Ormai la direttrice sembra tracciata. ‘Mafia-appalti’, l’indagine condotta dai Ros che deve rappresentare l’unico movente delle stragi di Capaci e via D’Amelio, ad opera della sola mafia.
Un conto che non torna, avevo scritto, a partire dalle caratteristiche della strage di Capaci e dalla perizia redatta dal generale Fernando Termentini, che a differenza dei tanti giornalisti che ne scrivono attribuendo a Giovanni Brusca e altri ‘manovali’ la progettazione e l’esecuzione dell’attentato, era considerato uno dei massimi esperti in materia di esplosivi.
Ma andiamo a prima di Capaci, quando il 21 giugno del 1989 sugli scogli dell’Addaura, davanti alla villa che Giovanni Falcone prende in affitto d’estate, un poliziotto della scorta vede un borsone che conteneva cinquantotto candelotti di dinamite messi lì proprio per il giorno in cui con il giudice avrebbero dovuto esserci i due colleghi svizzeri Carla Del Ponte e Claudio Lehman, con i quali doveva discutere sul filone dell’inchiesta ‘Pizza connection’ che riguardava il riciclaggio di denaro sporco.
Un fallito attentato le cui anomalie, anche in termini di perizie effettuate, fanno ancora oggi discutere.
Un segnale a falcone perché non andasse avanti con l’inchiesta Mafia-appalti?
Assolutamente no, le prime mosse di quell’indagine avverranno soltanto qualche mese dopo.
Tranne che Riina e compagni non avessero la sfera di cristallo, dobbiamo pensare che il movente fosse un altro.
Settembre-Ottobre 1991 – A Enna si tengono riunioni ristrette della ‘Commissione regionale’ di ‘Cosa nostra’ alle quali partecipano i vertici della mafia siciliana.
A febbraio dello stesso anno, il Ros di Mori aveva già depositato la prima informativa su ‘Mafia-appalti’, ma a Enna i mafiosi parlano di altro.
Pianificano strategie terroristiche contro lo Stato che dovevano essere rivendicate con la sigla ‘Falange Armata’.
Fece seguito un’altra riunione per stabilire chi fossero i bersagli da colpire: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, ma anche soggetti politici che ‘Cosa nostra’ riteneva ormai inaffidabili.
Il 12 marzo 1992 un gruppo di fuoco di ‘Cosa nostra’ uccideva l’onorevole Salvo Lima.
Un omicidio rivendicato due giorni dopo con una telefonata anonima alla sede ANSA di Torino che attribuiva alla ‘Falange Armata’ l’omicidio del politico legato alla mafia.
Passa qualche settimana e il 4 aprile successivo viene ucciso il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli.
Ancora una volta a rivendicare l’omicidio è una telefonata anonima a nome della ‘Falange Armata’.
Cosa c’entrava Guazzelli con Mafia-appalti? Nulla.
Guazzelli aveva indagato sulla partecipazione dell’onorevole Calogero Mannino al matrimonio del figlio del boss di Siculiana, Gerlando Caruana, e come riferì Riccardo, figlio del maresciallo, il padre gli aveva confidato che Mannino temeva per la propria incolumità, a tal punto da aver esclamato: “o ammazzano me o ammazzano Lima”.
Uccisero Lima.
Il 23 maggio 1992, la strage di Capaci. Ancora una volta a rivendicarla, la stessa sera con una telefonata anonima, è la ‘Falange Armata.
La stessa sigla, il 19 luglio, rivendica la strage di via D’Amelio.
Di tutti gli episodi definiti di stampo terroristico-mafioso, questi sono gli unici due messi in relazione con l’indagine Mafia-appalti.
Un’indagine che sicuramente rappresenta una concausa nelle stragi, ma che non può essere l’unica ragione per la quale vennero compiute, tant’è che già nel corso della riunione di Enna ‘Cosa nostra’ aveva decretato la morte dei due giudici, ma anche quella di soggetti che con ‘Mafia-appalti’ non avevano nulla da spartire.
Una decisione che rientrava in una logica di strategie terroristiche contro lo Stato.
Perché ‘Cosa nostra’ conduce un’azione terroristica contro lo Stato?
‘Cosa nostra’ certamente non ha un’ideologia politica, è ovvio pertanto che in gioco c’è un do ut des tra mafia e Stato, che non fu quello del cosiddetto processo Trattativa che vide imputati gli ex ufficiali del ROS Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e l’ex senatore Marcello Dell’Utri con l’accusa di minaccia a Corpo politico dello Stato, poi assolti per non aver commesso il fatto.
Facciamo un passo indietro.
Mentre Falcone, e poi Borsellino, indaga sulla vicenda degli appalti, anche l’allora pm Antonio Di Pietro conduce l’inchiesta ‘Mani pulite’, la prima e la più vasta che squarcia il velo sulla tangentopoli che coinvolge i manager di alcune tra le più grandi aziende italiane e soggetti politici di carattere nazionale.
Un terremoto giudiziario, politico ed economico, che metterà la parola fine alla cosiddetta Prima Repubblica.
Arresti, suicidi e fughe dall’Italia, che apriranno alla nascita di nuovi partiti e di governi sui quali hanno sempre aleggiato oscure ombre.
Iniziano gli attacchi al pm di ‘Mani pulite’, compreso una lettera della fantomatica ‘Falange Armata’ con la quale viene minacciato dell’uccisione del figlio.
