Falcone, Borsellino e gli appalti di Cosa Nostra

Falcone, Borsellino e gli appalti di Cosa Nostra

 

La Procura di Caltanissetta vuole interrogare per favoreggiamento l’attuale presidente del Tribunale della Santa Sede, Pignatone, già sostituto a Palermo e poi Procuratore a Reggio e  Roma

 
 

È di questi giorni la richiesta della Procura della Repubblica di Caltanissetta di interrogare per il reato di favoreggiamento della mafia l’attuale presidente del Tribunale della Santa Sede, già sostituto Procuratore a Palermo e poi Procuratore della Repubblica a Reggio Calabria e a Roma,Giuseppe Pignatone. È poi intervenuto il generale dei Carabinieri Mario Mori per invitare a guardare con più attenzione agli intrecci di affari tra la mafia e le grandi imprese del Nord. Un quadro terribilmente chiaro di questi rapporti è stato peraltro disegnato dal generale, insieme al suo collaboratore del Ros all’epoca capitano Giuseppe De Donno, nel libro pubblicato da Piemme, La verità sul dossier mafia-appalti. Nel febbraio 1991 Mori e De Donno consegnarono a Giovanni Falcone, in partenza per l’incarico ministeriale, un Rapporto avviato nel 1988 sulle attività economiche, concessioni e appalti acquisiti e gestiti da Cosa nostra in accordo con grandi imprese quali la Rizzani De Eccher, il gruppo Ferruzzi, la Tor di Valle presieduta dal genero di De Gasperi e altre ancora.

Falcone prese il volume di 980 pagine con un sorriso ch’era quasi un ghigno e la frase «Adesso ci divertiamo». L’inchiesta quinquennale redatta dai carabinieri del Reparto Operativo Speciale ricostruiva, grazie soprattutto a migliaia di intercettazioni telefoniche, la solida, ordinaria collaborazione tra esponenti politici e amministrativi, imprese soprattutto edilizie, professionisti, esponenti mafiosi.

Tra le aziende coinvolte nell’aggiudicazione degli appalti siciliani un ruolo importante svolgeva la Sirap (Società incentivazioni reali per attività produttive) controllata dall’Espi (Ente siciliano per la promozione industriale), presieduto da Francesco Pignatone, padre del magistrato. Il procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco, ricevuto il dossier da Falcone, invece di tenerlo riservato, ne diede la più ampia pubblicità, in modo da avvertire i maggiori interessati. Il Procuratore, insieme ai Sostituti Pignatone e Guido Lo Forte, dimostrò subito di non apprezzare molto l’inchiesta dei carabinieri del Ros. Ritenne inutile anche interrogare il geometra Li Pera disposto a collaborare sui traffici dell’impresa Rizzani De Eccher.

Una importante collaborazione ai carabinieri del Ros fu fornita da Angelo Siino, distaccatosi da Cosa Nostra, che a suo dire era stata informata del dossier sugli appalti proprio dal magistrato Pignatone, «in virtù sia della posizione del padre sia di quella del fratello, avvocato dello Stato e consulente dell’Assessorato ai lavori pubblici del comune di Palermo». Un altro collaboratore di giustizia, Giuseppe Marchese riferì dell’acquisizione da parte del procuratore Giammanco, scomparso nel 2018, della somma di due miliardi di lire per l’illecita gestione del procedimento scaturito dal Dossier mafia-appalti. Nel 1998 Giovanni Brusca, l’attentatore di Capaci, riferirà ai Sostituti Luca Tescaroli e Antonino Di Matteo dell’ira di Totò Riina per aver saputo di un canale privilegiato col magistrato Pignatone dei mafiosi-imprenditori Buscemi, che però non intendevano condividerlo con altri. Molto più di Angelo Siino un ruolo centrale nei rapporti di affari tra Cosa Nostra e le imprese del Nord svolgerà l’imprenditore di Agrigento Filippo Salamone. Costui riuscirà a patteggiare una condanna evitando l’associazione mafiosa ed era a sua volta fratello del giudice Fabio della Direzione distrettuale antimafia di Brescia, che metterà sotto accusa Antonio Di Pietro.

Di Pietro era stato in stretto contatto con Falcone e Borsellino e aveva sempre pensato che il Dossier mafia-appalti si estendeva dalla Sicilia all’Italia del Nord. Pensava anche che Mani Pulite a Milano colpiva gli stessi intrecci tra le imprese e la mafia che i carabinieri del Ros e Falcone e Borsellino cercavano di perseguire in Sicilia tra mille ostacoli, frapposti anche da altri magistrati. Sarà ancora Di Pietro ad affermare che Falcone e Borsellino verranno uccisi non per quello che avevano fatto col maxi-processo a Cosa Nostra siciliana, ma per quello che avrebbero potuto fare con una corretta gestione giudiziaria del dossier mafia-appalti.

Nel febbraio 2020, nella trasmissione Omnibus condotta da Gaia Tortorasu La 7, Antonio Di Pietro affermerà che «Mafiopoli e Tangentopoli erano due facce della stessa medaglia» e che era stato centrale anche per l’inchiesta milanese il documentato Dossier redatto dai carabinieri del Ros di Palermo. Ma questa decisiva inchiesta fu insabbiata da alcuni giudici di Palermo e provocò l’assassinio di Falcone, di Borsellino e delle loro scorte.

diFrancesco Barbagallo Corriere del Mezzogiorno 6.8.2024