5.5.2012 Borsellino disse: io nel nido di vipere

 

Così definì la procura secondo la testimonianza di un collega

 

PALERMO – Un mese prima di morire Paolo Borsellino «appariva come trasfigurato, senza più sorrisi. Era provato, appesantito, piegato». Da poche settimane la mafia aveva ucciso il suo amico Giovanni Falcone nel massacro di Capaci, e lui continuava a lavorare nel suo ufficio di procuratore aggiunto a Palermo, che però considerava «un nido di vipere».
È un altro squarcio sugli ultimi giorni di vita del magistrato assassinato il 19 luglio 1992 nella strage di via D’Amelio affidato al ricordo di un giovane magistrato dell’epoca, Massimo Russo, che ora fa l’assessore Sanità nel governo della Regione Siciliana.
Russo ha deposto ieri nel processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato della presunta mancata cattura di Provenzano nel 1995 e indagato per l’altrettanto presunta trattativa tra Stato e Cosa nostra avviata a cavallo delle stragi del ’92.      

La sua testimonianza si somma a quella di Alessandra Camassa, altra «allieva» di Borsellino presente all’incontro di giugno del 1992 nel quale il giudice che con Falcone aveva istruito il maxi-processo alla mafia confidò di essere stato «tradito» da un amico. Questo è il particolare più nitido rievocato dalla Camassa: «Paolo si distese sul divano che c’era nella stanza e cominciò a lacrimare in modo evidente dicendo: “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”».
Chi fosse quell’amico i due giovani magistrati non lo chiesero. «È il mio grande cruccio», confessa Russo. Ma mentre la Camassa sostiene che sul momento pensò a una vicenda personale appena scoperta, lui associa il pianto e l’affermazione sul tradimento a un incontro conviviale con ufficiali dell’Arma dei carabinieri che Borsellino avrebbe avuto poco prima a Roma. Per alleggerire il clima e cavarsi dall’imbarazzo, proprio Russo chiese a Borsellino: «E qui come va?». Risposta: «È un nido di vipere». Un dettaglio in più per chiarire, a quasi vent’anni dalla morte e alla vigilia delle celebrazioni che stanno per aprirsi in occasione dell’anniversario, in quale ambiente si fosse ritrovato a lavorare l’amico di Falcone che fremeva perché non poteva occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci. Ma nonostante non ne fosse il titolare, ricordano Russo e Camassa, seguiva con grande interesse, per come e per quanto gli era consentito, gli sviluppi di quell’inchiesta.

A parte il rammarico per non aver approfondito la questione del tradimento, sottovalutando la confidenza ricevuta, i due magistrati sostengono che fino al 2009 – quando uscirono le prime notizie sull’indagine che stava svelando la trattativa tra Stato e mafia – non avevano collegato lo sfogo con l’eventualità che Borsellino fosse venuto a sapere dei contatti tra rappresentati delle istituzioni e di Cosa nostra. Solo dopo riferirono l’episodio agli inquirenti.
L’indagine sulla trattativa riguarda anche l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, già processato e assolto dall’accusa di concorso esterno con la mafia e ora inquisito per ipotetiche pressioni fatte nel ’93 sull’allora vice-direttore degli istituti di pena, Francesco Di Maggio, con l’obiettivo di alleggerire il «carcere duro» ai boss detenuti. Ma ieri, sempre nel processo Mori, il principale teste d’accusa contro l’ex ministro ha mostrato più di una crepa. Si chiama Nicola Cristella, ed era il capo-scorta di Di Maggio. A fatica, tra contraddizioni e titubanze, ha ricordato che Di Maggio si lamentava delle insistenze di chi voleva allentare il «41 bis»: «Percepii frammenti di dialoghi in cui si parlava di pressioni, e uscì il nome di Mannino», ha detto genericamente il testimone. Il quale nel 2003, interrogato dai magistrati di Firenze sugli stessi temi, non fece cenno all’uomo politico. «Non me l’hanno chiesto, e io non ne volevo parlare», ha provato a giustificarsi, suscitando l’irritazione del tribunale degli stessi pubblici ministeri.