che gode fama di galantuomo. I suoi metodi non sono però condivisi dai suoi uomini. Il pool si spacca, Giuseppe Di Lello e Giacomo Conte, abbandonano. Falcone minaccia di dimettersi ma poi resta al suo posto. Lo scontro tra le due filosofie ha il suo momento critico nel luglio scorso. In una intervista a La Repubblica e l’ Unità, Paolo Borsellino procuratore della Repubblica di Marsala che per anni era stato compagno di squadra di Falcone, fa una grave denuncia. Le indagini su Cosa nostra dice il magistrato si disperdono in mille rivoli, mentre la mafia si riorganizza. Borsellino denuncia un calo di tensione nella lotta alla piovra. Interviene il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che chiede di fare chiarezza. Il caso viene gestito dal Csm che si spacca. Alla fine, dopo quattro giorni di udienze e venticinque interrogatori il supremo organo della magistratura stila un documento che tenta faticosamente di mediare fra le due posizioni. Dà ragione sia a Meli che a Falcone, ma del pool non rimane che il nome soltanto.