L’atto d’accusa di Manfredi Borsellino: “Quella strana telefonata di Giammanco”. E nell’inchiesta mafia e appalti spunta un nuovo documento

 

VIDEO RAI NEWS


Il figlio del magistrato ucciso in via D’Amelio è intervenuto al convegno organizzato dall’Associazione nazionale magistrati a Caltanissetta. Ritrovata una nota dell’allora capitano Screpanti che parlava dello “scetticismo della procura” nell’indagine sulle infiltrazioni di mafia nel gruppo Gardini

 

Nell’aula magna del palazzo di giustizia di Caltanissetta, dove si tiene un convegno organizzato dall’Anm, Manfredi Borsellino non usa mezzi termini: «Credo sia doverosa la mia presenza oggi, perché ritengo insieme alle mie sorelle che qui si stia giocando la partita più importante, forse l’unica partita che vale la pena di essere giocata, anche ai supplementari se ci saranno».
Sono parole accorate quelle di Manfredi Borsellino, per ringraziare il procuratore Salvatore De Luca e i magistrati di Caltanissetta impegnati senza sosta nella ricerca della verità sulle stragi del 1992.
E c’è un significato profondo nella parola “partita”.
Manfredi Borsellino cita suo padre: «Il 19 luglio 1992 ricevette una stranissima telefonata da Pietro Giammanco, alle sette del mattino. L’allora procuratore di Palermo gli disse che dopo una notte insonne aveva deciso di affidargli il coordinamento delle indagini su Palermo. E aggiunse: “Con questa decisione la partita è chiusa”. Mio padre gli rispose: “No, adesso, la partita è aperta».
Si commuove Manfredi:  «La partita che mio padre voleva giocare è ancora aperta».
Prosegue: «A mio padre non venne data la possibilità neanche di iniziarla quella partita». Fa una pausa e dice: «Però spero che ancora questa partita non sia perduta».  

Parole forti, che rievocano la lunga corsa di Paolo Borsellino nei 57 giorni che seguirono la morte di Giovanni Falcone. L’allora procuratore aggiunto di Palermo era interessato a un’indagine in particolare, quella su mafia e appalti.
Ma non ebbe mai la possibilità di occuparsene, perché — racconta adesso l’ultima inchiesta della procura di Caltanissetta — quel fascicolo venne insabbiato. Come «istigatore» viene indicato il procuratore Pietro Giammanco (morto nel 2018), nel registro degli indagati sono finiti l’allora sostituto Gioacchino Natoli e il generale Stefano Screpanti, all’epoca capitano del nucleo di polizia tributaria di Palermo. Pesante l’accusa contestata oggi ai due indagati dal procuratore De Luca, dall’aggiunto Pasquale Pacifico e dai sostituti Davide Spina, Claudia Pasciuti e Nadia Caruso: «Favoreggiamento alla mafia».

Un’inchiesta ricca di colpi di scena. Intanto, perché le bobine delle intercettazioni fatte all’inizio del 1992 sui telefoni dei boss Bonura e Buscemi (sospettati dalla procura di Massa Carrara di avere contatti con il gruppo Gardini) non furono distrutte, come aveva disposto Natoli.
Dal riascolto dei nastri, stanno emergendo tante “notizie di reato” che erano state ignorate.
All’epoca, l’inchiesta fu chiusa nel giro di tre mesi. Vennero ignorati pure i riferimenti a Bonura e Buscemi che nascevano in un’altra indagine, fatta dal Ros.
Resta il dubbio: tutto ciò avvenne solo per una colossale sottovalutazione o per la complicità di qualcuno?

Dall’archivio della Guardia di finanza di Palermo è riemerso un documento importante: è una nota dell’allora capitano Screpanti, che parlava di «scetticismo della procura» sull’indagine coordinata da Natoli.
Una nota interna, rimasta nel fascicolo.
Per un documento ritrovato, un altro invece è scomparso: non si trova il brogliaccio delle intercettazioni che sarebbe dovuto restare in caserma. Pure il brogliaccio che venne inviato in procura è scomparso, sono stati recuperati solo alcuni fogli, riguardanti intercettazioni irrilevanti. Sono i misteri di Palermo, su cui i magistrati stanno indagando assieme ai finanzieri del comando provinciale di Caltanissetta.

Dopo le parole all’inizio del convegno (su lotta alla mafia, garanzie processuali ed errore giudiziario), Manfredi Borsellino resta ad ascoltare gli interventi. Accanto a lui, c’è il cognato, l’avvocato Fabio Trizzino, il legale di parte civile della famiglia nei processi contro gli uomini infedeli dello Stato che orchestrarono il depistaggio.
Nel trentaduesimo anniversario della strage di via D’Amelio, l’iniziativa di Caltanissetta è l’unica a cui hanno partecipato Manfredi Borsellino e Fabio Trizzino, in rappresentanza della famiglia.

Non sono andati alla caserma Lungaro, dove c’era il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Non sono andati in via D’Amelio, dove c’erano Salvatore Borsellino e le Agende Rosse. Non sono andati al corteo organizzato dai giovani della destra.
Da sempre, è lo stile dei figli di Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto: Lucia, Manfredi e Fiammetta, con le loro famiglie, rifuggono da palcoscenici, cortei e passerelle, il loro unico impegno è per la ricerca della verità.

Nel solco di quanto continua a ripetere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche ieri ha ricordato i «depistaggi che hanno ostacolato la ricerca della verità». Ma il bisogno di verità, ha ribadito il Capo dello Stato, «è insopprimibile in una democrazia e dare ad esso una risposta positiva resta un dovere irrinunciabile».
Dice l’avvocato Rosalba Di Gregorio, anche lei legale di parte civile nel processo depistaggio: «Non smetteremo di cercarla la verità, le inchieste della procura di Caltanissetta sono un punto di riferimento importante, c’è ancora tanto da fare». Il procuratore De Luca accenna: «Sono un ottimista per natura, in questo caso è d’obbligo un cauto ottimismo, le speranze non sono irrazionali». 19 Luglio 2024 LA REPUBBLICA SALVO PALAZZOLO