Tra le aziende coinvolte, il Gruppo Ferruzzi, infiltrato da ‘Cosa nostra’ con la partecipazione del mafioso Buscemi, e secondo il pentito Leonardo Messina, controllato da Totò Riina.
Al processo ‘Borsellino ter’, Di Pietro racconta di alcuni colloqui avuti con Falcone e Borsellino:
“Cominciai a parlare con Falcone – di una circostanza che stava emergendo nella primavera del ’92 e cioé che le imprese nazionali di maggior rilievo coinvolte nel sistema di ‘Tangentopoli’ dovunque si associavano con imprese locali, creavano associazioni di imprese, si aggiudicavano gli appalti e gli appalti producevano delle dazioni di denaro. Ne parlai sia con Falcone che con Borsellino. Il problema era il seguente: se tanto mi dà tanto, se tutte queste imprese che stanno a Milano pagano dovunque vanno, possibile che pagano fino a Rubicone? Allora cercammo di immaginare un meccanismo investigativo che potesse far capire quali erano le… diciamo così, cosa succedeva per gli appalti che queste imprese avevano anche in Sicilia. Io di questo ne parlai sicuramente con Borsellino e lo accennai soltanto a Falcone” (Il Manifesto).
Secondo quanto ricostruito dall’ex pm, ‘Mani pulite’ doveva essere fermata.
Tra i tanti nomi che compaiono nelle inchieste condotte da Di Pietro, quello dell’imprenditore agrigentino Filippo Salamone.
Sempre secondo Di Pietro, il Ros aveva cannato quando scambiò Salamone per Angelo Siino.
Eppure Borsellino sapeva di Salamone, tanto che invitò il fratello Fabio, magistrato, a lasciare la Sicilia.
Questo è quello che dice Di Pietro in merito alla Ferruzzi e Salamone al ‘Borsellino ter’ invitando ad indagare sulla ‘Tpl’ e sulla Ferruzzi in Sicilia:
“La Tpl è una società di cui si è parlato a vari livelli in Italia, in Francia, in Medio oriente. Tra le ipotesi investigative che furono fatte – c’erano dichiarazioni agli atti – vi era tutta una situazione di ‘intelligence’ che riguardava l’Iraq, i paesi del Medio oriente e che riguardavano una serie di appalti gestiti dalla Tpl. La Tpl lavorava anche in Sicilia – il dissalatore di Trapani – con la Impresem e la Vita.
La Tpl è una società di progettazione, si occupa di general contractor soprattutto nel settore del petrolchimico. Quando indagavamo sui sistemi di approvvigionamento dell’Eni, ci siamo trovati a indagare su come venivano costruiti i fondi neri e come questi venivano smistati. Nell’ambito di queste attività, alcune persone hanno riferito di attività e di cointeressenze che in questa Tpl aveva anche Filippo Salamone”.
Cosa c’entrava la Tpl con una situazione di ‘intelligence’ che riguardava l’Iraq, i paesi del Medio oriente e che riguardavano una serie di appalti gestiti dalla Tpl?
Ma di storie di intelligence e affari internazionali pare non si debba mai parlare, altrimenti si viene tacciati di complottismo.
Nel corso della sua deposizione, Di Pietro riferisce di un’intercettazione telefonica del settembre del ’96 fatta nell’ambito della inchiesta di La Spezia, “tal Francesco Maria Greco di Napoli, cercò di fare avere finanziamenti a Filippo Salamone tramite Pacini Battaglia”.
‘Cosa nostra’ dopo Capaci e via D’Amelio si era ‘smilitarizzata’?
No.
Tant’è che seguirono l’omicidio dell’Ispettore capo Giovanni Lizzio, il tentato omicidio del commissario Rino Germanà e l’omicidio dell’imprenditore mafioso Ignazio Salvo.
Riina nel frattempo incaricava Giovanni Brusca per compiere un attentato dinamitardo in danno del giudice Pietro Grasso per ‘ammorbidire’ lo Stato.
E la ‘Falange Armata’?
Sul finire dello stesso anno, viene collocato un proiettile d’artiglieria nel Giardino di Boboli a Firenze, per condizionare le istituzioni a favorire benefici per i detenuti in regime carcerario di 41 bis.
Ancora una volta, viene fuori la sigla ‘Falange Armata’, la cui rivendicazione non venne però recepita.
Mafia-appalti? Non sembrerebbe, ben altri erano gli interessi si ‘Cosa nostra’, tanto che gli attentati proseguiranno a Firenze, a Roma e a Milano.
Se ‘Mafia-appalti’ fosse stata la causa unica dell’uccisione di Falcone e Borsellino, non si spiegherebbero gli antefatti alle due stragi, né il susseguirsi degli attentati dopo i fatti di Capaci e via D’Amelio.
Né tantomeno si spiegherebbe la mancanza di una reazione nei confronti di chi aveva condotto e avrebbe potuto condurre future indagini; così come contro Di Pietro che – per sua fortuna – la ‘Falange Armata’ non cercò di eliminare nonostante con le sue indagini stravolgeva il sistema politico e imprenditoriale italiano, colpendo anche aziende di carattere nazionale nelle quali ‘Cosa nostra’ aveva interessi.
Gian J. Morici 13 Luglio 2024 LA VALLE DEI TEMPLI